Già da qualche giorno mi sono stabilito nel pueblo caribeño di Salgar, Colombia. Un’esperienza di solitudine condivisa con il vento e l’oceano (l’oceano, non il mare: l’oceano), in un paese dove 10 km di distanza dalla città assumono un altro significato.
Ho una casita con due stanze una cucina ed un bagno, ho una terrazza ed un patio sabbioso, non ho vetri alle finestre ma ho ottime infereriate, ho l’amicizia di doña Aurelia che mi regala qualche patacòn al sabato, ho acqua gas luce e casa alla modica cifra di euro 61,78 mensili, ho un’amaca appesa a due palme di fronte a casa, ho un tetto che resiste alla tremenda stagione della pioggia che va iniziando, ho due fornelli, un letto ed un ventilatore, non ho ancora il frigo ma ho internet (contraddizioni del nostro tempo).
Nei giorni settimanali insegno italiano all’Universidad del Norte, cercando più che altro di capire per quale assurda ragione undici persone sborsano una cifra considerevole (in Colombia l’educazione è basata sullo stile gringo) per imparare una lingua progressivamente impoverita da chi avrebbe il compito di salvaguardarla, gli italiani stessi. I giorni festivi saranno dedicati alla ricerca di tutto ciò che la globalizzazione (che vorrà dire, poi?) pare dimenticare.
Quando manca la luce e Salgar resiste a luna di candela, vale la pena essere qua.