Archive for dicembre, 2008

L’eremita di Barranquilla


28 Dic

Un solitario del secolo ventunesimo, un monaco di clausura rinchiuso nel suo eremo nel centro di una città di due milioni di abitanti. Robert era il discendente di una famiglia nobile, di origini europee, che l’evolversi del tempo e delle rivoluzioni non ha toccato nella provincia del Caribe. Ancora sopravvivevano in lui retaggi di tempi lontani, di quando i bambini degli anni sessanta venivano educati a distinguersi dai “meticci”. Aveva una cugina, Marvel, che qualche decennio prima aveva combattuto il machismo e altre staticità barranquillere con l’arma della parola. Morì giovane a Parigi, dove ancora la ricordano nell’olimpo delle scrittrici latine.

Odiava il mondo, Robert. O, meglio, nutriva una profonda sfiducia in quello che era diventata, a livello globale, la razza umana. Per questo non abbandonava mai il suo nido di VillaKronopyos, un’antica casa repubblicana che profumava a pace nel centro della città più assurda del mondo. Usciva di casa la notte, quando i suoi nemici dormivano, per bagnare i suoi fiori e maledire quel multiforme inquinamento che gli toglieva le stelle e il profumo del mare. I giorni, li passava a “lavorare su me stesso”, così diceva estasiato. E i suoi strumenti erano interi scaffali pieni di libri, di dischi, di film. Era un cultore del diciottesimo secolo, e di tutto quello che artisticamente lo rappresentava. Conosceva Boccaccio e la storia dettagliata delle Repubbliche Marinare italiane, ascoltava Palestrina e i System Of A Down, viveva di retrospettive cinematografiche catastrofiste e reali. “Italiano, eh? Ah bene. Allora ci guardiamo subito un live della Premiata Forneria Marconi, gente in gamba”.

Era un figlio della psichedelìa, Robert. L’avanguardia musicale degli anni ’70 lo aveva travolto in pieno, trascinandolo in un mondo di acidi di funghi e di qualsiasi cosa potesse allucinarlo. Per diciotto lunghi anni era scappato alla morsa del mondo calandosi qualsiasi droga immaginabile. Poi, aveva scoperto Shakespeare e aveva conosciuto una donna. Quindici anni fa l’ha sposata, a lume di candela della loro cucina mentre preparava la cena, l’ha sposata senza preti né burocrati nè testimoni e da allora non può più vivere senza di lei.

Sono tornato a Barranquilla ed ho eliminato tutto ciò che questa città aveva rappresentato per me. Non ho cercato nessuno, ho lasciato il cellulare spento, nemmeno il sole del caribe ho incontrato. Immediatamente, però, sono andato a bussare alla porta di VillaKronopyos, a passare i pomeriggi tra disquisizioni sul razzismo d’Europa e la genialità dei Focus. Ogni tanto qualcuno suonava al campanello. Robert abbassava il volume, stava un minuto in silenzio e strizzandomi l’occhio scoppiava in una profonda risata.

War is over…


24 Dic

Ai disperati e agli allucinati, alle maschere di terracotta, a chi ci crede e mangia panettone e certezze, a chi non ci crede e beve dubbi e champagne, alle puttane di Avenida Jimenez, ai pini sacrificati al rito, a quei bambini di strada a Buenaventura, a quell’obeso rosso della cocacola, ad Alexander Lukashenko che mi fissa da dietro al computer, al Reparto Caldaie dell’inferno, ai milioni di disoccupati e agli occupati socialmente dannosi, a quel tipo che non è arrivato a Sydney per sessanta miglia, a quelle quarantamila specie animali che stanno scomparendo, a Paolo Villaggio, ai trentamila mototaxisti che mi hanno scarrozzato quest’anno, ai pagani cui rubarono la festa 2008 anni fa, a chi è nella merda fino al collo, a Enzo Jannacci, ai megalomani incalliti, ai fumatori di ossigeno, a quel grande che tirò le scarpe a bush, alle famiglie a cui manca un pezzo, ai cassintegrati della Lapponia un augurio di buona illusione natalizia, e non incazzatevi se è solo un’illusione.

Martedìmattinaore11.54


23 Dic

Viaggiare non è vedere Kathmandu. Viaggiare è sognare Kathmandu.

Ambasciator non porta…


19 Dic

Leggo dell’esistenza di un’ambasciata d’italia nello stupefacente stato del Vaticano, e non ho nemmeno più voglia d’incazzarmi. Se hanno deciso di mettercela, a qualcosa servirà (ah, ah). Spero almeno che per risparmiare l’ambasciatore mantenga le comunicazioni con Roma tramite i piccioni viaggiatori, o una bici.

