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Archive for the ‘Luoghi’ Category

Brigata Anaïs


08 Mar

Hanno cambiato le luci elettriche. Hanno una luce più gialla adesso, una luce più calda. Ho visto il furgoncino, era messo là dove di solito si parcheggiano i gatti, là nella conca in cui scalda più il sole e si controlla tutto. Così hanno cambiato le luci e nel frattempo torna quell’odore di primavera, terra bagnata e calda, odore di primule.

Oggi ho perso il cappello e cercato una capra. Ho cercato una capra con le ragazze e i ragazzi di una banda partigiana, gente sveglia con cui ci si intende al primo minuto, ho cercato la capra sui luoghi della Resistenza. L’ho cercata mentre l’Italia cambia forma, mentre l’Italia non esiste.

Teresa dice che dovrei viaggiare, dice che dovrei tornare a viaggiare.
Ma viaggiando, dico io, ho perso il cappello nero e non ho trovato una capra.
Però viaggiando ho trovato le tracce di un branco di lupi, e ho visto un ubriaco gettarsi in un pozzo.
Ho conosciuto le Settimine, bambine nate al settimo mese, è rimasto loro un dono speciale addosso.

C’è una Settimina, Emma, rimasta lassù dietro la Custéra degli Argentini.
Riceve per venti euro o una forma di pane, ma il pane dev’essere buono, una forma intera.
È capace di leggere quel che non va e di esaminare la morte. È in grado di dire dove sono rimasti nascosti i segreti di chi è rimasto incastrato nel mondo delle tenebre. È in grado di dire dove sono rimasti nascosti i soldi nel muro.

Nelle cascine lì accanto può capitare di trovare un madàma, che organizza una bisca.
Giocano di giorno, giocano tutto a carte, perché i soldi non esistono.
Gliene sono piombati tanti addosso, tutti insieme dai sogni degli altri, ma loro di tutti quei soldi non hanno bisogno perché è gente che coltiva la campagna e prende da lì tutto quel che serve, e allora il resto dei soldi se lo giocano.

È tutto sospeso ed è tutto selvaggio ed è tutto aggrovigliato ed è tutto in rovina.
Ma allo stesso tempo è tutto incarnato ed è tutto sublime ed è tutto inutile ed è tutto facile.
Hanno cambiato le luci elettriche ma la sostanza non cambia.
Per un’ora o per sempre, tutto questo è esistito davvero.

Нарва


13 Set
Narva (in russo Нарва) è una città dell’Estonia nord-orientale, all’estremo lembo d’Europa, che conta 65.886 abitanti.

Gli estoni sono solo il 15%, mentre l’86,41% è di etnia russa. Questa anomalia si deve a quanto accaduto dopo il 1945, quando le autorità sovietiche proibirono il rientro della popolazione estone sfollata e deportata, dando priorità ai cittadini sovietici provenienti dal resto della Federazione. Quarantacinque anni più tardi, con l’indipendenza dell’Estonia, la sorte fu inversa: alla maggior parte dei cittadini russofoni è stata rifiutata la cittadinanza estone, in base a una legge che garantiva la suddetta a chi era residente in Estonia prima del 1940. Oggi, dunque, solo il 46% degli abitanti della città è di cittadinanza estone, mentre il 18% è a tutti gli effetti apolide. Con il 93% della popolazione di lingua russa, la città di Narva costituisce la principale enclave russofona nel territorio dell’Unione Europea.

Oggi, 13 settembre 2022, la città si prepara alle restrizioni dei visti che entreranno in vigore lunedì 19 settembre. A causa della guerra in Ucraina, il governo estone ha deciso di chiudere le frontiere ai cittadini russi. Il Ponte dell’Amicizia, che unisce la città di Narva con la cittadina gemella di Ivangorod, dalla prossima settimana sarà chiuso al transito turistico e commerciale.
Sulle due sponde del grande fiume Narva, in questa mattina di settembre in cui c’è già aria d’autunno, alcuni uomini dai capelli grigi stanno in acqua con i pantaloni di gomma. Sono pescatori di un lato e dall’altro, pescano il pesce in una stessa lingua. Si guardano ma non possono parlare, anche perché, sullo sfondo, l’imponente centrale idroelettrica di Ivongorod copre ogni possibile suono, con il suo lamento costante. Sui tabelloni pubblicitari, lì intorno, grandi scritte in cirillico invitano la popolazione a combattere la grande piaga dell’HIV. Nel primo decennio del XXI secolo, la città ha vissuto un preoccupante aumento dei contagi di questa malattia, con una media di 150-200 nuovi casi annuali.
Narva, dunque, si prepara all’inverno.
Il Ponte dell’Amicizia, in questo tardo 2022, rimarrà in silenzio su un fiume ghiacciato.

