Archive for the ‘Notte’ Category

Ma chi poi perché


13 Set

Sinestesie...

Così a Cracovia avevo cambiato una bici arancione per un vecchio clarinetto di legno. Troppi chilometri vibravano nelle gambe e nella testa; era tempo di cambiare. Di iniziare a cercare me stesso osservando il movimento degli altri, seduto su un marciapiede, dietro una parete di musica. Avevo incontrato un fratello fino ad allora sconosciuto là dove non avrei mai pensato di cercarlo, e aveva un cappello grigio. Quando iniziavamo a suonare polka, la gente si divertiva a riempirlo di monete, soprattutto i bambini. “E’ quasi commovente la curiosità dei bambini di fronte al mai visto”, aveva detto un vigile urbano stanco, il cappello bianco in mano, di fronte a una gelateria. Suonavamo di sera, dormendo sui marciapiedi.

 

Da uno a ventuno


06 Nov

Silence

La notte vola via a colpi secchi, da uno a ventuno.
Sul tavolo bicchieri umidi, portacenere pieni, il cadavere di una pizza mangiata a metà.
Il fumo vola via lento da uno spiraglio nella finestra. Si confonde con la città di novembre, diventa atmosfera di una notte andalusa.

“E tu, come fai per resistere?”, chiede l’uomo in camicia e bretelle, occhi lucidi di canzoni ascoltate nel telefono.
Nel suo accento c’è ancora il riverbero di un cammino interrotto, la striscia d’asfalto che non è più lì.
La voce metallica rimane nel laptop.
Sullo schermo si muove un’immagine composta da mille oscurità, quel che resta di un volto sfigurato dai pixel.

L’uomo in camicia e bretelle sospira e vuota il bicchiere.
Stringe tra le dita il vetro umido e canta sottovoce, conta sottovoce da uno a ventuno.

Nella stanza adesso è solo, non c’è nient’altro che lo schermo di un laptop appoggiato sul legno sporco del tavolino.
Le volute di fumo sono ormai volate via verso le ombre della Sierra Nevada, verso la notte piena di portacenere esausti, verso il buio.
Alle canzoni lasciate a metà non rimane più niente da chiedere, toccherebbe a lui continuarle e portarle nuovamente verso l’asfalto, verso scenari di un cammino interrotto, verso nuove rime in lingue ancora da imparare.

L’uomo in camicia e bretelle è cosciente di tutto questo e sa che non rimane nulla
assolutamente nulla
a cui vale la pena resistere.

Eppure c’è la voce metallica nella plastica del laptop, e il fumo che torna indietro lento, attraverso uno spiraglio lasciato aperto nella finestra.
Senza togliere la mano dalla superficie nera l’uomo in camicia e bretelle chiude lo schermo e rimane a pensare.
Poi prende tra le dita il bicchiere umido e canta sottovoce, conta sottovoce da uno a ventuno.

Il vento, anche se è brezza notturna, è ora caldo e umido, e viene dal West.
Chissà come sarà nel primo mattino, se già alle due e mezza c’è tanta afa nell’aria.

Frontdoor


11 Ott

Mwaké

Avevano fame,
fame per davvero,
e si muovevano per il mondo con la spietata consapevolezza di chi sa che può agire
solo a colpo sicuro.

Apparivano nelle loro calzette gialle,
o con un velo di seta stretto tra i capelli e la notte,
là dove la pelle del collo si incontra con quella delle spalle.

Quando arrivavano, le persone raccolte intorno alle fiamme si allontanavano nel freddo,
con uno sguardo sospeso a metà tra ammirazione e fastidio,
con la pelle bruciata da un brivido,
la pelle bruciata da dietro.

Chi invece restava e si fermava ad ascoltare,
riusciva a percepire quel che nascondevano tra i capelli e la notte,
l’odore di zolfo e di rugiada che si appiccica addosso solo a chi sa che deve agire
solo a colpo sicuro,
quando la piazza è ormai deserta,
e si avrebbe voglia di calore.

Le persone come le altre allora si nascondevano dietro i vetri
e schiacciavano sotto i polpastrelli quel che mai avrebbero potuto toccare.
Osservavano ombre che si muovevano leggere nelle loro calzette gialle
e la brace della sigaretta avvicinarsi sempre più verso le labbra
e respiri carichi di fame carichi di fumo carichi di eucalipto carichi di neve,
respiri che si confessavano in vapore e andavano ad appoggiarsi proprio là,
dove la pelle del collo si incontrava con la fossetta che scompariva sotto la seta.

