Le stesse critiche, se non più aspre, ritornarono poi in occasione della prima de L’uomo di paglia, dove il protagonista, sempre un operaio, viveva addirittura un classico dramma borghese che non poteva appartenergli. Scriveva Umberto Barbaro: «Cari amici, a me questi operai di Germi che si comportano senza intelligenza e senza volontà , senza coscienza di classe e senza solidarietà umana – metodici e abitudinari come piccoli borghesi – la cui socialità si esaurisce in partite di caccia domenicali o davanti ai tavoli delle osterie – che non hanno né brio né slanci, sempre musoni e disappetenti, persino nelle cose dell’amore – che ora fanno i crumiri e ora inguaiano qualche brava ragazza, spingendola al suicidio – e poi piangono lacrime di coccodrillo, con le mogli e dentro chiese e sagrestie – questi operai di celluloide, che, se fossero di carne e ossa, voterebbero per i socialdemocratici e ne approverebbero le alleanze, fino all’estrema destra, non solo sembrano caricature calunniose ma mi urtano maledettamente i nervi».
Archive for the ‘Cinema’ Category
Sarayaku giorno 11
Una tarantola gigante nella tenda. Gambe e muscoli spezzati inseguendo indigeni troppo veloci in camminate di sedici ore. Pelle annerita dal Witog. Allucinazioni di pastasciutta e birra e vino e robe dolci e in sostanza di tutto ciò che non sia pesce. Pesce fresco a colazione pranzo e cena. Lunghe camminate notturne in una selva che è un mondo indipendente dal nostro. “Anche il fiume è una città “, dice Josè Luìs. Discussioni su sistemi alternativi al capitalismo consumista. Un aereo-soccorso di primo mattino, perchè un serpente ha morso qualcuno. Il vecchio saggio che sembra essere la persona più bella del mondo. Verde espresso in centomila tonalità diverse. Undici giorni che già sembrano undici mesi. Sarayaku come alternativa.
Sarayacu giorno 6
Se i nostri governanti fossero “selvaggi amazzonici”.
Se per trovare una Comunità non fosse necessario uscire dal Mondo dell’Ovest.
Se l’unico sapore concesso sia quello dell’acqua dell’aria dei pesci e non quello dei soldi.
Se tutti imparassero a pretendere.
Se camminare e non guidare.
Se il giorno e la notte il buio e la luce la fatica e antiche leggende.
Se tutti usassero internet per entrare nel mondo e non solo fuggirci.
Se i vecchi fossero i saggi e non un cumulo di ossa da parcheggiare in un luogo che non consumi troppa pensione.
Se pensare nel “futuro” non fosse programmare “domani” ma lo spazio e l’ambiente di cinque generazioni più in là .
Se la politica fosse come a Sarayacu, “un qualcosa che serve per costruire pace e pensare all’ambiente e nient’altro”.
Se si sta nella selva lontano da tutti per imparare qualcosa.
Se tutti alzassero di qualche centimetro la linea dei loro orizzonti, allora avrebbe ancora un senso il vostro noioso, fottuto Natale.
Sarayacu giorno 2
Il fiume più secco del previsto, e un carico extralarge di benzina che la comunità impiegherà per cercare nell’interno-selva palme buone per costruirci tetti. Risultato: ritardo nei permessi per partire (e non essere arrestati per contrabbando di combustibile con Perù e Brasile), lunghi e frequenti incagliamenti (scendere e spingere, please), e il viaggio spezzato da una notte passata a riposare, in una capanna abbandonata. Venti ore di viaggio anzichè le cinque-sei previste.
Sarayacu però è una conferma. Le stesse facce di un anno prima, e una nuova generazione di neonati. La stessa, sorprendente organizzazione sociale di una comunità che sa perfettamente cosa vuole e come pretenderlo, e si oppone alla costruzione di strade ma vuole radio e internet veloce.
Quindici giga di immagini nei primi due giorni. Tutto è fotografia, cartolina, umanità in movimento. Sui tavoli di legno di una capanna equatoriale, un indigeno di quarant’anni chatta su msn e un paio di ragazzi ascoltano bob marley. Emancipate yourself from mental slavery.
Amazzonia interattiva
Di Sarayacu si era già parlato.
Nel frattempo, niente è cambiato: la Comunità continua la sua “resistenza partecipata” difesa dallo spazio naturale della forestamazzonica, mentre il mondo di fuori impazzisce ma tenacemente si afferra al suo equilibrio precario.
La novità , piuttosto, è un processo di “digitalizzazione della memoria storica” che i Sarayacu hanno deciso di intraprendere, per partecipare sempre più attivamente, insieme all’universo dei popoli nativi americani di cui sono parte integrante, alla costruzione di un mondo e di un modo di vivere il mondo diverso da quello imposto dalla cultura dominante. Ed è una bella notizia.
Per i prossimi giorni, quindi, “noi” (dove per noi si intende un gruppo omogeneo disperso tra il parallelo tre, Torino e Kabul) seguiremo questo processo con videocamera e buona energia, e poi qualcosa succederà . O forse no.
Sul treno
Lui. Occhiali e pancetta incipiente. Studente. Parlantina loquace. “Hai visto ieri, quel regista che è morto?”
Lei. Suoneria del telefono orribile e molesta. Indecisa tra giurisprudenza e disegno grafico, dice. “Quale regista?”
Lui. “Un regista veccio. Era anche famoso”.
Il giornale di fronte. Un presidente con gli occhiali nella foto. “Addio Monicelli. Gli italiani non ti dimenticheranno mai”.
Autunno Viola
Abbiamo fatto un film, un documentario. “Fatto” come una volta, impastando acqua sale e farina, sporcandoci le mani e cuocendo a fuoco lento.
Un documentario che è anche una storia personale, rinchiusa nel sangue e nei cromosomi ed esplosa tutta dietro la videocamera, un documentario che è anche un gioco che è anche un esperimento che è anche una cosa seria, terribilmente seria.
Autunno Viola era un passaggio fondamentale, quasi obbligato. Anni spesi ad inseguire storie, ad osservare la quotidianità di mondi che erano sempre “altri”, ad ascoltare immaginare capire scrivere appassionarsi. E questo è un ritorno alle origini, un viaggio verso il senso delle cose, una dichiarazione d’amore verso un mondo in via d’estinzione.
Il documentario è stato realizzato a prezzo quasi nullo, tre mesi pieni di sana passione. A questo punto si tratta di produrlo e riprodurlo, e vedere che succede. Servono dollari, non fiori, ma opere di bene.
Una porta aperta
Ho visto il cinema 3D. Quello con gli occhialini, i personaggi che si materializzano a mezzo metro dal tuo naso e tutte queste cose. “Alice in wonderland”, precisamente.
E dico che quest’ambizione di trasporre la tridimensionalità a livello grafico-visuale potrebbe portarci, fuori da Hollywood, a qualcosa di molto, molto pericoloso.