Montagne denudate del loro intimo silenzio, sacrilego rituale pagano non peggiore di altre barbarità valligiane [i centri commerciali traboccano. Umanità bambina].
I moderni pellegrini inseguono sulle cime più alte la chimera di una diretta televisiva, “esserci†significa “essere là dove si spingono le telecamereâ€, esistenzialismo applicato alla realtà contemporanea.
A lui comunque tutto questo non interessa.
E’ lì per la musica, la voce del passato invisibile nel tempo.
Lo speaker radiotelevisivo esagera gli intervalli tra suono e silenzio, frenesia del piano di sotto in contrasto con ritmi d’altura, tradizionalmente, lenti.
Donizzetti, Mendelssohn, Rossini. Dove giocavano già più? In un’epoca in cui l’arte primeggiava sullo spettacolo, e il re stringeva uno scettro e non un microfono.
Le montagne, comunque, sempre uguali. Sempre lì, millenarie.
Lo speaker esalta aforismi di patria e bandiera, eppure per lui gli unici eroi possibili indossavano parrucche bianche e vestiti a fronzoli, romantici simboli di rinascimenti perduti.
A contraddire lo speaker comunque ci sono le casette militari. Pietre su pietre, sangue su sangue, pietre su sangue. La montagna non ha pietà per i labili confini dell’uomo. Sessant’anni dopo l’ultima carneficina, la montagna tutto cancella e niente perdona.
E poi comunque ci sono le aquile, i fiori, le nuvole, il nulla. Un frammento di neve che resiste al grigiume di un mare di pietre, prolungata agonia di un’estate che in extremis vincerà .
L’uomo della televisione comunque continua a parlare, la sua dialettica stordisce e colpisce. Molesta e attira. Irrita e anestetizza. Distrugge, conquista.
La musica propone e s’impone. Insinua ma non obbliga. Illude e svanisce. Dignitosamente vince, è eterna.
Foto di Elianto Blu