Archive for the ‘Storie’ Category

Esperando a Inaniel


02 Apr

Era lì, alla fontana vicino al palo della luce.

Aggrappato con le unghie a questi scampoli d’inverno, dice.
Ci potresti credere?
Aria fredda.
Foglie cariche d’acqua.
Fango ovunque.

Buahahahahaha.
Sei impazzito?
Primavera.
Prova ad andare a piedi,
di notte,
verso il ponte.
Mille voci tutt’intorno.
L’acqua si scioglie, ma si scioglie in mille suoni diversi.
[Succede anche di giorno, ma di giorno non lo vedi].

Si guardavano come se fossero stati rinchiusi, tutto l’inverno.
Lì, a dieci metri di distanza.
Qualche contatto sporadico, ma non avevamo niente da raccontarsi:
entrambi stavano vivendo la stessa storia.

Eppure ti dico che preferisco l’inverno, meglio così.
Mancanza assoluta di colori: chi l’ha detto?
Io d’inverno invece riesco a godere meglio delle sfumature.

Quante volte ce lo siamo detti?
L’anno scorso, forse a ruoli invertiti, ci stavamo menando le stesse fiabe.
E’ la notte la cornice di tutto, è nel buio che si avanza a passo più forte.
E lo sai perché?
Perché di notte ti riesci a scrollare dalla pelle tutto il superfluo.

Poi si sono salutati.
Non mi lasci niente?, le ha chiesto
Hai bisogno di qualcosa?, gli ha risposto.

Io ho bisogno di una canzone.
Io ho bisogno di una preghiera.

Anti-antipolitici


27 Mar

Antefatto doveroso: ho scritto un libro.
E’ iniziato nel 2007, quando sul balcone di Kaunas, in una pausa sigaretta tra una birra e un vodka, è apparsa una ragazza colombiana.
– E tu che ci fai, qui?
– Sono venuta in Lituania per cercare di capire da dove arriva l’uomo che ci ha cambiato la vita, a Bogotà.

La storia di Antanas Mockus era troppo potente, per non immergersi fino in fondo.
Un intellettuale che trasforma la società utilizzando, a dosi alterne, massicce e contemporanee, arte, pedagogia, sperimentazione semiotica e politica.

Nel 2010, mentre il libro si scriveva da solo, ci furono le elezioni colombiane.
E dalla Colombia si tentava di proporre articoli alla stampa italiana, soprattutto a quella progressista, perché la situazione era piuttosto unica.
Un individuo autentico, indipendente e libero, stava per giocare scacco matto ai macchinari di potere di un Paese tra i più corrotti al mondo.

La stampa italiana però non dava cenni di vita, per un motivo semplice: l’azione di Mockus stava spiazzando sia le forze di destra che quelle di sinistra, e creava imbarazzanti confronti con il contesto italiota.
Il giorno delle elezioni Repubblica non ne parlò, altri liquidarono Mockus come “un candidato ecologista”.

Oggi, tre anni più tardi, il libro è uscito.
Ma nel frattempo è uscito anche Grillo e il suo Movimento, e anche l’Italia si è accorta che non esiste una sola impostazione, un solo linguaggio, un solo percorso, per raggiungere i palazzi dell’amministrazione pubblica.

E a questo punto per esempio leggiamo su L’Espresso un interessante paragone tra due personaggi che tra loro condividono soltanto la carica innovativa di rottura con gli schemi finora conosciuti.

Ora. La prima considerazione che potrebbe venire in mente è che, anche grazie a “uno come Mockus”, l’Italia può tirare un sospiro di sollievo nel prendere atto che ci può essere un Grillo. Ed è un piccolo risultato. Ma, rovesciando il ragionamento, è altrettanto vero che, anche grazie a Grillo, quella branca di pubblici opinionisti in qualche modo vicina al “progressismo” si è accorta dell’esistenza di Mockus, personaggio in tutto e per tutto fuori dagli schemi, e anche per questo, difficilmente assimilabile in paragoni e metafore.

