Archive for the ‘Purple Castle’ Category

To my home, which is Everybody’s home


29 Ago

Moon Traveller

Torno a casa ogni sera
ogni giorno riparto.
Gli altri vengono a cercare cose qui,
io mi allontano per cercare il mondo.

Mi dicono “dovresti vederti meglio” e io rimango a pensare.
Mi dicono: “quel che fai muove le cose”
e io rimango fermo a osservare.

Questo non è un film non è un diario non è storia per gli altri
troppi sottotitoli da dover inserire
troppe note di pagine che appesantirebbero il testo.

Torno ogni sera e ogni giorno riparto
questo è il mio destino,
quel che mi lascio dietro non conta.

Due amici


20 Ago

La vedi, quella vecchia panchina.
Un’asse di legno appoggiata su due blocchi di pietra.
Ogni casa aveva la sua. Stavano sempre lungo la parete più calda, e guardavano a sud.
Erano elementi centrali: stabilendo una pausa, davano un ritmo alla giornata di lavoro. Nelle ore più calde, o nell’ultimo spiraglio di luce, ci si rifugiava lì. Con gli occhi chiusi ad ascoltare il vento marino. Con la schiena appesa al muro, ad assorbire ciò che restava del calore del giorno.

I due vecchi che abitavano in quest’angolo (l’ultimo dei due è morto quest’anno) si incontravano ogni sera, ognuno sulla sua panchina. Il primo che arrivava chiamava l’altro come un fischio. Erano come due uccelli, o due ghiri, due animali che vivevano la loro casa come un elemento in più nella natura circostante. E che vivevano la natura circostante, addomesticata, come un prolungamento della loro casa.
Quando entrambi si erano seduti, rimanevano così, in silenzio, a passare insieme l’ultima mezz’ora di luce.
La schiena appoggiata all’intonaco caldo, ad assorbire calore.
Non avevano niente da dirsi, e allo stesso tempo si stavano dicendo tutto.

Nicola ch’i parlòva ‘dmâ dë Viora


03 Apr

Cold Gods

Probabilmente, solo tra qualche decennio diverrà chiara a tutti l’importanza del lavoro svolto da Nicola Duberti, che attraverso la sua collaborazione con l’Atlante Toponomastico Piemontese Montano è riuscito a fissare su carta [e su mappa] un tesoro linguistico destinato a sparire per sempre – e, di fatto, ormai già sparito.

Quando si perdono i nomi, si perdono anche le cose.
E infatti quella specifica roccia, quel rigagnolo d’acqua, quello scau e quell’appezzamento di terreno non significano più nulla. Elementi tra gli altri di un ‘paesaggio’ che esiste solo per chi ha perso del tutto la capacità di guardare, e vede un elemento astratto
[il ‘paesaggio’, appunto]
là dove prima c’erano infiniti elementi dotati di un nome e di un senso.

È un mondo che sparisce insieme alla sua intera geografia.
Ed è un suono che sparisce, suono chiuso verso il mondo.

La nutrita schiera di politici presenti alla serata di presentazione [la campagna elettorale è già iniziata, o non finirà mai], ha dato fiato ai tromboni parlando di internet in montagna, di fibra ottica che non c’è e dovrebbe esserci, quando l’unica cosa che funziona davvero in alta val Mongia è Eolo. Ma così va il mondo e così è giusto che vada: le parole che contano sono quelle che rimangono scritte, da qualche parte nel cuore o su un atlante di carta, e allora grazie a Nicola per questo regalo alla gente che verrà.

À l’infini.


17 Ott

Sul fondo del monte

Ti scrivo.
Ci sono.
Non cercarmi: ci sono.

Oggi sono venute tre macchine uguali.
Tre colori diversi, a cercare qualcosa.

“Wir sind nicht allein”.
Ed è come dire: non siamo soli qua.
Non siamo soli su di qua.

La prima macchina è arrivata alle 8 del mattino.
Nebbiolina fine. L’autunno inizia così.
Era una macchina arancione e l’uomo che ne è sceso non stava in piedi.
Diceva frasi sconclusionate, il suo cervello girava anni luce lontano da qui.
Ho pensato a Emel Mathlouthi, a montagne lontane.
All’Atlante.
Alla lingua dei berberi.
Ho cercato di rispondere al tipo schiumante.
“Quel che cerchi non è qui. Quella è la strada. Tre chilometri più giù”.

La seconda macchina è arrivata alle 11.
Si è persa nel bosco, wind non ha network su di qua.
“E quelle, sono due pale eoliche quelle?”
“Sono quattro. Ma wind non ha network su di qua”.

Cercava di far luce su dinamiche sedimentate.
Sul perché non ci fosse un mulino di comunità.
Sul perché ogni famiglia facesse la farina per sé.