Ma poi decido d’incazzarmi lo stesso, perchè qualche ambasciata italiana purtroppo ho dovuto visitarla, ed è stato proprio in quei lugubri covi di paraculati burocrati (a Vilnius il nostro ambasciatore ha uno stipendio più alto del Primo Ministro, ma fa lo stesso) che mi sono vergognato di essere italiano.

A Bogotà, per esempio. L’ambasciata d’italia è un bunker di guerra tra i palazzi residenziali del nord. Circondata da filo spinato, è popolata e difesa dagli esseri più insulsi e maleducati che si potrebbe mandare a rappresentarci all’estero. Questo, ovviamente, se si è colombiani, perchè inutile dire che il trattamento riservato agli utenti è diversificato dalla cittadinanza di questi ultimi.

E’ accaduto, per esempio, che una persona abbia avuto bisogno di informazioni e assitenza a proposito ddi un visto per poter studiare in Italia. Invitazione d’ateneo in regola, fogli e papeli e scartoffie a posto, appuntamento in ambasciata per risolvere un piccolo problema apparentemente piccolo: gli italiani richiedono un deposito bancario enorme per poter accettare lo studente colombiano.

L’appuntamento è alle 2.15, ma l’Avenida Jimenez è bloccata per traffico e si arriva lì 4 minuti dopo. Gli italiani, famosi per il loro proverbiale senso della puntualità, non possono tollerare una cosa del genere e annullano l’appuntamento. “Torni il prossimo mese, il 3 di gennaio”. E non importa se tu arrivi di Barranquilla, 22 ore di autobus dal maledetto bunker. Visto che però spunta fuori un incazzatissimo balticman dotato di passaporto italico, il burocrate ci ripensa e concede un rapido incontro (a me, senza colombiani di mezzo) per mettere in chiaro, tra le righe, un concetto tutto sommato già sottinteso: “abbiamo precise disposizioni di ostacolare qualsiasi colombiano che voglia studiare in Europa”.

E a questo punto, fanculo alle ambasciate, agli ambasciatori, ai governanti e a questo faccione da politico che in televisione mi sta parlando di “gestire il flusso di immigrati”.

Si stava meglio quando si stava peggio (?)


15 Dic

Anni e anni di retorica e di lagne sfumano in un solo minuto. Ne avete riempito le sale d’attesa ai dottori, in ogni lingua l’avete menata alle file dei supermercati: questa valanga a cielo aperto sommerge anche voi. Oggi si, rinchiusi e incolonnati in un’autostrada, preoccupati davanti a una finestra per il tetto strapieno di neve, bagnati marci a spalare un verosimile buco nell’acqua, godetevela tutta la vostra bella stagione di una volta.

Me l’ha detto Tito


13 Dic

Se ne tornò un giorno a casa sposato.

Il foglio di carta in mano, la catena di spine in testa. Ma niente fede nuziale al dito, nessuna cravatta appesa al collo, assenza di profumi sulla sua pelle. E nemmeno una sposa tra le braccia, a dirla tutta.

Si era sposato quel pomeriggio alle sei, nel limite invisibile tra l’inizio e la fine, perchè a quell’ora nelle strade esplodeva l’onda tiepida del brivido notturno, e al momento del sì senza un motivo preciso ripensò a quei tempi freddi nelle pianure prussiane, a quando alla stessa ora si celebrava la morte del giorno tra l’intima sicurezza di quattro mura. Quindici minuti dopo erano entrambi ubriachi, nel patio del municipio, a chiedere il fuoco a un testimone per accendersi in bocca l’incenso nuziale.

Poi, fedeli a una tradizione strettamente interpersonale a loro, salirono su un taxi per festeggiare in un motel della periferia una prima notte anticipata all’ora dell’aperitivo.

Il contratto reale in quel matrimonio era però indubbiamente occulto. Quel plico di stronzate snocciolate in faccia allo sguardo scettico del burocrata racchiudevano in sè un potenziale emozionale infinitamente maggiore dell’ipocrisia vitalizia nella quale si avvolgevano. Con quel matrimonio, in realtà, componevano un segreto a quattro mani vivo e definito solamente tra di loro, inestricabile al mondo di fuori. Un silenzio totale avrebbe per sempre accarezzato il loro scrigno, uno strato di metallo pesante che si sarebbe abbattuta sulla verità del loro esistere in osmosi.

