Mapulugün

19 Nov

Eravamo quel che saremo

Non esiste la parola “morte”, in lingua mapuche.
Quando qualcuno muore, si dice “mapulugün”.
Mapulugün significa ‘diventare territorio’.

Mercoledì. Sono a Bogotá. Apro il computer. Facebook mi informa di quell’altro: mio fratello, che è stato premiato, in Campidoglio e con tutti gli onori, per la sua attività agricola di castanicoltore moderno, in perfetto equilibrio tra innovazione e tradizione. È un premio suo ed è un riconoscimento all’azione di chi a Viola Castello, come in (ormai poche) altre zone sulle Alpi e sugli Appennini, tenta di mantenere in piedi un delicato equilibrio tra uomo e ambiente. L’ecosistema dei castagneti, un sistema produttivo perfetto, ereditato dalle precedenti generazioni.

Martedì. Sempre attraverso il computer: Venezia allagata. Immagini apocalittiche. Don Desiderio S., caro amico e sergente della Policía Nacional, mi offre un café negro e tra le altre faccende commentiamo la cosa. ¿Venecia entonces está condenada? Quien sabe. L’acqua alta, il cambio climatico, le buone vecchie conversazioni da café. Nella mia mente ho un’idea fissa ma non la esprimo. Porterebbe a un dibattito interessante, ma sono quasi le 9 di mattina e ho del resto da fare.

Giovedì. Mi telefonano da Viola. Una pattuglia di Rangers ha sorpreso un paio di famigliari a bruciar foglie.
Questo dei rangers è un flagello che, da un paio d’anni, puntualmente si verifica a novembre. Da quando la Regione Piemonte ha deciso che, per contrastare il dramma delle polveri sottili a Torino, nei mesi invernali è proibito bruciar foglie nei boschi del territorio regionale. Non li si vede, i rangers, ad agosto o settembre, quando il sottobosco è invaso da decine di pensionati urbani che si spingono verso l’alto per depredare funghi: la dinamica di rapina centro-periferie è una dinamica antica, e il sistema economico in cui sguazziamo felici si basa esattamente sul suo oliato funzionamento.

Excursus storico: per lunghi secoli, la castanicoltura stata è un’attività fondamentale sulle montagne d’Italia. In maniera particolare, lo è stata per il Piemonte, che oggi è l’unica regione in controtendenza nella produzione di castagne: mentre altrove si è costretti a importare, il Piemonte segna un trend positivo. A causa delle sue caratteristiche (nessun tipo di fertilizzante, ma ‘semplice’ cura del bosco e del sottobosco), la castanicoltura aveva l’importante effetto collaterale di mantenere sotto controllo enormi porzioni di territorio. Un territorio complesso e geologicamente irrequieto, come quello italiano, è stato progressivamente terrazzato, accudito, addomesticato. Attraverso i boschi trasformati in giardini, le acque penetravano nel terreno, senza scivolare a valle portandosi pezzi di montagna con sé. E i rami spezzati dall’inverno, trasformati in fascine, sarebbero serviti per scaldarsi nell’inverno successivo, o per alimentare, in autunno, gli essiccatoi.

Poi le industrie, la questione del ‘così va il mondo’ e l’italianissima scelta di rincoglionire la popolazione fornendo a tutti un lavoro fisso hanno provocato il dramma. Il contadino è diventato operaio, e ogni sorta di visione autonoma ha iniziato ad essere considerata in maniera sospettosa. Camillo e don Peppone sono risultati entrambi colpevoli nel processo: la democrazia cristiana con il suo assistenzialismo paternalista, il partito comunista con la logica dell’appiattimento di classe e del diktat sindacale. Nel frattempo la televisione ha messo tutti d’accordo ad allontanare ancora di più l’essere umano dall’aria fresca, dai pensieri limpidi della solitudine in uno spazio naturale e armonico, da un fiero esistere. E così oggi i giovani delle valli Monregalesi assomigliano sempre più ai loro coetanei delle periferie urbane, che lamentano con rabbia l’assenza di un lavoro fisso, e presto voteranno partiti di estrema destra perché gli stranieri ci portano via il lavoro, mentre tutt’intorno (letteralmente: tutt’intorno) i castagneti muoiono, soffocati dall’abbandono e dall’incuria, dalla follia di un’epoca malata che non ha saputo leggerne il valore.

E così, giovedì. Mi telefonano da Viola. Una pattuglia di rangers sta multando un paio di campesinos, con il subordinato imbarazzo che contraddistingue chi è lì per far rispettare la legge (‘sa, io la capisco ma questo è il mio lavoro. E un lavoro fisso di questi tempi…’).
Il giorno scelto da mio zio e sua moglie, che bruciano foglie con coscienza da decenni (proprio in quel bosco, per sottolineare la ricerca estetica nel rapporto tra uomo e castagneto, in estate si organizza un festival spontaneo, il ‘Castagneto Acustico’), non è casuale: il fondo è umido, è impossibile che il fuoco si propaghi. Ma soprattutto: venerdì è prevista neve, e se nevica sulle foglie poi sarà un problema. Se nevica sulle foglie, bisognerà rinviare tutto a marzo, anzi al 1º aprile perché così dice la legge, ma a quel punto sarà un problema perché la neve avrà compresso le foglie al suolo, e tentare di raschiarle via sarà un lavoro infame. Ma soprattutto: ad accendere i fuochi ad aprile forse non si creeranno più problemi all’aria di Torino, ma certamente non si farà bene ai castagni, che alla fine dell’inverno spingono le prime gemme in fiore.

Mi telefonano da Viola perché, nel delicato equilibrio del castagneto, il mio ruolo è quello di trasferire il tutto sul piano del linguaggio. Da alcuni anni sto tentando di mettere insieme una narrazione (un film) che esplori il profondo universo simbolico della castanicoltura. Una pratica agricola che non è solo pratica agricola ma che comunque rimane l’unica e l’ultima, in Europa, realizzabile senza l’ausilio di alcun elemento chimico, pesticida e fertilizzante che sia. Un sistema di tutela ambientale che viene custodito e trasmesso di generazione in generazione (la vita dei castagni scorre su una scala temporale diversa rispetto a quella dell’uomo, e inevitabilmente chi innesta un albero oggi sa che saranno i suoi figli, e non lui, a beneficiare di questa azione), e che oggi si trova in profonda crisi, a causa dell’abbandono.

Pare incredibile ma nella complessità del mondo attuale i castagni hanno bisogno anche di questo: di un discorso che li spieghi, di un’immagine che li racconti. Perché altrimenti rimane solo il DGR 22-5139 della Regione Piemonte, che impedisce di bruciar foglie in montagna perché a Torino l’aria è sporca.

Questo scritto è stato pubblicato sul numero 102 della rivista Dislivelli.

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Diary of a Baltic Man

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