Pare che in Argentina il miglior vino di produzione nazionale venga destinato al consumo interno, anzichè esportato. Ma pensa te. Sarebbe una situazione quantomento bizzarra, nel contesto dell’America Latina.
Archive for marzo, 2009
L’ultimo dei ribelli
Lo chiamavano “l’ultimo pastore delle Alpi Marittimeâ€.
Conobbe il mondo attraverso la guerra, conobbe l’uomo attraverso la guerra, e non gli piacquero né l’uno né l’altro. Tornò sulle montagne, deciso a non scendere mai più. Non scese mai più.
Per ottant’anni il mondo si dimenticò di lui, poi un giorno, forse perchè la vecchiaia ha ammorbidito la sua pelle, forse perchè il mondo ha sempre più bisogno di idoli, libri televisioni e cinema sono saliti a cercarlo.
Io l’ho conosciuto da bambino. Mio padre, vagando su quelle stesse montagne, l’aveva scoperto di fronte alla sua casa di pietra. Divennero amici, mi portò con lui su dal Vecio, e la visita alla casa di Sereno divenne, con il passare degli anni, un lungo nastro di canzoni cantate con le lacrime agli occhi, di pane salame vino e poesia, di uomini e lupi nel set nero della sua cucina in pietra affumicata.
Un giorno, esasperato dagli uomini e dal mondo, quel nastro mi ricorderà che Armando Sereno è esistito per davvero.
Ãgúst Ævar Gunnarsson
I bassifondi, mi interessano. L’estetica del semplice, la poesia dell’infinito. L’inquietudine di un cielo grigio, requiem costante. Pelle bianca color di nulla, di malattia, trasparente anima invisibile cute.
La musica del silenzio di un canto perduto, lontano dalle vostre coordinate spazio tempo. Io volevo cantare cose che non riuscivo nemmeno a comprendere, voi le avete trasformate in parole e in messaggi, in messaggi sublimi, in arte. Odio la musica, entità divina fino a quando non si traduce in suono. Perchè questa è l’imperfezione della musica: smettere di non-esistere nel mondo irreale, per tradursi in melodia e quindi in onde sonore e quindi in vibrazioni. Vibrazione: forma di comunicazione primaria e primitiva percettibile all’orecchio umano, e per questo ingannatrice. I vostri timpani vibrano su corde diverse, e trasmettono un suono o un colore del suono diametralmente opposto a ciò per cui nacque, un’inquietudine da venerdì sera sul parallelo 10. La musica è una forma di comunicazione decisamente imperfetta, mio caro. Trasmette un input ma non un messaggio, e paradossalmente solo funziona quando un significato originario si perde nei canali di chi ascolta. O è chi ascolta a perdersi nei canali del significato originario, se la melodia è palindroma e confusa. Palindromo e confuso. Così volevo essere io, così voleva essere la mia musica. Confondervi e crearvi in musica, prendervi per mano e perderci tutti insieme durante il cammino e tornare insieme, tornare all’origine, noi soli senza orchestra e senza arrangiamento alcuno, ritrovarci là dove eravamo partiti e non riconoscerci.
Ho abbandonato la band dopo il secondo album. L’America era troppo lontana, e alla luce ho sempre preferito il buio del mio Profondo Nord.
Mi hanno detto che adesso vi considerano asceti, divinità misteriose e poeti di una lingua che avete inventato. E grandi musicisti, muse ispiratrici per altri dei. Io continuo a vedervi uomini. E musica.
Avevano ragione i Simpson
Vi guardo nascosto dietro uno spioncino, lo schermo di un computer. Sensibile ai cambi d’umore del mondo, dal mio sudicio nido vi leggo e vi osservo, vi ascolto e non vi sento.