Finchè morte non li separò.

Cara università ti scrivo


11 Dic

Caro Sig. Baltic Man,

Mi scuso per il ritardo con cui le rispondo, ma una serie di impegni di
famiglia (non previsti) e di lavoro (previsti), cui si è aggiunto anche il
cambio di computer all’università, con scontate conseguenze sul ricevimento
delle email (ovviamente anch’esse non previste, e pare che i guai ancora
non siano finiti), mi ha costretto a procrastinare i miei obblighi nei
confronti di tutti i corrispondenti, sicché solo adesso riesco lentamente a
emergere. Per il suo caso specifico (ovvero l’anticipazione di una parte
della trafila burocratica, come lei mi chiede) non posso fare nulla, perché
contrariamente agli studenti Erasmus per i quali è prevedibile, e quindi in
un certo senso in qualche modo anticipabile l’iter che dovranno percorrere,
per quelli del CINDA invece, per quanto ne ho capito (finora le richieste
sono state poche), ogni curriculum è un caso a sè stante, e soggiace a dei
criteri valutativi che vengono espressi da una commissione rettorale della
quale almeno finora non fanno parte i delegati alle relazioni
internazionali delle singole facoltà. In pratica noi riceviamo gli
incartamenti a cose fatte e spesso nemmeno quelli, in quanto per la sua
particolare tipologia lo studente CINDA (o per lo meno quello che si
iscrive a Genova) si rapporta direttamente con gli uffici centrali per
quasi tutto. Noi invece gli forniamo il supporto informativo per quanto
riguarda esami, lezioni e via dicendo assieme al relativo “iter”. Spero di
essere stato abbastanza chiaro, ma se ci fossero altre questioni continui a
scrivermi: le prometto che, contingenze dela vita e di lavoro permettenti,
sarò più sollecito nel risponderle. Cordiali saluti.

(risposta odierna a una mail che inviai nel gennaio 2008).

Illusione a -6°


09 Dic

Toccata e fuga in un Paese in guerra. Anche se nelle strade la musica abbraccia il profumo di vita di un popolo intero, è nelle puttane della Jimenez o nei barboni di ogni angolo la realtà della faccenda. Sfumano nei bambini-ambulanti e nel 75% di vecchi senza pensione le avanguardie dell’arte e l’ultimo Juan Valdez aperto a Los Angeles. Il sentimento di pace interiore risorge solamente tra le palme di Santo Caribe, sulle carezze che il vento dell’alba lascia sulle tue labbra fameliche.

Tutt’intorno la gente balla, le fotosequenze si ripetono, una mamma andina si carica il figlio sulla schiena come un fagotto, come un sacco di mais lo trascina nel suo vagare. Fottendosene del professionista luminare che le marcia accanto, direzione Miami e un’aula di chissà quale ateneo. Quando è già buio un negro del Pacifico ti ferma, ti mormora qualcosa nel suo slang e ti invita a ballare, e la ritmica è un ipnosi totale che riporta a centoquindici vite passate, quando gli uomini si muovevano dipingendo ellittici tratti perchè le gambe si chiamavano elastici. Una televisisone parla dei casini nel Putumayo, in quel quadratino d’inferno separatosi dal Paradiso dell’Amazzonia. Dove un giorno apparve la coca, e si trascinò dietro come una maledizione biblica i narcos, i paramilitari, la violenza, i sequestri, le improvvise sparizioni. E scomparve lo Stato, lasciando su un palo un pezzo di stoffa. “Le Piramidi” sono le ultime piaghe di questa gente. Un’assurdità reale, un sistema così inverosimile trasformato in realtà dal nonsense del Tropico. Se certa gente su poltrone vellutate ha moltiplicato i pani e i pesci in poco tempo perchè non potrei riuscirci anch’io, questa la matematica del meccanismo.

Perditi con me nei sentieri di Sierra Nevada e raccontami la tua terra. Parlami di tuo trisavolo e di Simon Bolivar, di una vecchia strega e del suo iguana, di quello che mangi e dell’aria che respiri. Raccontami tutte le tue favole indigene e mettici dentro il secolo ventuno, un aereo, il futuro. Tu sei Colombia, indecifrabile e magica.

Bogotà


05 Dic

traffico, fumo, altitudine, arepa con huevo, chinatown, mamme andine coi figli sulle spalle, lunghe trecce nere, freddo, eleganza, multietnicità, mille facce un solo paese.

Diary of a Baltic Man

Real Eyes. Real Lies. Realize.


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