Archive for the ‘Storie’ Category

Pomeriggio australe


21 Mar

Una niña en la mochilla

Luci di un marzo d’autunno, riflessi di un tempo australe.
Ho un certo fardello sulle spalle. Una bambina che si chiama come la primavera, quattro o cinque anni di età, capelli biondi e sguardo accattivante. Quando avrà ventiquattro anni, capelli biondi e sguardo accattivante, sarà una ballerina di opera. O una cassiera di farmacia. O una ragazza madre, come sua madre, ma questa è un’altra storia.

La gente mi guarda, mi scruta. Non sono i pantaloni a brandelli, non sono gli oggetti disegnati nella testa gialla della mia t-shirt nera (un  cacciavite, un binocolo, un martello, una bottiglietta di cianuro, un gelato, un paracadute, uno stetoscopio. Un annaffiatoio un paio di forbici una macchina fotografica). La gente mi scruta perché cerca di capire a chi somiglia quella bambina che sta cantando sulle mie spalle, a me o alla giovane negrita di fianco a me, che a sua volta ci raggiunge con un bambino più grande accanto? Lei sembra giovane, troppo giovane per essere la madre del bambino, eppure lui le somiglia. Ma la bimba somiglia a me. E io non assomiglio per niente, per niente, alla negrita che mi accompagna e si avvicina e si allontana per cercare la farina di grano 000. Si allontana. Con il bambino al seguito. E io rimango di fronte al macellaio con la bambina sulle spalle, quella bambina che vuole le patatine al formaggio e parla e parla e canta, e una signora dalla faccia simpatica mi osserva mi scruta mi squadra la osserva la scruta la squadra mi guarda le mani le guarda le mani e si dice che effettivamente potrebbe essere mia figlia ma anche no, dopotutto.

-Un chilo di picada comune, grazie.

I macellai sono anche psicologi e sono uomini comuni in ogni angolo del mondo, come se fossero al servizio di una missione, come se la carne sia una scusa.
Il macellaio parla e parla di un documentario sui complotti del mondo mentre la signora accanto mi guarda, e il suo tormento non si risolve: la mia negrita torna con il bambino e con un pacchetto di farina ed è vero che visti da una certa distanza potrebbero essere madre e figlio, ma lui è troppo grande, lui è troppo grande e lei è troppo giovane. Ma chissà.
La bambina invece potrebbe essere figlia mia, condividiamo colori e argomenti, la bambina si tappa la bocca con le due manine sopra la mia testa quando le dico che non ci saranno patatine al formaggio se si continueranno a nominare patatine al formaggio.

Il macellaio continua a tagliare continua a parlare.

-Io mi ricordo. Quando ero bambino, alla televisione ci mostravano film con diavolerie elettroniche per comunicare a distanza. Poi, hanno iniziato con le porte che si aprono quando riconoscono l’occhio del padrone di casa. Solo fantascienza, si diceva. Eppure è provato che Hollywood anticipa di quindici anni la realtà. Oggi iniziano con gli auricolari nelle orecchie e tra vent’anni avremo protesi elettriche nelle nostre carni. Ho messo un chilo e venticinque, lascio o tolgo?

La signora osserva i peli delle mie braccia, biondi come i capelli della bambina sulle mie spalle. Io stesso quando avevo cinque anni avevo i capelli biondi come la bambina sulle mie spalle, vorrei dirglielo per complicarle i calcoli di compatibilità genetica.

-Undici pesos, compañero.

Cerco nelle tasche banconote stropicciate e monete varie, mentre la mia negrita tiene d’occhio il bambino di sette anni che sistema la carne nel carrello. Buenos Aires là fuori è storia di periferia e di epoche lontane, è Italia anni ’80 a Fiat Duna e Fernet Branca. Il macellaio pulisce i coltelli per servire la signora e si prepara a una nuova conversazione. I macellai, i macellai non hanno clienti ma discepoli, cedono carne mista a saggezza. Una mano insanguinata tende verso di me a mo’ di saluto e sulla mia testa lancia un cenno alla bambina ormai silenziosa.

-…beati loro, dopotutto. Che se la godano il più possibile. A proposito, sono figli tuoi?

