Archive for marzo, 2011

I miei sette figli


27 Mar


“…ma cercate di capirmi, io vorrei averli vivi, i figli, ché stessero ancora vicino a me. E ogni padre di famiglia vuole la salvezza dei figli suoi. Per questa salvezza non c’è che un mezzo, che gli italiani si riconoscano fratelli, che non si facciano dividere dalle bugie e dagli odi, che nasca finalmente l’unità d’Italia, ma l’unità degli animi, l’unità dei cuori patriottici.
(…) Io vorrei farvi sentire che cos’è avere ottanta anni, aspettarsi la morte da un momento all’altro, e pensare che forse tanto sacrificio non è valso a niente, se ancora odio viene acceso tra gli italiani.
Che il cielo si schiarisca, che sull’Italia torni la pace e la concordia, che i nostri morti ispirino i vivi, che il loro sacrificio scavi profondo nel cuore della terra e degli uomini. Allora sì, mi sarò guadagnato la mia morte, e potrò dire alla madre dolce e affettuosa, alla sposa mia adorata: la terra non è più come quando c’eri tu, sulla terra si può vivere, e non solo morire di crepacuore. E ai figli dirò: l’Italia vostra è salva, riposate in pace, figli miei”.

Sono le ultime frasi di “I miei sette figli”, le memorie lasciate da un uomo ormai stanco, Alcide Cervi, nel 1955. Vent’anni prima la barbarie fascista aveva fucilato, in un solo colpo, i suoi sette figli maschi, “contadini di scienza”, colpevoli di aver abbracciato la causa partigiana in nome del progresso e della libertà. Mai, nella storia di un popolo – e neppure nelle sue leggende – si era visto il sacrificio di sette fratelli caduti nello stesso istante, e per la stessa causa.

I miei sette figli” è una sintesi, su piccola scala, della storia d’Italia. Raccontata dal punto di vista del padre di una famiglia cattolica e comunista, contadina e moderna, coraggiosa e visionaria e per questo falcidiata dalla grettezza di un Potere miserabile.

Romania


26 Mar

Magiari. Russi. Armeni. Tedeschi. Turchi. Tzigani. Musulmani. Sintu. Valacchi. Moldavi. Rom. Ortodossi. Slovacchi. Ebrei. Greci. Ottomani. Io. Tu.

Est


23 Mar

Semplicemente ti sembra la cosa più giusta, la più logica, la meno sbagliata. Non sapresti nemmeno dire se lo fai nel nome di un dio effettivo, o se si tratta semplicemente di legittima difesa. E nemmeno potresti essere sicuro di volerlo veramente, questo ennesimo shock. E’ lui che ha scelto te, che ti ha trovato. Non puoi sottrarti.

Non si tratta semplicemente di un momento ben definito. E’ un pezzo di caos che fa parte del Tutto, è la bramosia dell’ignoto che diventa legge, è un manifesto simbolico di un disegno più grande, di cui sei creatore e suddito. Vivere la vita come un’opera d’arte, tra passione e sofferenza, desiderio e follia. Come un’opera d’arte, da costruire seguendo l’istinto, l’ispirazione del momento come unico percorso da seguire, le figure che cambiano forma lungo il cammino, la sovrapposizione degli elementi per creare intensità.

Ti diranno che sei pazzo, o cinico, egoista,uomo instabile, avventuriero. Ti diranno cose sagge, sputeranno contro la tua proposta d’avanguardia, una vita come un’opera d’arte non va presa troppo sul serio. Ma tu sarai immerso nel tuo vortice di poesia, solo e nudo di fronte all’esplosione di inaspettate bellezze, insensibile a tutto ciò che non si manifesti sotto forma di puro calore umano. E anche la distanza e la solitudine scaldano, finalmente hai imparato a capirlo.