“Non cercare di scavare, non troverai nulla”.
L’ha sentito dire tante volte.
Ogni volta ha iniziato a scavare, e ha trovato di tutto.

La terza macchina ti ha portata quassù.
Era nera e rovinata dalla grandine.
L’hai lasciata alle intemperie, e ti capisco: lo faccio sempre anch’io.
E sei rimasta un attimo a guardare, poi hai detto semplicemente: Wir. Sind. Nicht. Allein.
Non siamo soli, su di qua.

Ora tutto questo sembra lontano
ma siamo già stati qua
e gli altri ancora ricordano.
L’acqua che ci avvolge è già stata intorno a noi.
E la nuova luce, è solo un po’ più adulta.
Tutto intorno resta il buio.
“Resta il buio, dio tirchione”.
Resta il buio.

Via Castello 57


06 Lug

Quattro minuti, cinque di silenzio.
La stanza azzurra, il colore dell’inverno, la caffettiera, smembrata in pezzi, che asciuga al caldo sopra la stufa.
“Addestrava i cani a non mordere. Gli si sono rivoltati contro. Lo hanno mangiato”.
La signora F. aveva parlato all’improvviso.
Guardava verso il pavimento, e lentamente si massaggiava le gambe.
Aveva detto solo quello, senza aggiungere altro. Una notizia sul giornale, portato dal postino il giorno prima, ricordata tra le altre. Un messaggio dal mondo. Ecco quel che succede laggiù.

Poi aveva aggiunto: “Se fosse stato a casa, non sarebbe successo”.
Lo diceva per tutto: incidenti in montagna, vittime del terrorismo, uomini sbranati dai cani.
Era un rimprovero cinico, ma anche un dato di fatto. E non voleva dire nulla.

Nulla.
Il totale disinteresse verso le cose del mondo. La piena dissociazione.
Come se non volesse assumersi più responsabilità. Come un tentativo di dire: “ci hanno provato. Non ha funzionato”.
La signora F. pareva dire così ogni volta che il postino chiedeva informazioni circa i suoi clienti. Gli abitanti della borgata.
“Bernardo? Aveva un bel parlare, lui…”
“Delfu? Questa volta si è fermato. Non balla più”.
La signora F., che aveva passato gli ultimi quarant’anni della sua vita dietro la sua finestra. Lentamente aveva visto tutti gli altri raggiungerla, perdere il passo, rallentare. E sorrideva del loro destino. Un “loro” comune, che includeva un plurale indefinito, una sorta d’ironico “noi”.
Ecco, ad essere sincera con se stessa, forse non si sarebbe mai aspettata di poter condividere, un giorno, un “noi” con quella gente. Così diversa, ostile, lontana. Uomini. Uomini del paese. Quelli con cui aveva condiviso un particolare e definito tempo storico, ed era quello che adesso li riuniva, tutto quel che gli apparteneva.

Sòta du lüv


03 Giu

 

Cammino dietro al suo profumo come inseguendo un ricordo. Animali e fragole, paesaggi primordiali da cui sono silenziosamente fuggito, qualche anno prima, tanti anni prima, quanti anni prima?
Il tempo non ha nessun lato bugiardo quando mi arrampico dietro di lei.
Le foglie crescono, si colorano, diventano la terra sotto i nostri piedi. Quando tutto è Foglia, lei pazientemente le mette insieme, come se fossero ricordi. Poi brucia tutto: a quel punto il tempo perde anche ogni consistenza.

Vista da lontano, vagamente ricorda una bambina invecchiata, un biscotto che si sbriciola nel latte del mattino, il tronco di legno quando è ancora nascosto nell’occhio dello scultore. Lei però non pensa minimamente a tutto questo. Lei pensa esattamente a tutto il resto, a quello che inizia e finisce nella Sòta du lüv. Mi parla di un fulmine che sessant’anni prima è sceso proprio lì, su quell’albero che ancora conserva la traccia del fuoco. Annuisce silenziosamente senza schiodarmi gli occhi di dosso, come a voler confermare il ricordo, come se lei stessa si stupisse non di quel che ricorda, ma dell’atto stesso di ricordare. In quello sguardo di temporale rimane solo lo stordimento del lampo, il suono di un tuono continuo.

Quanti bagagli, tra le rughe di questa donna. Quanto vento. Quanti attimi messi ad asciugare al sole. E io non posso fare altro che continuare a pensare al libro di Mircea Eliade, alla sua bella copertina arancione, sul mio comodino. Devo liberarmi dai feticci, mi dico. Devo liberarmi dai feticci. Devo essere come lei, anch’io sui miei vestiti voglio la musica delle campane, anch’io tra i miei capelli voglio il fumo dei seccatoi di castagne, anch’io tra le mie dita non voglio più niente e nessuno. Come lei che cammina veloce, la schiena curva verso l’erba e il muschio, gli occhi accesi su tutto quello che ha bisogno di essere visto. Trova i pensieri che aveva smarrito il giorno prima. Trova il tempo di stare a guardare.

