Manicheismo

22 Ago

Siviglia ed Amsterdam, manichini esclusi, hanno rispettivamente 704.198 e 755.296 abitanti. Dite la verità che non ve l’aspettavate che Siviglia avesse quasi lo stesso numero di abitanti di Amsterdam… come per altre città, tuttavia, il sindaco di entrambe è, statene certi, un imbecille e dunque le possiamo considerare città sorelle.

A proposito di sorellanza, se qualcuno mi dicesse che il mare è un unico grande paese su cui si affacciano in tutto il mondo sempre le stesse canzoni, miti, leggende, tragedie e che insomma unisce in un unico sguardo miliardi di fratelli, chiamerei il 118. Per me. Mi farei portare via.

Non tollero più infatti che una certa mia zia, allo stesso modo dei pedanti che vedono nel mare il pianerotto di casa loro, insista ad apparirmi in sogno per dire che i manichini sono, a loro modo, in un certo senso, tutti fratelli e talvolta gemelli (un luogo comune che non risparmia neppure gli spaventapasseri e gli ombrelloni da spiaggia). Se infatti l’autore di un libro – come ormai noto – è il suo lettore, a fare un manichino provetto sono chi lo osserva (solitamente con paura e desiderio) e la città che lo ospita. Pertanto o gli essere umani sono davvero tutti fratelli (e sarebbe una prospettiva vaga e incendiaria: l’incesto è un tabù) o i manichini si fingono fratelli per ricordarci che noi non lo siamo. Il manichino dunque come monito. (…)

Per i manichini, come per ogni altra cosa pensabile, vale l’antico gioco sulla dualità cosmica (che poco piaceva ad Anselmo). Dividiamoli dunque i fantocci: quelli nudi, in attesa di vestizione, e quelli vestiti. Quelli altezzosi e quelli improbabili e patetici, quelli eroticamente attivi e quelli impotenti, quelli artistici e quelli volgari, quelli perplessi e quelli sicuri di sè, quelli infelici e quelli radiosi, quelli spaesati e quelli pentiti, quelli violenti e quelli passivi, quelli robusti e quelli gracilini, quelli bambini (tutti indistintamente antipatici) e quelli bambini (tutti indistintamente antipatici), quelli bianchi e quelli neri, quelli dotati e quelli falliti, quelli vivi e quelli morti, quelli lenti e quelli che hanno per progenitore un arlecchino dorato. Per Roberto de Maria i manichini sono giovani alla moda, un po’ odiosi e disposti a socializzare solo tra di loro (non con te, vermicicattolo, che non sei all’altezza). Appartengono alla categoria dei bamboccioni modello estetica da oppio, figli di papà, parassiti sfruttatori del prossimo.

Verità e Realtà non hanno nulla a che vedere. Il manichino, specchio di uno stato spirituale della società, è il latore cinico di una verità manifesta: ci ricorda che viviamo nell’epoca della Grande Antipatia. Come l’Arte contemporanea – l’arte contemporanea non esiste: l’arte è sempre stata contemporanea, dunque l’evocazione non è altro che una moda (ed ecco il ruolo dei manichini) – è igienizzata, sterilizzata, iperpulita, così il manichino appartiene a quella moda che riferisce ad un immaginario della contemporaneità che, come direbbe Agamben, è inattuale perché ci precede in spirito. Il manichino è quel che ancora non siamo e che forse saremo. Questo però, in apparenza:

Il manichino, dice Roberto, sono io.

La macchina fotografica sei tu.

E l’immagine non c’è. C’è solo il tuo occhio maledetto e perverso che scruta dentro se stesso alla scoperta del mostro che allevi dentro di te.

Oppure, meno prosaicamente, c’è solo un processo a catena di malintesi e immaginari che si scontrano e tutti di natura sessuale: il manichino poi è il quasi umano passivo per definizione, indifferente alle tue passioni (salvo le lacrime di Marco Ferreri); irraggiungibile ed algido, il manichino è l’amante perfetto, quello indifferente (Proust).