Se L’Espresso avesse approfondito a tempo debito il fenomeno-Mockus in Colombia, oggi non rischierebbe di rimanere coinvolto nell’errore di considerare che un’alterità politica nei confronti dell’esistente debba obbligatoriamente essere immaginata, sempre e comunque, con quegli stessi termini populistici che alla fine confluiscono nella definizione di “antipolitico”.

Per riassumere: Antanas Mockus è uno studioso che fin dalla sua prima formazione – Francia 1970, Filosofia e Matematica – si dedica all’analisi delle possibilità di cambio sociale. Il suo intero cammino personale e professionale si è sviluppato tra le strade della creatività e dell’arte, applicate ad una solida fiducia nell’utilizzo della pedagogia per trasformare una città (o un Paese, e quindi un’intera società) in un laboratorio dinamico di possibilità. Nei suoi anni di insegnamento all’Universidad Nacional de Bogotà i suoi studenti impararono a pensare “fuori dagli schemi” osservando il loro professore scrivere con il gessetto sulle pareti dell’aula una volta che la lavagna era ormai piena, per poi proseguire sulla porta della stanza, e da lì verso le pareti del corridoio….

Intrapresa l’attività politica [la prosecuzione della pedagogia con altri mezzi], Mockus apparì per strada travestito da SuperCittadino, con l’obiettivo di stimolare un gioco creativo in cui il risultato finale era una grande riflessione relativa alla destinazione da attribuire ad uno spazio urbano per la prima volta percepito come collettivo.

Ecco un primo paragone possibile tra il Comico e il Pagliaccio, con il non secondario dettaglio che pochi mesi più tardi, una volta eletto a Sindaco della capitale colombiana, Mockus sostituì interamente il corpo dei vigili urbani con un esercito di clown, attori teatrali, mimi. Il suo obiettivo era semplice: risolvere i problemi legati al traffico. I vigili urbani non facevano altro che alimentare un antipedagogico sistema di corruzione e di “soddisfazione dell’ego” per gli automobilisti che evitavano le sanzioni, mentre i mimi e i clown, con creatività e solidità sociologica, avrebbero toccato un tasto caldo per il prototipo di automobilista latinoamericano: l’orgoglio.

Ma a chiunque voglia continuare a immaginare i due nuovi eroi in termine di similitudine, basti pensare questo: Antanas Mockus circolava con un cartellino da arbitro di calcio in tasca, e ogni volta che un giornalista o un avversario politico cercava di innescare una polemica o un commento negativo, rispondeva innalzando il cartellino rosa – simbolo del suo Movimiento de los Visionarios. “Comportamento scorretto, atteggiamento poco costruttivo”, rispondeva all’interlocutore, sbigottito. “Non serve a niente parlare degli altri, proseguire la prosopopea del nulla. Non chiedeteci se siamo di destra e di sinistra, siamo a un livello di coscienza più immediato, siamo Cittadini in Formazione. E adesso che abbiamo la consapevolezza di esserlo, iniziamo a costruire qualcosa”.

Tutto qua.

Leggete il libro.

 

 

 

danzamacabar


11 Set

Una danza macabra

1
Lui sta seduto con lo sguardo fisso verso il piatto.
Sulla sua schiena, trent’anni di storia andata male, e una dignitosa discesa verso storie prevedibili.

Lui non è il suo uomo, ma potrebbe esserlo.
E’ il suo uomo, ma potrebbe anche non esserlo.
Lei forse fa la fisioterapista, ed è ormai uscita di casa.
Una storia d’amore impossibile con un bastardo qualsiasi, tutto ciò che lei vorrebbe. Lo dicono i suoi occhi, che si fermano contro il colore delle pareti, non riescono a superare la stanza. Lo dice la sua pelle, il leggero tremito che la pervade.
Si guardano.
Non si toccano.
Si guardano, e non si toccano.
Stanno insieme da quattro anni.

2
Anche lui sta seduto tra i tavolini del bar.
Un po’ più in là, vicino al frigo dell’antica gelateria del centro.
E adesso?,
lei gli chiede.
E adesso.
Abbiamo appena fatto l’amore.
[o era solamente sesso? O era violenza? O un antidoto. Un antipulci].
Hanno appena fatto l’amore, e sulla torre del duomo suonano le campane.
Domani bisognerà andare a conoscere quei musicisti, svegliarsi alle nove, e ricordarsi di prendere il pane, prima che i negozi chiudano.
E adesso, francamente, non si sa cosa significhi.

