Contro le coverbands

27 Ott

Hot_Space_Queen_Tribute_Band.jpg.bigSe la musica può essere considerata uno strumento efficace per scattare una realistica fotografia sulla situazione culturale di un’intera società-, allora, ancora una volta, l’Italia è definitamente fottuta. Cinquecento anni più tardi di Palestrina, cent’anni dopo Verdi, la musica del cosiddetto “popolo” è ormai quella (scimmiottata) di altri, possibilmente in inglese.

E’ il fenomeno delle “cover-bands”, di quei gruppi di musicisti che si dilettano ad eseguire alla perfezione un pezzo scritto e interpretato, originariamente DA altri e/o PER altri. Con ambigue conseguenze, del tipo: “oh! Ho sentito una cover band dei Nirvana, tiggiuro che il cantante era uguale a Kurt Cobain. E pensa che dopo il concerto si è suicidato in un garage”.
Quando tende verso il parossismo, la cover band si propone addirittura di migliorare la versione originale, la qual cosa, si commenta da sola. (“oh! Ho sentito una cover band dei Led Zeppelin, pensa che il solo di Stairway to heaven era ancora più bello che nell’originale).

Il problema, effettivamente, sta proprio qui. Nel fatto che molte volte i membri delle varie cover bands sono veramente dei bravissimi musicisti, che per qualche inspiegabile motivo scelgono di ripetere all’infinito quattro accordi già ripetuti all’infinito, o, peggio ancora, salire su un palco vestiti come Freddy Mercury.

Perché? Bella domanda. Il fatto che così facendo si guadagni di più, è vero solo in parte. E comunque, ricordo bei tempi in cui i musicisti erano artisti, prima ancora che mercanti. Ma anche ammettendo il discorso del musicista-prostituta, trovo comunque molto più dignitoso ricoprire il ruolo fino in fondo, e suonare il genere meretricio per eccellenza, e cioè il liscio, piuttosto che atteggiarsi da star nelle varie festacce della birra locali per poi cantare Cicale-Cicale, o che so, qualsiasi canzone di Bob Marley o Jimi Hendrix, scritte per ben altri contesti.

La causa ultima, ovviamente, sta nel pubblico. Fedeli alla disgraziata linea del “si dà alla gente quel che la gente vuole” – che ci ha regalato perle come La ruota della fortuna o Il grande fratello, ricordiamolo –, musicisti e gestori di locali organizzano i loro spettacoli intorno alle covers, meglio se ascoltate e strascoltate, per consentire alla pollastra seduta in prima fila di ricavare soddisfazione dal muovere la testa e dire “ah si questa la conosco”, mentre la band suona Another Brick in the Wall, o Il cielo è sempre più blu, che poi viene riconosciuta come “quella della pubblicità”.

La conseguenza è piuttosto evidente. Un popolo che continua ad ascoltare le stesse canzoni, che si afferra al già esistente anziché sperimentare, un popolo che cerca conferme (conferme de ghe?) ed ha paura del nuovo, è un popolo fottuto. Definitivamente fottuto. Artisticamente estinto, culturalmente imbalsamato, socialmente ammuffito e politicamente retrogrado.

L’italia, insomma. L’italia e gli italiani. La più grande tribute-band dei Queen (come gli originali!) è italiana, i migliori scimmiettatori de U2 (meglio degli originali!) sono modenesi. Tutto questo, mentre a Kassel, una città qualsiasi in Germania, ogni sera si presentano in scena concerti rock inediti, e mentre a Bogotà il lunedì come il martedì o il sabato sera si può assistere a spettacolari combinazioni di rock e ritmi latinoamericani, flauti indigeni e musica elettronica, psichedelie audiovisuali miste a free-jazz.

Che fare quindi? Emigrare può essere una soluzione. Sottoscrivere una petizione a Napolitano, un’altra. Oppure presentarsi al prossimo concerto di una cover band dei Pantera, e sparare al chitarrista. Solo per dare un effetto ancora più realistico alla faccenda, ovviamente.

