Seduto di fronte a quel che non c’è più

16 Gen

Un incrocio qualsiasi, nella Quito metropolitana. Un incrocio come tutti gli altri, con gli autobus che lasciano un alone di fumo solido sull’asfalto, un’umanità colorata che si perde nel cemento, il cielo costantemente grigio, sui duemilaottocento metri della metropoli andina. Davanti, dall’altro lato della strada, c’è un Subway, uno di quei ristoranti americani in tutto e per tutto simili alle bettole ecuadoriane, ma dove tutto costa due volte più caro, perchè il marchio e le luci così potenti.

Dodici mesi prima, quello era un internet cafè. Ricordo che ci entravo con un vago senso d’impotenza nella gola, un disagio incomprensibile. La sera prima, era stata una chiacchierata sfogo con una signora dalla corazza forte, a difesa di un fragile vuoto infinito. Antonieta, afroecuadoriana dallo sguardo duro, aveva perso suo figlio ventenne, lasciato morire dissanguato da un sistema sanitario privato e razzista. Raccontava cosa significa un dolore del genere, raccontava di quei sassolini che qualcuno, alle cinque del mattino, continuava a lanciare contro il vetro della sua finestra, come a voler comunicare una diversa presenza.

Era un internet cafè, alle ore 14.45 di domenica 16 gennaio 2011, fuso orario locale. Ricordo l’aria asettica, la strana sensazione che pervade ogni volta in cui si apre una connessione virtuale con un mondo distante 10.000 km più in là. Ricordo solamente lo schermo del computer che diventa buio, il colore del cielo che si squarcia su un’apoteosi di luce insopportabile, le voci dei presenti annullate da un fischio continuo, il fumo degli autobus che invade la gola il naso gli occhi, la fine.

Dodici mesi più tardi, tutto è diverso. E non c’entra niente il fatto che l’internet cafè sia diventato un Subway.

Un posto qualunque nel mondo

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Diary of a Baltic Man

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