Per un giorno ho avuto una cagnetta
ho avuto una cagnetta, per un giorno.
È apparsa là, in mezzo alla notte, in mezzo alla neve.
Proseguiva nel solco di chi era passato prima di lei:
pneumatici e lupi
suggestioni e voci
la paura del freddo, nell’alpe gelida tutt’attorno.
Era una cagnetta scappata a un cacciatore.
Aveva il collare e il campanellino, ma non aveva un numero di telefono con sé.
Ora: devi sapere che queste sono lande di cacciatori e fuoristrada.
Un cacciatore, quando perde la sua cagnetta, poi la cerca.
E quei segni di pneumatico sulla neve forse erano i suoi.
Forse l’aveva cercata,
forse non l’aveva cercata abbastanza,
forse non l’aveva trovata.
Così la cagnetta adesso aveva scelto me.
Mi veniva incontro con sguardo acceso, e quel mix insondabile tra audacia e paura.
La cagnetta disconosceva suo padre, non sapeva più dove fosse il padrone.
La cagnetta non aveva padroni.
La cagnetta era tante cose, tante cose tutte insieme.
L’ho portata a casa, è venuta via con me.
Io non ho una casa fatta per ospitare cagnette. Non so prendermi cura di loro.
Ma in quei giorni la casa assomigliava a una casa e così era evidentemente anche per la cagnetta, perché si è trovata a suo agio nello spazio di ombra e luce tra la sedia e la stufa.
Nel dormiveglia che sussegue alla tempesta
nell’abbraccio ammaliante del fuoco
nella verità rimasta occulta nel caso
la cagnetta pensava a pneumatici e lupi.
Suggestioni e voci.
La certezza del freddo, nei mille deserti di centomila città.
L’ho accudita, ha mangiato fegato di cinghiale, l’alimento dei principi.
Lei ha accudito me: mi ha insegnato a non chiudere la porta sulle scale.
Mi ha insegnato il valore simbolico di quel collare e quel campanellino: l’eleganza nel toglierli, la corretta fermezza di ritornare a loro.
In fin dei conti, era una cagnetta scappata a un cacciatore.
Aveva il collare e il campanellino, non aveva un numero di telefono con sé.