Ho incontrato un giornalaio di sotto per strada, mi ha parlato di voi. Vendeva pezzi di carta sporchi d’inchiostro, e in allegato regalavano una bottiglia di rhum. Pacchetto completo. Ho comprato il rhum ed ho buttato il giornale, siamo nel terzo millennio e la depressione ormai si può contrattare via internet. Sono sceso per strada con i miei pantaloni andini bianchi, sporchi di mondo ed intrisi di me. E per strada, in questo villaggio di sconosciuti dalle faccie già viste, salutavo persone che mi guardavano con stupore. C’era il macellaio, l’autista del pulmino, l’artigiano delle bare e la signora col passeggino, come stai e come sta la mamma, salutami tuo padre e passala bene e ciao ciao, ma parlavano in una lingua straniera e non ho saputo rispondere niente. Mi accarezzava il vento nei capelli e bestemmiavo contro il vento negli occhi, impazzivo, poi una macchina scura è passata a ritmo di tunz tunz e ho riconosciuto mio figlio al posto di guida. Voi non lo sapete, non lo potete capire, ma la mia carne profuma di magnetico-mattina. Tra scandalose carezze, morsi di affetto su una crosta di pane dura, dura e vecchia. E’ così oggi qua e così era ieri là , eppure lontani non si stava male, vicini mal non si sta, e un foglio di carta sempre bianco a ricordare l’inconsistenza dei miei pensieri. Fogli di carta, pagine di viaggi, storie di insuccessi e romanzi di vendetta, filosofia di seconda mano, lo scrittore è un personaggio di sé stesso e probabilmente non vale nemmeno la pena incontrarlo.
Avevano ragione i Simpson. Nell’emisfero australe, l’acqua nella tazza del cesso gira in senso inverso.
Floggers uma-uma
Pare che Buenos Aires sia infestata da un virus particolarmente fastidioso, anche se innocuo. I floggers, l’ultima boiata nel tema di quelle grandi boiate che vengono definiti da quei boiari dei sociologi urbani contemporanei “tribù metropolitane”. Un ossimoro interessante, “tribù metropolitana”, un modo elegante e trendy (anche trendy è un modo elegante e trendy per dire “alla moda”) per dire che stiamo velocemente retrocedendo verso quel mondo animale da cui proveniamo, un modo per dire, in due o tre paroline, che siamo fottuti.
Questi floggers, etimologicamente (altro “?”) un incrocio tra “fotolog” e “bloggers“, ossia tra due parole che etimologicamente non esistono, sarebbero adolescenti, o teenagers che dir-si-voglia, che smettono di dedicare le loro giornate alla sana masturbazione per pettinarsi in modi astrusi (o trendy), riempirsi di piercings e fotografare la loro bella faccia da culo in casa loro, nella stazione della metro, o al centro commerciale “GranAbastos“, un tempo sede del più grande mercato agricolo della città (l’architettura ricorda tempi migliori), oggi appunto centro commerciale sede dei floggers, e testimone del deterioro dei tempi. Ah, dimenticavo, i floggers, da vera e propria tribù urbana quali sono, anelano segretamente picchiarsi come scimmie selvaggie con altre simpatiche tribù metropolitane, come gli Emo, i quali pare esistano anche in Europa, ma qua mi fermo perché ovviamente nessuno di noi vuole sapere come si vestano questi Emi, né di che si nutrono, né come si spulciano tra di loro.
Goethe
Sì, no soy màs que un caminante, un perigrino en la tierra. Pero, vosotros sois algo mà s?
Los sufrimientos del Joven Werther
L’America è un concetto e non un luogo
Pare che l’Argentina degli anni dieci, o venti, o trenta, fosse un casino ineguagliabile di elementi. Mi piace immaginarla come un foglio bianco, infinito, dove milioni di linee definiscono un’elaborazione astratta. Fusione di elementi, apoteosi della novità , celebrazione del Diverso: tutto esplodeva nell’assenza di regole, l’Uomo poteva allargare le braccia e graffiare la Libertà .
