Da consumarsi con Ritrovamento

02 Nov

Erase un hombre con dos Volvos

Il terzo giorno, la vedova Tobon ascoltò una melodia provenire dal piano di sopra. Automaticamente cercò il suo quaderno e prese a salire le scale. Lo trovò seduto di fronte al pianoforte, interpretando una canzone decaffeinata, ma dall’aroma leggero e gradevole.

La vedova Tobon viveva da mesi con il cuore rassegnato. Era così immersa in questa condizione, che chissà da quanto tempo aveva rinunciato al fastidio di emozionarsi. Tutto succedeva di fronte a lei come una sfilata di oggetti vecchi e scoloriti, mentre sentiva che qualcosa continuava inesorabilmente a spegnersi dentro di lei, come una radio che perde la capacità di sintonizzarsi con il mondo, e rimane, nella sua integrità, come un oggetto vuoto. Come l’immagine di quel che avrebbe dovuto essere, o come l’ombra di quel che ormai non era più.

La vedova, abituata a questo stato atavico personale, cercava, invece (non si sa se per il ricordo di quel che una volta la commosse, o semplicemente perché non voleva rimanere sola dentro se stessa) qualsiasi manifestazione non scritta e neppure parlata di un’emozione estranea – motivazione, questa, che addirittura la portava a muoversi da un paese all’altro; una ricerca inesorabile di soggetto invisibile.

E’ per questo che quando lo vide seduto di fronte a quello strumento che lei riconobbe come “generatore di probabili impressioni, e con un po’ di fortuna, di possibile esaltazione”, decise di fermarsi accanto a lui, senza nessun altro pensiero se non “toh, un piano. E guarda che materasso comodo su cui sedermi, e la stanza? Com’è ben arredata!”

Bene. Quel che accadde a partire da questo istante, per la vedova Tobon sarebbe stato qualcosa di simile a quando percepisci un odore che, per oscure ragioni, ti porta il ricordo di un ricordo dimenticato (come quando ti accorgi del vento che un giorno, chissà quando, ti aveva accarezzato le guance); e non è questione di vento e nemmeno di profumi… è il ritratto di una realtà perduta, una nostalgia crescente verso qualcosa che in fondo non sei nemmeno sicuro che ti appartenga, o che ti sia appartenuto mai… però che imrovvisamente ti viene a mancare, come se te lo avessero portato via ieri.

Fu quindi questo che la vedova Tobon sperimentò quando, senza preavviso, la melodia placida che in qualche modo la portò a fidarsi del ragazzo del pianoforte, si interruppe. E la stessa musica dolce e inoffensiva a cui lei si era consegnata, si convertì in qualcos’altro. Un’entità più in là dei singoli tasti che le davano forma. Più in là dei toni, semitoni, tasti bianchi o neri. Non c’è parola sufficientemente carica di significato per definire quel che iniziò a espandersi dall’angolo dove c’erano un bambino e un pianoforte seduti. Successe che dalle dita del bambino iniziarono a formarsi dei fili: lacci finissimi che si annodavano intorno alle stesse dita, che si annodavano tra loro… e cominciarono ad attorcigliarsi intorno ai tasti, gemendo, dimenandosi mentre si attorcigliavano intorno all’espressione più intima dell’inconscio umano.

Questi fili, che la vedova vedeva carichi di colori intensissimi – ma soprattutto arancione e viola – ballavano la danza elettrica più frenetica che si fosse mai vista, mentre sputavano in silenzio smorfie disperate, come un bebé che si trovasse a nascere senza corde vocali. E intanto passavano i secondi, e la vedova, paralizzata, senza comprendere, ringraziando Dio per non poter vedere in questo istante gli occhi del bambino (la qual cosa avrebbe significato, per ragioni evidenti, osservare senza filtri un’eclisse solare) osservò come questi fili violavano i limiti della capacità emozionale umana, e con la forza di un tifone, si trascinavano verso l’alto e iniziavano a sbattere contro le pareti mentre piangevano, sordi, e vomitavano, turbati. E quindi arrivarono al soffitto, e come acrobati, saltavano all’indietro, volteggiando nell’aria ed eseguendo vortici di tonalità paragonabili soltanto agli odori mai annusati, o alle brezze che mai ti hanno accarezzato.

E a quel punto accadde questo: la vedova, con gli occhi ben aperti, seduta sul pavimento, con le palme della mano verso l’alto, vide i fili atterrare di fronte a lei, e come un esercito ubriaco e implacabile, la prendevano per i polsi, le tiravano i capelli e tutto il resto, mentre vibravano epilettici di fronte ai suoi occhi, e iniziarono a liberare spiegazioni che lei non avrebbe mai richiesto; non per cortesia o per educazione, ma perché non avrebbe mai pensato di averne bisogno.

E i fili, di fatto, non avrebbero mai avuto bisogno della parola scritta, né di quella parlata, né di quella bianca e nemmeno di quelle cariche di tutti i significati, per parlarle del bambino che lei si era presa la libertà di pretendere di conoscere in meno di tre giorni. Un uomo che non si assumeva la responsabilità dei sentimenti che provocava intorno a lui, perché francamente – credeva la vedova – aveva cose più importanti a cui badare.

 “Il bambino tocca i tasti e allora succede che questi fili nascono dall’angolo più puro della sua essenza stringono le sue dita e spiegano cosa succede quando una donna cerca il suo calore disperatamente, ma lui glielo nega. E quel che succede quando io credo di comprendere le cose al di fuori di me, quando non sono nemmeno capace di vedere attraverso la nebbia che copre i miei occhi. Si tratta della facilità di scrivere enciclopedie sugli altri, senza essere capace di scrivere nemmeno un post-it su me stessa. In ogni caso devo andare, perché i fili si avvicinano come una folla iraconda verso i miei piedi e li sento strisciare e dichiarare battaglia a ogni barricata che innalzo, arrogante e superbia. E sento la loro furia perché da molto tempo non riesco a capire. E quindi rimango fuori dal gioco. E suona il Vals d’Amélie”.

 … e per questo i fili esplosero di giubilo: per l’onestà, per la bellezza, per la verità. E allora il ballo era leggero e dolce, e la vedova non volle sentire vergogna né senso di colpa. In ogni caso sentì come ogni tessuto del suo corpo si disfava; vinta ed estenuata, si scioglieva.. e chiuse gli occhi. E si confessò con il cielo, pregò nella sua melodia, e strinse comunione con il bambino.

[testo originale by Solo Red]

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Diary of a Baltic Man

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