Trova un fungo tra le foglie e me lo regala. Questo è buono con il limone e il prezzemolo, mi dice. Nella mia tasca però c’è ancora il biglietto d’ingresso del Museo Pompidou: chissà se potranno stare bene insieme, lui e il fungo.

Continuiamo a salire verso la Sòta du lüv, con il passo convinto di chi ha un luogo da raggiungere. Quando uno dei suoi animali devia verso un albero di pesche, lei lo richiama con un linguaggio misterioso, fatto di suoni ritmici e gutturali, un linguaggio spaventoso e bestiale, ma che al tempo stesso esprime tutto l’esprimibile, un linguaggio perfetto.

Su, verso la Sòta du lüv, come ieri, come l’altro ieri, come nell’idea che rimane in testa di un domani. E lei non dice niente, lei che ha imparato ad annullare anche il pensiero. La conoscono tutti la sua storia, giù in paese. La conoscono tutti, perché ognuno ne ha scritto un pezzo, ognuno ha ripetuto una verità fino a trasformarla in leggenda. La conoscono tutti questa vecchia contadina, ma nessuno le ha mai chiesto cosa sia successo veramente, su dalla Sòta du lüv, quando era giovane. Quando era bella. Quando suo fratello tornava dalla guerra. Quando il vino era il vino, cioè tutto ciò che rimaneva a chi tornava dalla guerra.

Non ho mai creduto alla storia della Sòta du lüv. Non ci ho mai creduto perché sapevo bene che era vera, e allora non mi interessava. Negli occhi della vecchia contadina, invece, c’è tutto quel che l’umidità deposita. Negli occhi della vecchia contadina c’è la Sòta du lüv, e non è più un punto da fuggire ma un rifugio in cui nascondersi, non è uno spazio in cui portare le capre ma un luogo in cui farsi trascinare dalle capre, non è quel che mormora il paese ma il suo esatto opposto: la Sòta du lüv è tutto quel che non è mai stato detto.

[Questo racconto ha ottenuto il primo premio al III Concorso Letterario “G. Bottero” di Mondovì (CN). Secondo la Giuria, “il racconto è condotto magistralmente sia per i tagli delle sequenze, sia per lo scavo interiore e la rara capacità di lasciare affiorare i dati sensoriali. Viene espresso il fascino del lirismo e la magia del mondo naturale].

Castagna’s time


06 Nov

     Fuocoart

Il sesto senso è la propriocezione. La percezione del sé.
Le dita delle mani collegate a tutto il resto. Il baricentro orientato sul versante della montagna.
“Nell’anno in cui sei nato queste piante erano state abbattute”.
Era l’epoca delle distrazioni e degli abbagli.
L’uomo nuovo se ne andava in giro per i boschi in motocross, inneggiando a tutto ciò che non sarebbe più stato.

Il settimo senso ha l’armonia del fumo.
Non è odore non è sapore non è colore, ma sa accendere di strana vita l’intero organismo.
“Questo mestiere è il mestiere della libertà. E’ il mestiere di chi non vuole un mestiere”.
Raccogliere i frutti del cielo e del suolo.
Una missione primitiva continua ad alimentare la civiltà del tutto e del niente.
Visti dalla nebbia del bosco nel novembre di mattina, gli uomini e le donne, laggiù in basso, sono algoritmi virtuali privi di ogni minima eleganza.

L’ottavo senso è il senso delle cose.
Ogni castagna una moneta. Ogni frutto, parte dell’insieme.
Cercare canali per valorizzare l’intero lavoro.
Uomini e donne insieme in natura, ad ascoltare il silenzio, a parlare la musica.
Cade il mezzogiorno sulla logica del banchetto.
Le luci del tramonto sono i fari di un fuoristrada, un altro raccolto affidato al criterio del middle man.

Il nono senso s’accende solo di notte.
Accade e non si vede, muove il mondo nei sogni.
Hanno abbattuto le piante ma non le radici. Trent’anni dopo, ecco i nuovi frutti.
“La vostra generazione dovrà ricostruire ciò che noi abbiamo distrutto e distruggere ciò che noi abbiamo costruito. La vostra generazione dovrà imparare a discernere”.
Il nono senso ha a che fare con il tempo.