Quattro abitanti su cinque, nella sua capitale, erano immigrati. Quattro abitanti su cinque, e nessuno dei quattro parlava la lingua degli altri tre. Avventurieri, disperati, fuggiaschi, yugoslavi, quintogeniti, primogeniti erranti, italiani, coppie affamate, musicisti incompresi, spagnoli, affaristi falliti, pizzaioli, annoiati, esiliati. Ognuno sceso dal suo transatlantico in un Mondo Nuovo X, la chiamavano Buenos Aires ma avrebbe potuto tranquillamente essere New York, o Timbuctu: mio nonno stesso, ancora oggi, chiama tutto ciò che esiste dall’altro lato di un ipotetico oceano La Merica, un elemento indefinito dove tutto è presumibilmente più grande, più verde, più dubbio.
Vista da lontano, Merica (o Buenos Aires) era, allo stesso tempo, overdose e religione, ribellione e SecondLife, futuro e fantascienza, rinascita e morte.
Difficile immaginare un luogo migliore, di quell’Argentina degli anni venti.
p.s. nuove foto su flickr.
Il vero ambasciatore di Buenos Aires
Buenos Aires la conobbi qualche tempo fa, quando scoprii nella cosiddetta rete il blog di Tanoka. Post dopo post (che potrebbe anche dirsi post post post, ah ah), ho cercato di annusare lo spirito dell’Argentina vista da un tano, fino a quando il richiamo è diventato irresistibile.
E’ quindi un onore per me sedermi al banchetto del suo blog. Nell’attesa di una birra.
L’improvvisazione nell’arte e nella vita
Certa roba va più in là del semplice concetto di “musica†così come televisione radio cultura popolare insegna. Passando per le droghe e la psichedelia, raggiunge universi sconosciuti di puri sperimentalismi dove i concetti di genere e di “ensemble†già non contano più niente. Quello che ne viene fuori è una mistura di esperienze vissute, di vita assimilata e metabolizzata sottoforma di scale cromatiche, un amplesso onanistico che si trasforma misteriosamente in un’orgia collettiva, il piacere del singolo musicista si amplifica nell’espressività degli altri.
Questo tipo di musica, definitivamente scomparso, ha conosciuto i suoi massimi albori negli anni ‘70, quando le droghe psichedeliche non erano ancora state scoperte dai moralisti della domenica, e l’esplorazione di nuove forme artistiche ne era la rappresentazione più evidente, l’eredità migliore lasciata ai posteri. Senza nessun tipo di presuntuosità particolare, e citando un’idea di Nachmanovitch, mi piace pensare che non si tratta di musica per tutti: chi vive rinchiuso tra quattro accordi che variano tra strofa e ritornello, non potrà percepire il misterioso matrimonio perfetto tra i diversi componenti del caos.
Shocks generazionali
Tanto tempo fa, nella stretta valle dalla quale provengo arrivò l’Inquisizione, e come da sacra apostolica romana abitudine probabilmente diedero fuoco a qualche anticlericale dell’epoca. Da lì, un’abitudine che si è consolidata nelle generazioni, arrivando fino a mia nonna e quindi fino a me: “di religione non si parla”. Meglio così, per evitare problemi.
Nella Buenos Aires di trent’anni orsono, 30.000 giovani scomparvero nel nulla, o meglio, nelle acque del Rio La Plata (o vennero invitati a un simpatico giro turistico al mare, come disse quel simpatico umorista). La madre della mia coinquilina, che studiava nella capitale e lì viveva con un gruppo di altri studenti, uscì a comprare il pane. Una volta tornata a casa, i suoi coinquilini erano tutti morti. Ognuno nella loro stanza, tutti morti. Lo stesso giorno, la madre della mia coinquilina se ne tornò a Mendoza, strappò dalla sua stanza i poster di Che Guevara e dalla libreria ogni libro, e sotterrò tutto in una profonda buca nel giardino. Quando sua figlia le parla dei circoli artistici della Capitale, o di un concerto organizzato dalle Madri di Plaza de Mayo, sua madre le risponde: “di queste cose non si parla”. Meglio così, per evitare problemi.