Altre rovine. Rovine altre


26 Gen

Altre rovine. Rovine altre

Quel giorno il ragazzino tornò a casa e non trovò suo padre. Lo cercò ovunque, ma quando scese il sole ancora non aveva avuto sue notizie.
Così seguì gli uomini della comunità, i suoi fratelli maggiori, e li vide mentre uccidevano una pecora e versavano in un recipiente il grasso delle sue carni.
Quando gli uomini ripartirono, il ragazzino li seguì, e trovò suo padre, e vide come quelli spalmavano il grasso della pecora sul corpo del vecchio, che rimaneva addormentato.

Il ragazzino tornò a casa e prese la sua pelle di vacca, e seguendo un altro sentiero fece ritorno nel luogo in cui dormiva suo padre. Lo trovò che dormiva ancora, così sistemò al meglio la pelle di vacca sul terreno e si addormentò di fianco a lui.

Non riuscì a prendere sonno: si risvegliava continuamente con una strana sensazione, come di sguardi nel buio e strani sospiri puntati addosso.
Sentiva gli animali tutt’intorno: una iena, un’altra iena, forse anche un leone.
Le iene erano soprattutto una risata, un ghigno stridente che è voce di un altro mondo.

Nessun animale si avvicinò. Tutti avevano sentito l’odore della carne, ma avevano percepito anche la presenza del bambino.
Carne viva.

Quella stessa notte gli uomini e le donne della comunità, allarmati, ritrovarono il ragazzino.
Non voleva abbandonare quel luogo: sentiva il ghigno delle iene ancora vivo dietro la schiena.
Gli spiegarono allora che quando una persona muore, muore per davvero.
Solo la sua anima continua ad esistere, forse, da un’altra parte.
Ma la carne appartiene ad altra carne, e anche per questo ritorna alla natura.

Gli spiegarono che il loro popolo era un popolo nomade, e per questo la terra doveva rimanere leggera.

Il ragazzino lasciò indietro suo padre, lo lasciò indietro per sempre.
Tornò al villaggio con gli altri adulti e si chiedeva cosa ne sarebbe stato di lui, almeno fino al giorno in cui sarebbe stato circonciso.
Il giorno in cui anche lui sarebbe diventato un uomo, sarebbe diventato moràn.

Enkewarie


24 Dic

Cosa ti ricorderai di questa notte
vissuta per sbagli e capricci non tuoi
ascoltata in movimento confuso
tra risate e silenzi lasciati a metà.

Cosa ti porterai dietro da questa notte
se non un gioco di finta realtà
sarà l’immagine di un momento preciso
il suono di un tempo che sapeva di noi.

E allora

Come ti ritroverai in questa notte
quando la luce del presente sarà lontana
quando un pezzo di carta sembrerà bugia
lo specchio di un’alba
in cui la notte morì.

Equinozio d’autunno


24 Set

Ieri sono stato investito da un’auto.
In bicicletta.
Di fronte al Lidl.
Avevo ragione io?
Aveva ragione lui?
La questione non cambiava la faccenda.

Il tipo voleva lasciarmi la mail ma non l’ho presa: non avremmo potuto comunicare.
Lui non parlava inglese, io non so il tedesco.
Sono rimasto con la bici un po’ acciaccata e la ruota davanti storta.

Mi sono spostato dall’altra parte della strada, nel parcheggio di fronte al Lidl.
In mezzo ai bidoni per la raccolta differenziata del vetro ci sono delle intercapedini, e ho iniziato a fare leva sulla ruota.

Un’operazione geometrica: un colpo di qua e uno di là, da ripetersi con forza sempre più misurata, per venti minuti.
Nel frattempo una ragazza che probabilmente aspettava qualcuno guardava, due turchi si sono fermati, la gente mostrava compassione o indifferenza e io preferivo quelli che mostravano indifferenza.

Grazie a questa cosa però oggi ho conosciuto il greco che lavora nel negozio di bici.
44 anni, ex bibliotecario, da un anno e mezzo vive in questa cittadina bavarese riparando bici.
Bella la Grecia, dice ridendo, peccato che ci abitino i greci.
Non capisce perché nell’Europa del Sud la gente sia così corrotta.
Perché gli stessi discorsi portino agli stessi governanti di sempre, e perché ai problemi venga semplicemente aggiornato il nome.

Una bella chiacchierata di mezz’ora, il tempo di cambiare il cerchione della ruota anteriore.
Poi ci siamo salutati, ben contenti di tornarcene ognuno per i fatti suoi.

Tra le 6 e le 7 del pomeriggio il cielo è diventato arancione e ha annullato i diversi colori delle foglie.
L’estate resiste alle incursioni dell’autunno.