Il decimo senso non può essere raccontato.
E’ un discorso intimo, che si sviluppa nell’umido.
E’ osservazione ed energia vitale, altruismo e disprezzo, un rapporto di scambio in cui l’uomo non ha voce in capitolo.
Il decimo senso è un discorso d’autunno e di primavere, ma soprattutto d’autunno.
Il decimo senso è la sinestesia del bosco.

Le virtù del fuoco


17 Feb

Eccedenza di combustibile
vitale consumo di forza motrice.

L’impossibilità di prendere sul serio qualsiasi forma di inerzia,
impossibilità cinetica.

Viviamo succhiando il sangue del nostro passato,
dice Lacarne in un file .wav,
materia buona.

Le virtù del fuoco
segnano ogni passo lungo il cammino.
Bruciando i tappeti,
purificando il suolo,
generando cenere,
si congelano in cicatrici.

Le virtù del fuoco
divorano l’aria intorno.
Assorbono ogni profumo
rilasciano ingannevole calore
distorcono ogni immagine reale,
nel loro gioco attraverso la luce.

Non c’è niente di più potente,
e per alcuni curanderos kitchwa,
il fuoco è prima di tutto una cura.

Il fuoco trasforma, devasta, annerisce, riscrive.
Il fuoco colpisce, si spegna, diventa rosso e poi muore.
Il fuoco rinasce, non scorre, si accende e non chiede.
Il fuoco unisce gli elementi,
separa la materia,
il fuoco è qualcosa che prima non era.

Ma tra tutte le sue virtù,
il fuoco non dimentica:
di saper spostare l’aria,
di riuscire a essere un vortice.

Svendita totale. -50%.


07 Feb

Sarà qualcosa che ritorna e costantemente ritorna,
dall’altro lato del mare,
dal decimo piano di una finestra su  nebbia.

Qualcosa che semplicemente accade
nel sovraffollamento di nomi, di volti, di ombre, di momenti a luce blu.

Aurore boreali di quando eravamo piccoli, e il mercoledì era il mercato.
Prima che inventassero l’America.
Prima che scoprissero gli aerei.

Nomi fantastici riempiono di colore i cartelli, al fianco della lunga linea d’asfalto.
Humahuaca. Maimarà. Tilcara.
Micromondi significativi quanto un intero universo, galassie lontane interconnesse da una falla nel sistema.

Intere legioni di bambini scorrono lungo le loro strade polverose, popoli di indiani e cow-boy così immaginari da diventare tremendamente veri.
Ancora una volta, il paradigma del “paese” va sottobraccio con quello di “infanzia”.
Sono complementari, intercambiabili.
Ma non possono prescindere l’uno dall’altro: non può essere stato veramente “piccolo”, chi è nato in una città.

Manifesti pubblicitari appena sostituiti ai margini della Provinciale.
La memoria evolve in fantasia, ricostruisce mentalmente la geografia di luoghi e storie che improvvisamente appaiono fantastici e lontani –  Humahuaca è più reale. Ottomila kilometri più in là, è possibile disegnare ogni curva ripercorsa e ripetuta nei scivolosi anni dell’infanzia, scrivere la mappatura delle buche nell’asfalto.
Non è normale. Non dovrebbe esserlo. Lo è.
Il concetto di “casa” diventa un’astrazione in qualche modo limitata.
Superate certe prove, oltrepassati i confini di Merica, l’irrazionalità diventa un surrogato necessario, la terra degli antenati.

Il molteplice tende a diventare univoco


30 Dic

corbo2

Il rito del tempo si ripete bugiardo.
Lei cammina a piedi nudi nella neve, un corvo gracchia sopra la sua testa.
Lui ha in mano la statuetta di uno spirito voodoo.

Immaginare il mondo come uno spazio di possibilità.
Immaginare l’immagine come quello che non è.
Immaginare l’immaginazione è  quel che ne consegue.

La nuova psicanalisi passa attraverso il Superyou.
Non è l'”io” vissuto inconsciamente che importa, ma l'”io” riflesso attraverso i tuoi occhi.
Vivere ogni cosa in funzione di un tu, che se ne approprierà e gli darà una destinazione.
Tutto diventa quindi palese, esplicito, rappresentato.

Tutto diventa vero solo per chi si trova a viverlo
i panni stesi contro l’arancione al cielo, la statuetta impolverata, questo nostro stesso momento.
[nostro, tra te che leggi e io che già non sono più].
Un oceano di discorsi che si rincorrono senza afferrarsi
un oceano di me, rimasti impigliati nella filosofia del Superyou.

E tutto il resto resiste solo per chi può immaginarlo
dove inseguire le tracce del suo passaggio?
Lei cammina a piedi nudi nella neve, un corvo gracchia sopra la sua testa.
E’ in quel corvo che lei sente il Superyou.

Diary of a Baltic Man

Real Eyes. Real Lies. Realize.


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