Quel che il tempo [inteso come fenomeno atmosferico] riscrive

04 Feb

Time made them unknown

Guardi questa foto, e dici: “c’era un paese”.
C’era una comunità, con tutto quel che la questione può significare.
[per esempio: desiderio di fuga. oppressione intorno al collo. Calore e anche calore asfissiante].

Cinquant’anni più tardi apparentemente tutto dorme.
Le case sono abbandonate e i boschi si popolano in maniera silenziosa.

Eppure guardi fuori dalla finestra e qualcosa non torna.
E’ il ciclo delle stagioni, la potenza dei quattro ambienti, che a Viola si sente così forte da congelare ogni altra percezione.
Se il mondo è così vivo fuori da quella finestra, ti dici, chi cammina ad occhi chiusi sei tu, e non il mondo circostante.

Esco di casa.

Primo incontro.
Il personaggio al centro della foto oggi ha ottantadue anni e le gambe che non funzionano più.
Ha il bicchiere del vino incrostato dall’uso, non avrebbe senso lavarlo.
Pietre e legno lo sostengono sotto entrambe le mani: con una si appoggia alle pareti della sua vecchia casa, con l’altra stringe il bastone.
“Abbiamo girato così tanto che alla fine ci siamo caduti, nel sacco”, dice con l’arrendevolezza del vecchio lupo.
Il vino di quest’anno comunque è buono.

Secondo incontro.
Uno dei più giovani del paese, che oggi fa il contadino.
In questa foto non c’è, ma lo si vede – bambino – in un’altra, cinquant’anni fa.
Il bastone nella mano, un sacchetto sotto l’ascella dall’altra parte. Un’immagine che preconizza un destino.
Lo vado a cercare per concludere un sano baratto.
Io gli do un dvd, lui ricambia con le formaggette delle sue pecore.
Plastica in cambio di vita, lo scambio sembra vantaggioso per me.
Come va?, gli chiedo.
Andrebbe meglio se questo mestiere fosse lasciato in mano a chi lo fa, dice lui.
Mi parla di sindacati, politici, controllori sanitari, direttive europee.
Penso a quel libro di Jared Diamond, in cui spiegava che l’umanità, quando è diventata sedentaria, ha accettato di accogliere e mantenere al suo interno i parassiti.

Terzo incontro.
Simone, figlio dei figli di chi è lì nella foto.
Come me.
Gli scarponi ancora ai piedi, è appena tornato da una lunga passeggiata nella nebbia e nella neve.
E’ qua solo di giorno: questa sera torna a valle, va a suonare.
“E ogni volta devi dissanguarti in assurde discussioni coi gestori dei locali”, dice.
Se proponi musica tua, sembra che la gente abbia paura di ascoltarti.

Torni in casa, guardi questa foto, e dici: c’è un paese.
O forse non c’è più, e a quel punto… ancora meglio.

Perché quel che ti serve non è la massa informe, ma la materia scolpita dalla vita.
Servono occhi abituati a vedere, gambe che si muovono.
E il ciclo delle stagioni, che riscrive sempre tutto.

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2 Responses

  1. Lara ha detto:

    Un paese ci vuole non fosse che per il gusto di andarsene via, giusto?! (E direi che in questo non ti batte nessuno 😉 ) Ciao caro!

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Diary of a Baltic Man

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