E quindi eccoti lì di fronte a nuove idiosincrasie da scoprire, lingue sconosciute da decifrare. Tutto così nuovo e tutto così già visto, mentre pensi che in fondo pianure, montagne e deserti sono prima di tutto paesaggi dell’anima. Un altro pezzo del mondo degli uomini si apre oggi sotto i tuoi occhi, e basta chiudere le palpebre per rivedere il caos e spaventarsi di meraviglia. La vita come un’opera d’arte, tra passione e sofferenza, desiderio e follia.

Il dolce partir (di Antonio Pigafetta)


16 Mar

Il dolce partir (di Antonio Pigafetta)

Perchè rinunciare a un’esperienza?

di Gianmarco Serra
Suoni: Roberto Gotta, Davide Muccini e Umberto Bonini
Musiche: Luciano Verzieri
Visual Concept & Design: Giuliana Robecchi
Sogno: Bruno Lelli
Consulente generale: Leda Cont
Voyer di scena: Roberto De Maria

con
Antonio Pigafetta: Carlo Pascucci
Fernando Magellano: Mirio Tozzini
Polinesiana femminista: Elisabetta Magnani
Carlo V: Ignazio Chessa
L’occhio deformante della storia: Luigi Zannetti
Batgirl: Hanna Spangenberg
Marinaio nostalgico: Sergio Rosso
Marinaio che non sa nuotare: Aldo Cavoli
Marinaio astronomo: Giorgio Fiorelli
Marinaio sodomita: Valeria Botto
Mozzo sodomita: Sandro Bozzolo
Inquisitore: Alessandro Ingaria
Assistente sadico dell’Inquisitore: Fabrizio Fontana
Indio patagone: Luca Bonelli
Polinesiana che cerca l’assoluto: Linda Savarese
Polinesiana che non sa piangere: Diana Cont
Polinesiana che mantiene le promesse: Silvia Camillo
Apparizione marina: Antonio Filippone
Miraggio: Gaia Puntoni
Idea del bacio: Anna Lorenzetti
Angelo silenzioso: Gianfranca Cacciatore
Angelo inquieto che cerca l’amore: Gisella Mannini
Suora insaziabile: Paola Nutarelli
Messalina: Wilma Contessa
Cannibale esoterista: Gabriele Gori
Cannibale spietato: Sandro Culicchi Malpelo
Cannibale erotomane: Federico Piccini
Cannibale razionalista: Flavio Timpanaro
Donna Parrucca: Enrica Volpi
Poeta: Lorenzo Lustri
Declamatrice: Alessia Grimaldi
L’etica dell’estetica dell’etichetta: Stefano de Angelis
Rettificatore: Francesco Paolo Della Rosa
Nottambulo: Antonio Coluccio
Voce della coscienza: Diletta Attenni
Voce diabolica: Claudio Torregiani
Dio/Freud: Maurizio Cont
L’animale che dunque sono di Jacques Derrida: Alice Cangemi
Fisting promoter: Luca Saraceni
Tenderness promoter: Marco Ieie

Desiderio e direzione: Gianmarco Serra
(Sabato 19 a Roma. Per maggiori informazioni, qua).

L’importanza di chiamarsi Ramon


08 Mar
“Il ramo di un albero è un bastone virtuale”
Pierre Lévy

…proseguono i tentativi di analisi delle cosiddette “sociologie da facebook”, nuova dimensione diversamente reale, che presto o tardi ci ingloberà tutti nel suo paramondo fatto di “mi piace” e pecore virtuali.
Scopro sulla mia pelle i potenti effetti di questa controversa sostanza virtuale, in quanto a “furto di personalità“. Lo scopro attraverso un processo tutto sommato involontario, di cui mi ritrovo, adesso, vittima e mandante.

Il fatto è che tempo addietro (parecchio tempo addietro, nell’era geologica della rete), ho cambiato il mio nome di accesso su quella piattaforma virtuale. Mi sono trasformato in “Ramon Pelotas”, forse perchè mi allettava l’idea di essere rappresentato da un nome particolarmente demente, forse perchè in un pueblo della Colombia centrale avevo passato una piacevole giornata con il pazzo del villaggio, un ottantacinquenne senza denti ma piuttosto abile nella charla, non ricordo nemmeno più io il motivo. Ramon Pelotas, appunto.