Chi ‘u muéra d’avrí ‘u muera d’invárni


10 Apr

Chi ‘u muéra d’avrí ‘u muera d’invárni,
dice la vecchia alla finestra,
chi muore d’aprile muore d’inverno,
la valle è verde ma sa ancora di neve,
sa di neve al crepuscolo,
quando le cose si raccolgono e solo l’essenza rimane.

Sembra vento del Nord là fuori dalla porta
sembra di essere nel faro sul golfo,
lassù sullo scoglio e sul giardino,
a contemplare l’evento mentre l’evento accade.

E invece è vento della sera,
brezza d’oriente e invito al cammino.
No Mad Lands c’è scritto sul cartello, ed è un cartello che non esiste.

Chi ‘u muéra d’avrí ‘u muera d’invárni,
la stessa voce che mi annunciava la nascita di tuo padre.
Seasons are rolling down, ogni primavera il sorgere di un fiore.
Laggiù nella piana, quando arriva il freddo, li innaffiano nel pomeriggio,
questi fiori troppo delicati per resistere all’inverno.

Laggiù nella piana ogni cosa è diversa, dicevano i vecchi che avevano provato, cosa vuol dire laggiù.
Laggiù nella piana ogni cosa è diversa.
Benvenuto e bentornato,
y buena onda pà ‘l camíno se deciderai di partire.
Buena onda pa’ ‘l camíno, compadre,
figlio di fratello e della vita,
di questo andare in aprile, che non è aprile ma è andare,
andare lontano sempre,
No Mad Lands.

Campane Tibetane


19 Mar

Una casa enorme.
Già vecchia quando è stata costruita, negli anni novanta.
Il padre di famiglia si muove lentamente nell’ampio cortile.
Là sotto non c’è più traccia di ogni elemento naturale: tutto è stato imbrigliato, ricoperto, asfaltato.
Il padre di famiglia chiude la portiera del grande camion, nel sole freddo dei giorni più freddi dell’anno.

Nel giorno più corto dell’anno in questo luogo il sole scende dietro il monte alle tre e ventisette.
Dev’essere così anche oggi, giorno di Santa Lucia, patrona dei camionisti che hanno imbrigliato il cortile e controllano la vita.

Il padre di famiglia è soddisfatto: suo figlio prosegue le sue orme, ha in mano le redini dell’azienda.
Il camionista può vedere la lunga linea tracciata tra i territori del passato e quelli del futuro, e in mezzo a tutto ci sono due camion giganti, uno rosso e uno blu, che simboleggiano un tempo presente solido e lucente.

Saliamo in casa insieme, a bere un cordiale, dice il padre al figlio e a me.
Saliamo in casa insieme, è quasi natale.

Lassù, nella casa quadrata e immobile,
tutto è stato imbrigliato, ricoperto, asfaltato.
Ma sulla pietra del camino è appoggiato un recipiente metallico e cilindrico: una campana tibetana.

Una campana tibetana, la conosci? L’ho comprata al mercato dei popoli di Genova.
Funziona così, guarda, ti faccio ascoltare.
E il figlio del camionista prende la campana e la suona, e poi depone il mazzuolo e si pone all’ascolto, e tutta la famiglia si pone all’ascolto, mi pongo all’ascolto anch’io.