Erano respiri di chi aveva imparato a non smettere di avere fame,
di aver fame per davvero.

Il limite


06 Set

Il limite

Sai cos’è la scultura?
Profondità.
La scultura non è nient’altro che profondità.

Chi disegna, vede un letto.
Lo scultore deve riempire quel letto.

Betacam


27 Ago

Porto di Savona

Strane meccaniche assurde.
Accadevano nel tempo in cui sulla terra c’erano ancora le rane, e gli uomini si nascondevano dentro gusci di plexiglass.

Sotto la carezza della rugiada si annusavano i maschi e le femmine, si annusavano e si scoprivano così diversamente simili nei loro gusci d’antipodi.
Bagnavano la lingua nel tè, s’inumidivano le labbra secche attraverso sorgenti sotterranee.

Come neonati si toccavano, si studiavano, riconoscevano nell’odore dell’altro le stesse stigmate dello stesso spettro introspettivo, e si chiudevano il naso e si tappavano gli occhi per non vedersi percorrere la giusta via.

Ancora esistevano spettri d’irrazionalità in quelle epoche confuse, e nessun circuito e nessuna meccanica sapeva opporsi al disordine apparente.

Gli uomini e le donne, sdraiati sull’erba, si fondevano in un destino non ancora scritto e lo facevano arbitrariamente. Uno con l’inchiostro e l’altra col papiro, componevano poemi a quattro mani dove il filo logico inevitabilmente si spezzava là dove la poesia si trasformava in prosa.

Morivano e nascevano sempre e solo e comunque nel nome di questo dio inclemente.

Erano i tempi delle rane, e gli uomini e le donne molto spesso si nascondevano dalla rugiada e da loro stessi, sotto gusci asfittici di plexiglass.

Lala salama


10 Mag

Fishermen

Locale sudato di vento notturno.
Secondo piano di una palafitta di legno, di fronte all’Acacia Hall del centro di Kampala.
Un ragazzo dà le spalle alla festa. Le ginocchia su una panchina e i gomiti appoggiati alla finestra.
E’ Rafael.

Osserva la città travolta dai lampi.
Alle sue spalle il legno è verde, il legno è viola, il legno è blu.
Anche la musica è stata verde, è diventata nera, adesso è blu.
La festa va avanti e va avanti per davvero.

Le tavole vibrano. Le donne scivolano contro, muovono. Grandi ventilatori laterali garantiscono un vento fresco che entra nella camicia e finisce tra i capelli degli altri.
Rafael continua a guardare fuori dalla finestra. Il vento gli arriva in faccia carico d’acqua.
Piove.
Laggiù in strada passano due individui con due lunghi pali di legno sulle spalle. Appena superano il fascio biancastro della luce pubblica si fermano, spostano il palo sull’altra spalla, riprendono fiato.
“Ladri”, pensa Rafael.
“Chissà dove hanno preso quel palo. Chissà cosa ne faranno”.
Trycha lo segue con la coda degli occhi, continua a ballare.
Anche per lei sono le cinque del mattino. Anche per lei sono cinque ore ballando.
Un paio d’ore prima Rafael e Rachid avevano spiegato che nella loro lingua “to dance” e “to fuck” sono un termine solo.
Poi avevano spento la sigaretta, e siamo tornati a ballare.

“Le uniche luci che vedi sono quelle dei ricchi”, dice Rafael.
“Ogni luce una casa. Ogni luce una casa. Ogni luce una casa. Sembra che tutt’intorno non ci sia nulla. Il nero più assoluto”.
Kampala è una distesa di colline di terra rossa.
Campi di manioca si alternano a officine meccaniche, palazzine e motel. Nelle intersezioni tra le colline sorgono i centri commerciali.
Di fronte a un centro commerciale c’è una finestra senza vetri con un ragazzo che guarda là fuori, e alle sue spalle, una festa.
Da un paio di minuti almeno i ragazzi sono diventati due.
Là fuori ha iniziato a piovere, e la pioggia del tropico è un discorso totale.
L’unico modo per non sentirla è trovarsi in una palafitta infarcita di musica, donne che scivolano, luci colorate, rhum.