Chi non è mai partito non può tornare


09 Set

…si può essere stranieri a Londra, se si è slovacchi o italiani, e l’Europa è un’unica casa?

Nella matematica di questo documentario, il risultato è chiaro.
L’Europa non è – ancora – un’unica casa.

Tre anni di gestazione, quattro diverse città, in Europa.
I profili degli intervistati selezionati accuratamente per non lasciare indietro nessuna possibilità: chi è partito e non vuole tornare, chi è partito e vorrebbe tornare, chi è tornato e sta bene, chi è tornato e non sa se ripartire.

E sommerse tra cifre, numeri e statistiche, molte storie vere, di quelle che succedono dentro.
La confessione di Isabel, che dalla Polonia se n’è andata a Londra e con profitto, ma che oggi non può tornare perché suo marito, australiano, dovrebbe reinventarsi una vita in polacco. Isabel, che scrive un diario affinché i suoi figli un giorno possano capire, tormentata dal dubbio che per i suoi figli, quel giorno, la lingua di sua madre sarà una lingua straniera.

I polacchi a Londra (moltissimi, una nazione a parte), gli italiani a Londra (la sesta città d’Italia, dopo Genova), i tedeschi ovunque, gli scienziati delle stelle a cui il concetto di “confine” sta troppo stretto. E una musica che è soprattutto un canto, e una mano che chiede consiglio ai muri, “continuare a spostare le persone, o spostare le prospettive?”

I muri, come al solito, non hanno risposta.

[Il documentario è stato realizzato nell’ambito del progetto ReTurn – Central Europe].

Dove è stata scritta questa storia?


28 Giu

L’anziano signore, che da qualche minuto se ne stava in silenzio, alzò gli occhi fino a quel momento rivolti verso il basso per parlare all’improvviso.

“En un dìa como hoy de 1937 la legiòn Condor bombardeò Guernica, durante la Guerra Civil”.

Ci fu un attimo di silenzio in cui nessuno sapeva realmente cosa dire.

L’immagine di Guernica devastata, comunque, apparve di fronte agli occhi di tutti i presenti.

Più tardi si venne a sapere che l’anziano signore, il giorno del bombardamento, aveva 8 anni, e stava tornando a casa sulla groppa di una puledra, quando fu sorpreso dalle raffiche di spari all’ingresso del paese. Sullo sfondo, il bombardamento appena concluso aveva trasformato il paese in un cumulo di macerie pesanti.

Il vecchio ricordò di non aver pensato, in quel momento, né a sua madre, né a tutti gli altri che probabilmente erano sepolti sotto quelle macerie. Pensò solamente a colpire la cavalla, aggrapparsi alla briglia e fuggire.

Quando arrivò nel paese vicino, tutti pensavano che fosse gravemente ferito, perché aveva le gambe e i piedi ricoperti di sangue. La mitragliatrice aveva raggiunto la puledra, e lui sentendo i pantaloni inzuppati, aveva pensato si trattasse del suo stesso sudore.

Guido Boggiani


10 Mag

boggiani

L’archivio conserva i resti dei tempi eroici.
Il concetto di frontiera, il solito feticcio.
Guido Boggiani, pittore, fotografo, esploratore, etnografo.
Viaggiatore, poeta, uomo del suo tempo, omosessuale.
Si concesse il lusso di essere ucciso dagli ultimi cannibali.

Ben pochi sanno quante fatiche e quanti sacrifici costino alle volte queste esplorazioni benché in apparenza modeste; e gli stessi viaggiatori dopo qualche tempo non vogliono d’esse ricrdare che la parte migliore. Ma è un gran brutto trovarcisi! Tanto più per uno, come me, che non dispone nè di mezzi sufficienti nè di gente adeguata: per cui mi trovo spesso a dover pensare a tutto, non solo, ma anche a fare personalmente ciò che i servi dovrebbero fare im vece mia.

Ho pensato bene, o male che sia, di contrattare coi padroni della schiavetta, perché essa rimanga con me per tutto il tempo che resterà qui ancora. Dopo trattative andate assai per le lunghe, vi hanno acconsentito mediante il pagamento anticipato di una decina di metri di tela cotona, di alcuni fazzoletti dai colori vivaci e di altre piccole cosette di poca importanza. Per cui da oggi in poi sono ammogliato… sino a nuova avviso.