Un suono sottile e continuo, che ondeggia nella luce ormai elettrica del giorno più corto dell’anno.
Rimane lì e non si muove. ‘Eppur si muove!’, gridò Galilei.
Il suono si muove ma non perde d’intensità, come una stella cometa impazzita, recalcitrante all’arrendersi.
Rimane la scia nel cielo, entra il suono fin dentro le cellule.

Il suono dura cinque minuti almeno, e cinque minuti sono tanti, in una famiglia di camionisti nel lato buio del mondo.
È stato bello rivederti, dice il padre camionista, abbagliato dalla scia della strada.
È stato bello rivedervi, gli rispondo io sulla soglia, ricordando paesaggi d’infanzia.
È stato bello ascoltarti,
suono infinito del cosmo,
graffio denso sul foglio, Campana Tibetana.

Arde


14 Giu

Arde.
Arde di materia e carne viva.
Un uomo con la camicia rosa e suo figlio con lo sguardo allucinato, persi nel Cimitero delle Balene Cadute, percuotendo grossi alberi cavi, come fossero  – perché sono – materia viva.

Cercano il suono e inseguono il sogno.
Una chiara visione confusa, un’idea di armonia. Un sogno che è bisogno di suono, percuotere gli alberi per ricavarne del suono, trasformare quel che esiste per creare un qualcosa di nuovo. Procedono disordinati tra le foglie secche e le ortiche, nella luce già calda del mattino alle sette, la luce già calda di un mattino di giugno, lui con la camicia rosa e suo figlio con una videocamera grossa come un altro bastone, una videocamera che si può tenere in una mano sola e non è il caso di guardare quel che riprende, e così con il baricentro si può esplorare il terreno, e così con l’altra mano si può suonare un castagno che sembra un dinosauro dormiente.

 

Il figlio ha trentaquattro anni e il padre oltrepassa i sessanta,
nel mezzo del cammin di nostra vita si ritrovaron in una selva oscura,
e la retta via non era mai esistita.

 

 

Ricordi quando ti dicevano, alle scuole elementari, con sguardo severo

“bambini, bambine, ognuno a sedersi al proprio posto?”

Non avevano capito un cazzo,
o forse avevano capito tutto, e continuavano a perpetrare il messaggio sbagliato.

E come la mettiamo se il mio posto in fondo è un altro, se i miei posti son tutti?
Oggi voglio sedermi sul bordo. Oggi voglio sedermi sul banco. Oggi voglio sedermi sotto il tavolo, e guardarvi dalla prospettiva dei piedi, e immaginare che ogni scarpa sinistra si inventi un suo linguaggio per parlare con la scarpa destra e con quella soltanto, un linguaggio fatto di parole inventate, sciaqquicciate, ingialluntite, parole che costruiscano concetti che nelle lingue esistenti in effetti non esistono, come per esempio

 

“camminare arrampicandosi su un terreno scosceso in salita”
oppure
“la sensazione che si prova dopo sette ore davanti a uno schermo, quando la mente avrebbe voglia di continuare a rimanere in quel trip ma il corpo ha bisogno di altro, ha bisogno di movimento, perché è fatto di muscoli e carne e la carne e i muscoli sono indolenziti”.

Oppure il bisogno di amore,
quel bisogno di amore che avviene per un momento soltanto ma che ti lascia dentro come una fitta
quelle cellule che si spostano e rimbombano e muovono
il tocco del bastone sulla risonanza del legno
un uomo con una camicia rosa e suo figlio percuotendo castagni,
sotto la luce del mattino, la prima luce del mattino,
un padre e un figlio in un cimitero che è anche un giardino.

 

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Battery: 70%


09 Lug

Dove sei stato a giugno.

Non lo so.
C’era tanta gente.

C’era tanta gente.

Sì. Tanta gente.

 

E cosa faceva, tutta quella gente.

Non lo so.
Pregava.
Cantava.
Urlava nel buio, ma poi si calmava. Arrivati a un certo punto, si calmavano.

Come se non sentissero più paura.

Come se non sentissero più paura, ho detto.

Forse.
L’hai detto te.

 

E poi?

E poi il caldo, il sudore nella schiena. L’aria fresca dal finestrino, come su una barca a vela.
Come su una barca a vela.