Qualche secondo più tardi arriva un unico grido.
Tonalità infantili o femminili, una lama di suono che arriva da lontano e riempie le strade di queste colline.
E’ andata via l’elettricità e iniziano storie nuove.
Perché quando piove va via la luce, e le distese di colline rimangono al buio. E quando succede, si spengono prima di tutto le orecchie, sparisce una crosta di suono che non si ricordava nemmeno più di percepire.
Chi credeva di stare già sonnecchiando può ritrovarsi improvvisamente in movimento, come un gatto.
Per questo appare gente che tenta di fuggire, per strada, con due pali di legno sulle spalle.

Kumasi


23 Mar

Mezzanotte.
Suono di generatore elettrico.
Da sette ore manca la luce, e inevitabilmente la notte diventa più notte.
Voci di ragazzi e ragazze che gridano.
Ovattate, lontane.
Come se festeggiassero un gol davanti alla televisione, davanti a un bar per strada, là sotto.
Ma festeggiare un gol è impossibile: anche stanotte manca la luce, non c’è calcio e non c’è televisione.

E allora suono di generatore.
Viene di là, dietro il muro bianco, sotto la tanica dell’acqua.
La casa di fronte ha bisogno di luce, per i condizionatori d’aria, per la connessione wireless.
La connessione wireless serve anche di qua, e quando manca quella, inevitabilmente la notte diventa più notte.

Ecco cosa succede di notte, nella seconda città del Ghana.

Enkewarie


24 Dic

Cosa ti ricorderai di questa notte
vissuta per sbagli e capricci non tuoi
ascoltata in movimento confuso
tra risate e silenzi lasciati a metà.

Cosa ti porterai dietro da questa notte
se non un gioco di finta realtà
sarà l’immagine di un momento preciso
il suono di un tempo che sapeva di noi.

E allora

Come ti ritroverai in questa notte
quando la luce del presente sarà lontana
quando un pezzo di carta sembrerà bugia
lo specchio di un’alba
in cui la notte morì.

Chi non ha non è. Proverbio calabrese


15 Nov

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L’odore di McDonalds impregna la nebbia, il rosso inutile del semaforo, tutto.
E’ un passaggio obbligato che sa di routine, è un discorso di luci nella notte di Eichstatt.
Venti secondi o poco più.
Tanto dura, in bicicletta, l’immersione olfattiva nel mondo degli altri.

In testa rimangono i suoni più strani.
A volte è utile guardare il mondo dalla prospettiva temporale di una mosca, che percepisce ogni cosa rallentata, che riesce a fuggire lo schiaffo che la vorrebbe uccidere.
I movimenti del barista mentre prepara il mojito.
Le espressioni degli occhi di una risata isterica, tra fumo di sigarette, di fronte al locale.

La bicicletta, parcheggiata, si infila nella solita intercapedine.
Contatto di metalli, prospettive di rugiada.
Una luce, una luce sola, è accesa nell’intero complesso residenziale.
Penso che c’è qualcuno sveglio a quest’ora, che c’è qualcuno sveglio con me.

Risalgo le scale senza riuscire a individuare la prospettiva.
E’ una via di mezzo tra un “qui” e un “altrove”, ed è così da quanti anni ormai?
Raggiungo il balcone, numero ventotto, la mia serratura.
La finestra è illuminata.
La luce accesa era la mia.

Ex-sistere


23 Mar

Lontano anni luce da qui
da qualche parte esisto anch’io, ci sono, partecipo alla vita delle cose.
Sento i tuoi passi prima di andare a dormire muovere sul pavimento
il suono del tuo sguardo alla finestra, dietro le pareti di destra e di sinistra.

Da qualche parte esisto anch’io,
nonostante sia ad anni luce da qui.
Lontano.
A volte mi sembra di sentirmi tra le frequenze delle antenne
succede soprattutto di sera, e dipende anche dal vento.

Eppure esisto, giuro di essermi sentito
una voce ovattata dal piano di sopra, come qualcuno che guarda una televisione.
Poi qualcun altro ha acceso una luce
è scrosciata via l’acqua, e io sono sparito.

Da qualche parte.
Forse è rimasto nel paradiso perduto
incastrato nel regno delle possibilità.

Lontano anni luce da qui
da qualche parte
ne sono certo
esisto anch’io.

Diary of a Baltic Man

Real Eyes. Real Lies. Realize.


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