Fatto sta che sono diventato Ramon Pelotas, e la mia vita è cambiata. Cioè no, ho continuato ad essere quello che ero, ma per molta gente (gente “virtuale”) mi sono trasformato in una nuova identità. Un’identità che pubblica foto e video e musiche e messaggi, che commenta e condivide, che ha una faccia conosciuta (anzi trentacinque, tante sono le mie foto del “profilo”), e che, soprattutto, è assimilato a un nome. Ramon Pelotas.

Accade infatti che io viva la maggior parte del mio tempo in un luogo che è sempre “altro” rispetto a questi “amici” virtuali. Gente che comunque ha condiviso un certo periodo di tempo con l’alter ego di Ramon Pelotas, compagni di scuola o figure varie, con cui oggi, però, si mantiene – vicendevolmente – una relazione puramente virtuale. Facebook come quel che un tempo fu la chiesa, un luogo dove entri con relativo scarso interesse, soprattutto per dare un’occhiata alle faccie conosciute che potresti trovarci dentro.

Accade anche però che io di tanto in quanto torni nel mondo degli umani. Nella birreria frequentata da buona parte dei miei “amici” virtuali, per esempio – una seconda chiesa, o una seconda “farmville”. Ebbene, è lì che ritrovo facce di profili conosciuti, vecchi compagni delle elementari e canaglie di sempre, e molti, che si sorprendono di vedermi riapparire in carne ed ossa, si apprestano a salutarmi e scambiare due parole. “Allora Ramon, che racconti di nuovo?”

E’ una metamorfosi lenta, ma definitiva. Per molti di loro io continuerò ad essere un’immagine virtuale, un’immagine associata ad un nome che non è il mio, ma non importa. Facebook è la nuova chiesa, ricordiamolo. La nuova verità. Già me li vedo, sul bordo della pensione, chiedersi che fine avrà fatto quel Ramon. Me li vedo appoggiati intorno alla rete di un cantiere, a bestemmiare contro gli operai incapaci, commentando (e magari cliccando su “mi piace”) la novità del giorno: “ti ricordi quel Ramon? Quello che era alle elementari con te. E’ morto. Ho visto i manifesti. La famiglia Pelotas tragicamente annuncia….”

The work is done


04 Mar

Tra i vari individui più o meno loschi che popolano la fauna del mio facebook, c’è anche un marine statunitense dotato di mitragliatorazzo e paracadutato per esportare democrazie sulle montagne dell’afghanistan.
Ora, non sto a dilungarmi sulle motivazioni che hanno spinto questo tizio a gettare la propria gioventù alle ortiche per arruolarsi in un esercito che ti confisca almeno 5 (cinque) anni di vita. Dirò soltanto che non sono così dissimili da quelle dei suoi colleghi, sempre le solite: un Paese socialmente devastato, che non riconosce un minimo di assistenza pubblica a chi proviene da situazioni famigliari complicate, che ha come unico requisito per tutto (compresa l’istruzione universitaria) il saldo del conto in banca. Un tempo queste situazioni erano risolte dai preti (ma in quel caso il periodo di segregazione era superiore ai cinque anni), oggi, almeno negli Stati Uniti, ci pensa l’esercito. Ti arruoli e ti diamo quarantamila dollari e un’istruzione (militare) universitaria.

Capita quindi di trovarsi di fronte alle foto di questo marine mitraglia-dotato, scattate dal suo blackberry e pubblicate via feed sul facebook. Va quindi riconosciuto che, anche se non sarà democrazia, questi americani un po’ di connessione la portano, a quei terroristi afghani. Bene, il primo particolare che salta all’occhio è la mascella prominente, di questo mio conoscente. L’ultima volta che lo vidi non era così, aveva lineamenti normali, e adesso è diventato assolutamente uguale a tutti gli altri, un novello Rambo (un amico di ritorno da quelle parti mi assicurava che sono tutti così, questi texas ranger odierni).