Quindi sei un viaggiatore.

In che senso.

Quella cosa dell’aria fresca dal finestrino. In fondo non è quello, viaggiare?

Non lo so. Ognuno ha il proprio modo di viaggiare.

C’era un uomo solo, seduto al bar. Non beveva. Non si spostava.
Sceglieva il posto all’ombra, arrivava solo nel pomeriggio.
Ma il pomeriggio può essere lungo di attimi e di momenti,
e di suono nel vento,
di assenza e di silenzio.

C’era quell’uomo solo, quindi.
Sì. Un uomo solo.

La sua famiglia c’era, ma era da qualche altra parte.
Passava i pomeriggi seduto a guardare.
Cercava qualcosa. Lo cercava con calma.

Ognuno ha il proprio modo di viaggiare.

Ognuno ha il proprio modo di viaggiare.

E tu, sei in viaggio da tempo.

Sono in viaggio da sempre. Questa cosa sotto la pelle scotta, se mueve ardiente.

Intendi la nostra condizione su questa terra.

Intendo lo scorrere del tempo. Eri tu che parlavi di tempo.

Sì, ero io. Ti ho chiesto dove sei stato a giugno.

Dove sei stata a giugno.

Non ho usato un’idea di luogo, per chiedermi dove sono stato. Ho usato a un luogo fisico nel tempo. ‘Giugn0’.

È infinitamente grande e infinitamente piccolo.

Dove sei stato a giugno.

Dove sei stata a giugno?

Most-na-soci


24 Mag

[foto di simone rossi]

 

Antonio, 86 anni, saluta i viandanti e li invita a bere qualcosa.
Alle sue spalle scorre l’Isonzo. Lusinç in friulano standard. Isuns, Lisuns, Lusinz, Lusins nelle varianti locali. Soča in sloveno, Lisonz in bisiaco. Sontig in tedesco.
È buon costume offrire qualcosa a chi cammina a piedi. ‘Da dove venite’, ‘dove andate’, ‘dove pensate di dormire una volta che la notte scenderà’.
Le domande risuonano in italiano elegante.
Voce ferma, sguardo sicuro, Antonio è stato un bambino italiano. Un bambino italiano e quindi un ‘Balilla’, e mentre lo pensa ride divertito, come a dire ‘eppure tutto questo un tempo accadde’.

Con un bicchiere di Campari in mano, Antonio racconta.
È appena tornato dalle pianure tedesche.
Ha voluto vedere ancora una volta il campo di concentramento in cui è stato rinchiuso, con la sua famiglia, quando aveva dieci anni o poco più.
Dachau. In bavarese: Dochau. Pronuncia in italiano: /daˈkau/.
Antonio è contento di essere stato là ancora una volta. Il campo di concentramento è zeppo di ricordi di sua madre, suo padre, i suoi parenti. Strano a dirsi, ma è così. Sorride un po’ meno divertito, come a dire: ‘eppure tutto questo un tempo accadde’.

Ma Antonio ride della storia e delle sue frontiere.
‘Qui nel 1945 si è abbattuta seriamente. Fino al 1954 in realtà questo era Territorio Libero di Trieste. Poi, è diventata ufficialmente Cortina di Ferro. La linea tra la NATO e il blocco sovietico passava proprio qui’.
Così, Antonio e i suoi vicini si sono ritrovati comunisti jugoslavi. ‘Comunisti’ e ‘Jugoslavi’ sono due termini appicciati dagli altri per immaginare anche lui. Nella realtà delle cose, non significavano niente: il comunismo era un’idea di sofismi lontani, e la Jugoslavia un’invenzione di Tito Broz. Sloveni, Croati, Serbi, Bosniaci e Macedoni riuniti insieme sotto un’unica bandiera: strano a dirsi, eppure tutto questo accadde. Non era un’idea così strampalata: secondo Antonio, la lingua slovena assomiglia più al macedone che alle sue dirette vicine. Un qualche tipo di parentela deve dunque esserci, non è vero?