Secondo le correnti di sociologia dell’inanimato (dove l’oggetto è il soggetto e il predicato l’attributo) infine, la percezione che il manichino elabora nei confronti degli esseri umani suoi simili è cambiata radicalmente, nel corso degli anni.

Se all’inizio del Ventesimo Secolo il rapporto tra le due classi morali risentiva di un confronto conflittuale (il manichino soffriva di quello che potrebbe definirsi un vero e proprio “complesso di inferiorità“, dovuto alle sue origini umili e all’enfatizzazione di un’identità umana che non era possibile riscuotere a fondo), con l’imporsi dell’epoca post-industriale la percezione delle differenze tra i due tipi è andata assottigliandosi, fino a ridursi a un mero retaggio sociale, come appare oggi (vestirsi in modo simile come formula di attenuazione dei conflitti di classe).

Negli ultimi anni, addirittura, si sta assistendo a una ridefinizione radicale dei rapporti di potere.

Jean Baudrillard sostiene infatti che “il soggetto urbano postmoderno rappresenta l’enfatizzazione del ruolo del manichino: portandone all’estremo la rigidità di pensiero e l’omologazione autorappresentata, celebra il trionfo dell’immobilismo e al tempo stesso lo condanna a una definitiva assenza di linguaggio, di messaggio, e in ultimo, di significato” [Baudrillard, “Sociologie manichee”, Fracaso Ediciones 2005].

Anche se nessuno con un briciolo di materia grigia nella zucca cade nel tranello di temere per la morte di un manichino (può anzi esser salutare, come in Estasi di un delitto, dissezionarne uno, di tanto in tanto), il manichino ci ricorda suo malgrado che noi invecchiamo e tendiamo alla morte e lui no. E’ il pensiero di un istante, ma c’è e ritorna nella notte…

Dice il Grande Saggio sul manichino: la derivazione del nome è chiaramente olandese, dalla parola manneken che significa piccolo uomo. I primi manichini di cui si abbia notizia risalgono agli ultimi anni del 1700: allora però avevano dimensioni molto ridotte. Si trattava, infatti, di piccole bambole, alte circa cinquanta centimetri, sulle quali le grandi sarte confezionavano, in proporzioni ridotte, copie delle loro creazioni. Così confezionate, queste bambole venivano poi mandate da Parigi a tutte le corti d’Europa, oltre che presso le più ricche famiglie d’ Oltreoceano, in modo che le signore potessero scegliere i loro vestiti all’ultima moda. A Venezia venivano chiamate piavole de Franza (bambole di Francia). Col tempo le dimensioni aumentarono, fino ad arrivare a quelle attuali, una volta cessato lo scopo per il quale le bambole erano state create. Il nome usato a Venezia in realtà nasce a Mantova nel “500” alla corte dei Gonzaga Quando Isabella d’Este creò delle bambole vestite con gli abiti di corte da inviare a Parigi a Francesco I°. Da qui Piavole de Fransia, primo esempio di comunicazione della moda.

Forse Roberto, anziché perdersi sulla plastica, avrebbe potuto orientare il suo obiettivo fotografico sul volto umano vivo. Sarebbe stato tempo perso.

Da troppo tempo vediamo ormai nei vivi i morti e nei morti i vivi. In gergo si chiama didattica di Amleto: quel che non siamo e potremmo essere ma comunque in vetrina (senza Parmenide al non essere la vetrina sarebbe stata preclusa).

Se Roberto pensa con le sue foto di poter fermare l’incalzare dell’Impero, si sbaglia. Non c’è più nulla che possa fermare l’avanzata dei manichini. L’anno del contatto è il 2027. Saranno migliaia, solari e delicati, sessualmente insuperabili, e avranno gli occhi celesti. Porteranno a noi la felicità.

[Commento a un lavoro fotografico di Roberto De Maria, tra le comunità manichine di Siviglia ed Amsterdam]

One Response

  1. Vera ha detto:

    manichini manichei…

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