Dopo quattro mesi di estenuante ricerca Cancio giunse in unatolderìa (villaggio). Là trovò i miseri resti di Boggiani e di un altro uomo. La testa dell’esploratore era stata fracassata da un’ascia e poi decapitata. In accordo con una credenza locale con questo accorgimento l’anima non avrebbe potuto fare incantesimi. La sua macchina fotografica era stata nascosta in un buco sotto terra

Davanti a me non vedo che la strada


19 Dic

Poi, finalmente, una parola.
Un nome.
Quel nome.

Allora mi sono avvicinato e ho scrollato l’albero finché è stato vuoto.
Tutti i frutti sono caduti per terra,
tutti,
anche quelli non ancora maturi.

Anche le foglie sono cadute per terra
ma scendendo giù, hanno iniziato a ondeggiare.
Come se la caduta fosse il loro unico scopo.

Quel nome, che è albero, che è foglia.
Che è frutto solo perché tornerà ad essere albero.
Quel che rimane nascosto, esiste con forza ancora maggiore.

Poi, finalmente, diventa una parola.
Un nome.

Da consumarsi con Ritrovamento


02 Nov

Erase un hombre con dos Volvos

Il terzo giorno, la vedova Tobon ascoltò una melodia provenire dal piano di sopra. Automaticamente cercò il suo quaderno e prese a salire le scale. Lo trovò seduto di fronte al pianoforte, interpretando una canzone decaffeinata, ma dall’aroma leggero e gradevole.

La vedova Tobon viveva da mesi con il cuore rassegnato. Era così immersa in questa condizione, che chissà da quanto tempo aveva rinunciato al fastidio di emozionarsi. Tutto succedeva di fronte a lei come una sfilata di oggetti vecchi e scoloriti, mentre sentiva che qualcosa continuava inesorabilmente a spegnersi dentro di lei, come una radio che perde la capacità di sintonizzarsi con il mondo, e rimane, nella sua integrità, come un oggetto vuoto. Come l’immagine di quel che avrebbe dovuto essere, o come l’ombra di quel che ormai non era più.

La vedova, abituata a questo stato atavico personale, cercava, invece (non si sa se per il ricordo di quel che una volta la commosse, o semplicemente perché non voleva rimanere sola dentro se stessa) qualsiasi manifestazione non scritta e neppure parlata di un’emozione estranea – motivazione, questa, che addirittura la portava a muoversi da un paese all’altro; una ricerca inesorabile di soggetto invisibile.

E’ per questo che quando lo vide seduto di fronte a quello strumento che lei riconobbe come “generatore di probabili impressioni, e con un po’ di fortuna, di possibile esaltazione”, decise di fermarsi accanto a lui, senza nessun altro pensiero se non “toh, un piano. E guarda che materasso comodo su cui sedermi, e la stanza? Com’è ben arredata!”

Bene. Quel che accadde a partire da questo istante, per la vedova Tobon sarebbe stato qualcosa di simile a quando percepisci un odore che, per oscure ragioni, ti porta il ricordo di un ricordo dimenticato (come quando ti accorgi del vento che un giorno, chissà quando, ti aveva accarezzato le guance); e non è questione di vento e nemmeno di profumi… è il ritratto di una realtà perduta, una nostalgia crescente verso qualcosa che in fondo non sei nemmeno sicuro che ti appartenga, o che ti sia appartenuto mai… però che imrovvisamente ti viene a mancare, come se te lo avessero portato via ieri.

Fu quindi questo che la vedova Tobon sperimentò quando, senza preavviso, la melodia placida che in qualche modo la portò a fidarsi del ragazzo del pianoforte, si interruppe. E la stessa musica dolce e inoffensiva a cui lei si era consegnata, si convertì in qualcos’altro. Un’entità più in là dei singoli tasti che le davano forma. Più in là dei toni, semitoni, tasti bianchi o neri. Non c’è parola sufficientemente carica di significato per definire quel che iniziò a espandersi dall’angolo dove c’erano un bambino e un pianoforte seduti. Successe che dalle dita del bambino iniziarono a formarsi dei fili: lacci finissimi che si annodavano intorno alle stesse dita, che si annodavano tra loro… e cominciarono ad attorcigliarsi intorno ai tasti, gemendo, dimenandosi mentre si attorcigliavano intorno all’espressione più intima dell’inconscio umano.