Poi c’è la lattina di fanta. Foto numero 17. Adorna di caratteri cirillici, fotografata su un aereo. La didascalia sotto informa che si tratta di una Fanta kirghiza. Dice che le dimensioni della lattina sono un po’ diverse dal normale (da quelle made in USA), e anche il sapore un po’ diverso. Ne deduciamo che anche in Kirghizistan la democrazia è stata esportata, ma in lattine leggermente diverse.

Seguono quindi le foto dei nostri eroi. Sbarbatelli, sorridenti, nella stessa posa che ti aspetteresti da una quinta liceo in gita a barcellona. Sono in sette, e non c’è nemmeno uno WASP. Sono tutti latinos, o asiatici, o neri. C’è anche una ragazza, orientale. Sono tutti americani, quelli veri, quelli nuovi. A un certo punto c’è anche una foto del marine con un tizio con la barba lunga, un potenziale terrorista, ma la situazione è under control: la didascalia sotto dice: “Building friendship with the locals”. Che tradotto in parole povere, stando a quella fonte di cui sopra, significa comprare i servigi della popolazione locale a peso d’oro. Questi adolescenti del minnesota dopotutto non sanno nemmeno quale sia la capitale dell’afghanistan, né quante volte questo paese sia andato sulla Luna, e quindi c’è bisogno di friendship un po’ per tutto – soprattutto per non farsi sparare addosso.

Poi finalmente le foto, in azione. Gli sbarbatelli reggono adesso un enorme fucile mitragliatore, con il mascellone sorridente. Qualcuno, sotto la foto, scrive “odio vederti così, man”. Il mio amico risponde che “l’M249 è necessario al 100%, quando sei qua”. Segue una discussione in cui qualcuno scrive che è un peccato saperlo in Iraq, c’è un bel casino, lì. A quel punto il mio amico fa notare che è in Afghanistan, non proprio in Iraq. E dice che vorrebbe essere in Iraq, in quanto “south asia sucks, but iraq is richer than afghanistan, and it’s safer! The U.S. is getting ouf of Iraq because the work is done, the place is stable for the most part, afghanistan is out of control”. A questo punto la conversazione ritorna su temi più morbidi, “quando tornerai (when you’ll be back to civilization) faremo una festa, ti farò un culo così ai videogiochi”, eccetera.

Questo, tanto per dirne uno, è un esempio del prototipo del soldato nord-americano in Iraq (ups pardon, in Afghanistan). Non credo siano necessarie considerazioni aggiuntive, o forse sì.
Pare ci sia ancora chi creda alla storia dei buoni e dei giusti contro i terroristi infedeli, e nella democrazia a forma di lattina.

Tuned out


03 Mar

Maestro, io sto facendo tutto quel che mi ha consigliato lei, ho acceso il computer, ho spento la televisione, sto leggendo i giornali, mi sono iscritto a communities virtuali dove si commenta quel che succede, guardo i video su youtube e altri siti, compro gli approfondimenti settimanali dei grandi quotidiani in edicola, mi sintonizzo su radio divulgative quando sono in macchina, eppure c’è qualcosa che non funziona, tutta l’informazione che ricevo è vagamente inquietante, tutta l’informazione che condivido mette di cattivo umore i miei amici, tutte le notizie che processo mi parlano di un mondo che si comporta in maniera esattamente opposta a quanto direbbe la logica, Maestro, non so se sono io il problema o se sono tutti gli altri ad essere impazziti, Maestro, e questo non è bello, perchè prima o poi dovrò uccidere qualcuno se non vorrò che siano gli altri a uccidere me, non voglio arrivare a questo, Maestro, non voglio, e allora spengo tutto e decido che se questa è la realtà, preferisco continuare a ignorarla.

Diary of a Baltic Man

Real Eyes. Real Lies. Realize.


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