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11 Responses

  1. Cournot ha detto:

    Ma il plurale di “pubblico” è davvero “pubblici”? Mamma mia come suona male.
    Non l’avevo mai sentito… 😉

  2. Paolo ha detto:

    Mah… registro l’indignazione, ma saltare dalle cover band alla fottutaggine (Cournot, non so se esiste) del popolo italiano mi pare un po’ esagerato!

  3. Baltic Man ha detto:

    Hai ragione cournot. Sono un cane. Corretto, anzi, eliminato 😉

    Dai era una provocazione, quella della fottutaggine.
    Anzi, no.
    Alla fine c’è un legame invisibile tra le due cose!
    O no?

  4. Cournot ha detto:

    No no, la mia non era una domanda retorica! Cavolo, mi ero convinto che fosse giusto.

    “Senza cultura siamo poca cosa” disse un famoso amministratore delegato in un’intervista.

  5. stefania ha detto:

    Bello sandro, son d’accordo. Musicisti che preferiscono unirsi in cover-band, e pubblico che sceglie di sentire all’infinito le stesse 40 canzoni di vasco, all’infinito. Belle senz’altro, ma si potrebbe provare a vedere se ci piace qualcosa di nuovo, di mai ascoltato. Un bell’open your mind di gruppo, dai!!!

  6. MP ha detto:

    Condivido in toto, purtroppo.
    Ma ho amici che hanno tentato/stanno tentando la scalata con pezzi loro, e sono ottimi musicisti con pezzi validi (lo so che è relativo… ma nella musica tendo a essere il più obiettiva possibile). Purtroppo in… Italia se non fai musica pop o pop/rock orecchiabile e dalle linee semplici non funzioni. Ti considerano solo etichette minori (per fortuna che sopravvivono) oppure etichette straniere (inglesi, perlopiiù… benedetta Inghilterra).
    Il pubblico è mediocre, è vero, ma è lobotomizzato dalle case discografiche stesse…
    Ho visto una campagna pubblicitaria per una tribute band di Laura Pausini per cui avranno speso quello che spende la cantante originale!!! 🙁

  7. Paolo ha detto:

    Non sono musicista, ma se lo fossi credo non avrei problemi a “dare alla gente quello che vuole” (le cover) per “finanziare la mia vera passione” (quelli che considero pezzi validi). O vogliamo essere tutti puri duri ed intellettuali?!?

  8. Baltic Man ha detto:

    Giusto, sacrosanto.
    Il problema però è che ciò non accade.
    La maggior parte dei musicisti si ferma alle coverbands, affina la tecnica e migliora la precisione e la scaletta, per rendere la coverband migliore, o più competitiva.

    L’equazione logica (suonare in coverband = avere di che vivere e quindi dedicarsi a progetti migliori) raramente si compie. Almeno in provincia, almeno qua nel nord del sud.

  9. Paolo ha detto:

    Perfetto! e se questa e l’analisi, con chi ce la vogliamo prendere, se non coi musicisti stessi?

  10. Baltic Man ha detto:

    ESATTO!
    Ma comunque loro ti risponderanno che “è quello che vuole la gente”.
    Che chi suona pezzi propri, in giro non ci suona.

  11. Cournot ha detto:

    Secondo me la voglia di ascoltare autori non conosciuti si ritrova molto più di frequente in persone che suonano o hanno suonato un qualche strumento.
    Penso che il numero di persone che si interessano a cercare o ascoltare brani nuovi sia direttamente proporzionale alla cultura musicale media.
    Le fonti di cultura musicale a mio avviso sono quattro:
    la famiglia;
    gli amici;
    la ricerca personale,
    la scuola;
    L’unico dei quattro su cui si può agire a livello collettivo è la scuola.
    Soluzione: l’insegnamento dell’educazione musicale come materia con pari dignità rispetto alle altre durante le scuole medie ed eventualmente la presenza della stessa materia anche nelle scuole superiori?
    Secondo me si, però sono talmente tante le cose che a scuola si dovrebbero insegnare di più e meglio…

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Diary of a Baltic Man

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