Questi fili, che la vedova vedeva carichi di colori intensissimi – ma soprattutto arancione e viola – ballavano la danza elettrica più frenetica che si fosse mai vista, mentre sputavano in silenzio smorfie disperate, come un bebé che si trovasse a nascere senza corde vocali. E intanto passavano i secondi, e la vedova, paralizzata, senza comprendere, ringraziando Dio per non poter vedere in questo istante gli occhi del bambino (la qual cosa avrebbe significato, per ragioni evidenti, osservare senza filtri un’eclisse solare) osservò come questi fili violavano i limiti della capacità emozionale umana, e con la forza di un tifone, si trascinavano verso l’alto e iniziavano a sbattere contro le pareti mentre piangevano, sordi, e vomitavano, turbati. E quindi arrivarono al soffitto, e come acrobati, saltavano all’indietro, volteggiando nell’aria ed eseguendo vortici di tonalità paragonabili soltanto agli odori mai annusati, o alle brezze che mai ti hanno accarezzato.

E a quel punto accadde questo: la vedova, con gli occhi ben aperti, seduta sul pavimento, con le palme della mano verso l’alto, vide i fili atterrare di fronte a lei, e come un esercito ubriaco e implacabile, la prendevano per i polsi, le tiravano i capelli e tutto il resto, mentre vibravano epilettici di fronte ai suoi occhi, e iniziarono a liberare spiegazioni che lei non avrebbe mai richiesto; non per cortesia o per educazione, ma perché non avrebbe mai pensato di averne bisogno.

E i fili, di fatto, non avrebbero mai avuto bisogno della parola scritta, né di quella parlata, né di quella bianca e nemmeno di quelle cariche di tutti i significati, per parlarle del bambino che lei si era presa la libertà di pretendere di conoscere in meno di tre giorni. Un uomo che non si assumeva la responsabilità dei sentimenti che provocava intorno a lui, perché francamente – credeva la vedova – aveva cose più importanti a cui badare.

 “Il bambino tocca i tasti e allora succede che questi fili nascono dall’angolo più puro della sua essenza stringono le sue dita e spiegano cosa succede quando una donna cerca il suo calore disperatamente, ma lui glielo nega. E quel che succede quando io credo di comprendere le cose al di fuori di me, quando non sono nemmeno capace di vedere attraverso la nebbia che copre i miei occhi. Si tratta della facilità di scrivere enciclopedie sugli altri, senza essere capace di scrivere nemmeno un post-it su me stessa. In ogni caso devo andare, perché i fili si avvicinano come una folla iraconda verso i miei piedi e li sento strisciare e dichiarare battaglia a ogni barricata che innalzo, arrogante e superbia. E sento la loro furia perché da molto tempo non riesco a capire. E quindi rimango fuori dal gioco. E suona il Vals d’Amélie”.

 … e per questo i fili esplosero di giubilo: per l’onestà, per la bellezza, per la verità. E allora il ballo era leggero e dolce, e la vedova non volle sentire vergogna né senso di colpa. In ogni caso sentì come ogni tessuto del suo corpo si disfava; vinta ed estenuata, si scioglieva.. e chiuse gli occhi. E si confessò con il cielo, pregò nella sua melodia, e strinse comunione con il bambino.

[testo originale by Solo Red]

s’esbiner


08 Apr

Hiver

Il lento viandante di remota eleganza
giacca baverese e cappello nero in testa
solo un’armonica e un pezzo di legno in tasca
silenzioso s’avvicina a qualcosa da trovare.

Dal lato opposto della valle un peccatore sale stanco
un cane giovane è al suo fianco
fiore vergine all’occhiello di una giacca ormai vetusta
da tante fughe consumate
nell’arte di scappare.

Lì nel mezzo è la montagna
sole e nebbia che la bagna
spazio aperto spazio vuoto
anche il tempo più non c’è.

Uno cerca, l’altro insegue.
Sul crinale c’è l’incontro
uno è biondo, l’altro è nero
tutto intorno è già tramonto.

Due parole tra i viandanti
come i cani che s’annusano
come prede che si osservano
come ladri che ritornano.

Lingue diverse, lo stesso sguardo in faccia.
Uno ha il tabacco e l’altro il vino,
uno ha la sera e l’altro il mattino
e per il pane,
la montagna ci penserà.

E poi cosa succede?

[Immaginare una trama.
Qualcosa.]

Diary of a Baltic Man

Real Eyes. Real Lies. Realize.


Ricerca personalizzata