Così, da venticinque anni a questa parte, Antonio è cittadino sloveno.
E da quindici, cittadino europeo.
Chi l’avrebbe mai detto? Dopo le origini austroungariche, l’Italia fascista, la Germania nazista, la Jugoslavia comunista, un’Europa democratica.
Dopo le diciassette frontiere che da(in epoca italiana: Santa Lucia. Prima ancora, in epoca austroungarica: Sveta Lucija o Sveta Lucija na Mostu, in tedesco: Sankt Luzia) bisognava attraversare per andare a prendere legna in territorio straniero cinque km più in là, l’Europa esiste ed è Libera.

E chissà se un giorno ci sarà qualcuno che passando da lì a piedi si troverà a dire: ‘anche questo un tempo accadde’.

I cinesi sulla Luna


04 Gen

I cinesi sono arrivati sulla Luna
risalendo una scala di plastica raggiungeranno anche il Sole
e da lassù vedranno un mondo
vedranno un mondo in cui ancora si muore.

Nel frattempo
qui d’inverno si rimaneva sotto le coperte.
E le coperte pesavano a fumo, a stanza chiusa ed a gelo.

La gente di qui girava sigarette con foglie di noce per aver qualcosa da fare.
“Guarda qui. C’è il segno di mille zolfanelli rimasto qui, scavato nel legno”.

E respiravano fumo, stanza chiusa e gelo.
Respiravano l’inverno delle cose vere.

I flussi dell’aria, la trasformazione del caldo che si spegne.
Sentivano freddo, vedevano pace e tridimensionalità che prima non c’erano.
La luce della Luna, senza i cinesi addosso, che riflette il bianco della prima neve.

Gli uomini e le donne che abitavano qui vedevano le cose da una prospettiva diversa
in ogni metro un messaggio,
in ogni segno una scia.
Tutto era linguaggio e veniva da lontano,
veniva dal volo degli uccelli, ed era ‘Presagio di cosa futura’.

Così gli uomini e le donne che abitavano qua uscivano di casa e potevano respirare.
Gli spazi aperti. La dimensione del nulla.
Nessun segno umano sul territorio,
nessun cinese ad infestare la Luna.

Un unico segno umano sul territorio:
è un sentiero, una strada.
Non mi serve nient’altro.
Voglio tutto quel che c’è.

 

 

La Volpe e il Mirtillo


27 Ago

 La Volpe e il Mirtillo

Venerdì 24 agosto, mentre i ministri da bettola rimanevano concentrati sulle loro questioni di principio, una cooperativa sorta grazie a una corretta, sacrosanta e lungimirante gestione della manodopera migrante ha intrapreso un’opera storica, recuperando una vecchia vigna in frazione Eca, ad Ormea.

La migrazione, come l’agricoltura, può essere un problema o una risorsa. È tuttavia curioso notare che, mentre molti italiani della Val Tanaro rimangono a pontificare, polemizzare e inveire contro i negri seduti davanti a un bianchetto al bar, i cosiddetti negri recuperano i boschi lavorati dai loro avi e abbandonati dai loro genitori, contribuendo a una trasformazione del paesaggio che, se non cambierà la storia, cambia almeno la geografia.

L’ombra lungo i muri


11 Ago

“Splende la piazza già tranquilla di cielo e di botteghe
ma quei ragazzi andati al Venezuela
hanno scritto la loro ombra lungo i muri”.
Francesco Costabile

Sulle pareti di Castelnuovo di Conza, alta Irpinia al triplice confine tra Campania, Calabria e Lucania, c’è spazio per la poesia.
“Vedi questo palazzo abbandonato, al centro della piazza”, dice Tina. “In occasione della presentazione del tuo libro di stasera, avremmo voluto decorarlo con un grande murale, un’opera d’arte per omaggiare la vicenda dei fratelli Di Domenico, i nostri concittadini illustri. Purtroppo è stato impossibile, perché abbiamo scoperto che gli eredi dell’immobile sono 36, sparsi in tutto il mondo, in tutto il mondo davvero. Nessuno sa più chi siano. E loro non sanno più dov’è Castelnuovo di Conza”.

Castelnuovo di Conza è il paese degli emigrati.
Quattrocento sono i residenti in paese, tremila e cinquecento i castelnuovesi iscritti all’AIRE. Sono discendenti di chi partì centoquaranta anni fa, vendendo il corallo ai francesi o i prodotti italiani ai lavoratori del canale di Panama. Oppure sono partiti loro stessi negli anni Sessanta, Settanta o Ottanta, perché l’emorragia non si è fermata con l’illusione del boom economico d’Italia. “La nostra principale tradizione è l’emigrazione”, dice ancora Tina, e c’è ironia e c’è consapevolezza nelle sue parole. Tina è l’unica rappresentante della sua classe anagrafica ad aver scelto di vivere al paese.

Tra questi professionisti della fuga, il libro “A raccontar la luce” recupera la straordinaria vicenda dei fratelli Di Domenico, che negli anni Dieci del Novecento divennero, un po’ per scelta e un po’ per caso, pionieri del cinema in Colombia. Per loro l’idea del cinematografo nacque come un’idea commerciale tra le altre, fino a quando il gioco divenne serio e iniziarono a produrre film. Oggi le loro vistas, filmate a partire dal 1915, rappresentano il materiale filmico più antico nella storia cinematografica del Paese sudamericano.

A Castelnuovo qualcuno si ricorda ancora di loro. “Lu millunario”, veniva chiamato Francesco, il maggiore dei due fratelli. Negli anni Trenta fece ritorno in paese con “la scatola parlante”, il primo apparecchio radio a raggiungere quelle montagne. L’entusiasmo fu tale che la scatola parlante non veniva mai spenta; gracchiava dal balcone di casa Di Domenico 24 ore al giorno. La madre di Tina invece ricorda il profumo dei glicini che correva su quel balcone. Quando lei nacque Francesco se n’era già tornato definitivamente in Colombia, che era divenuta, come per molti altri castelnuovesi, la nuova patria adottiva.
L’emigrazione, dopotutto, è un gioco che va giocato fino in fondo.
Una volta abbandonato, al “maledetto paese” non si torna più.

Ma nel tardo pomeriggio del 23 novembre 1980, il paese è divenuto maledetto per davvero. Una scossa sismica durata un paio di minuti ha azzerato il paese, e decimato ulteriormente chi è rimasto. Sono morti soprattutto i bambini, più reattivi a fuggire per strada alle prime avvisaglie del tremore. Castelnuovo di Conza oggi sorge più in basso, in un improvvisato dialogo architettonico tra le abitazioni d’emergenza che poco alla volta divennero definitive e le nuove case. Il centro storico è stato in buona parte ricostruito, tale e quale a come si era sviluppato a partire dal secolo XII. Sono uguali le forme delle case, la loro disposizione e anche i colori sono gli stessi. L’unica differenza è che non ci abita più nessuno: i castelnuovesi hanno sviluppato un comprensibile senso di terrore verso il borgo che ha seppellito i loro cari. Nella graziosa piazza del paese, di fronte alla casa dai 36 eredi ignoti, sorge un efficace monumento alle vittime del sisma. I figli di Tina giocano tra la simbolica porta dalle catene spezzate. Mentre osserviamo la scena nelle ultime luci del giorno, un impiegato del comune scaccia i fantasmi del passato. Aveva diciott’anni quando si ritrovò ad estrarre con le proprie mani, pochi minuti dopo il crollo, il cadavere della prima piccola vittima del sisma.

“Splende la piazza già tranquilla di cielo e di botteghe,
ma quei ragazzi andati al Venezuela
hanno scritto la loro ombra lungo i muri”.
Tra il terremoto e l’emigrazione, l’emorragia dei castelnuovesi ha segnato l’intero Novecento. Eppure il paese non si arrende, come conferma il grande lavoro svolto dalla neo-ricostituita pro-loco “a Chianedda”. Nel centro del nuovo paese sorto giù in basso c’è una piazza dal nome significativo, “piazza dell’Emigrante”. Tra ius soli e ius sanguinii, in un’Italia incapace di fare i conti con il proprio passato transnazionale e precario, chissà che non arrivi proprio da lì un messaggio per il futuro.

Diary of a Baltic Man

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