3 bis
Lui intanto continua a parlare.
Proprio qui, davanti a me.
E’ seduto al mio tavolino.
Sta inequivocabilmente parlando con me – o quantomeno, “a” me.
Ho dovuto lasciarla perché mi sono reso conto che potevo desiderare un’altra, mi capisci.
Non capisco. Continua.
Credo che l’oggetto del tuo amore debba includere tutto. Lei deve essere la mia confidente, la mia amica, la mia bambina, la mia puttana, la mia amante, la mia compagna di carezze, la madre dei miei bambini, il volto dei miei desideri, tutto.
E se manca uno, uno solo di questi elementi?
E’ la fine.
Appunto.

6
Lui. Non c’è. E’ una voce rinchiusa in quella scatoletta nera.
Lei gli parla addosso. Quando la conversazione si scalda, le si illuminano leggermente di rosso gli angoli della fronte.
La telefonata dura da qualche minuto ormai. Per la prima volta però sento quello che dicono.
Quello che lei dice.
Quello che dice lui, è bello immaginarlo.
Non lo so: non ti sembra che in un certo modo
tutto sia già stato detto
e tutto sia ancora da dire?

Forse tutto è stato solo sussurrato.
Forse si ha paura a iniziare a gridarlo.

Autunno? Viola?


22 Mar

Nell’autunno 2010 siamo andati a vivere tra le montagne e gli amici di mia nonna per raccontare qualcosa. Non lo spopolamento di quelle valli in cui si è scritta la storia del mio sangue, non la morte di una cultura vecchia come la croce, non la rassegnazione di chi ha vissuto – o sente di aver vissuto – e piega lo sguardo indietro per non dover pensare all’assenza di un domani.
Non solo.
Volevamo raccontare qualcosa.

Non eravamo capaci, non sapevamo come fare. Il video nell’éra dell’immagine si è imposto come la forma migliore per chiedere a qualcuno di starti ad ascoltare: abbiamo scelto il video.
Sapevamo di dover avere qualcosa da raccontare – non lo avevamo.

Nel corso delle settimane una cascata di pensieri è rimasta intrappolata nell’obiettivo della videocamera. Abbiamo montato una storia che poteva essere mille altre ma sempre la stessa.
Uomini e donne che si raccontavano, leggevano il mondo, non vi si riconoscevano. La tragedia intravista in uno sguardo rassegnato. Il rammarico serpeggiante, la sincerità nel riconoscere che “è andata così”. In maggioranza anziani, che un giorno furono contadini, mariti, amici d’infanzia. Con il passare del tempo è caduto anche l’inganno del tempo: quel qualcosa che volevamo raccontare, in fin dei conti, non era l’ideale di un paradiso perduto. Andava più in là.

Dopo qualche mese abbiamo iniziato a proiettarlo. Un po’ di gente è venuta vederlo, qualcuno si è preso la briga di scrivere un commento, in silenzio. Qualcun altro ancora è diventato una riflessione costante, un’amicizia, un altro racconto per storie future. I personaggi rappresentati nel video hanno continuato ad andare a dormire tranquilli e rassegnati. I loro nipoti probabilmente non sanno nemmeno che questa documentazione audiovisiva esiste. Un membro del consiglio comunale del luogo in oggetto [un luogo puramente casuale: ne esistono a migliaia di uguali, sparsi tra il reticolato del globo terraqueo, ma questo aveva un bel nome] si è lamentato perché sulla pubblica piazza non c’erano bambini, e “danneggia l’immagine del paese”. La capra filosofa che parla nel video oggi ha partorito due bei capretti.

Questa sera però ho capito cosa volevamo raccontare, in quel video. Nella sala col pavimento di marmo bianco c’erano una ventina di studenti. Facoltà di Agraria, Università di Milano, ragazzi di vent’anni trascinati per una settimana in un’enorme caserma della Scuola Forestale che da un giorno all’altro è spuntata fuori nella cittadina in cui sono nato. C’erano loro, e un paio di professori.

Dopo la proiezione è arrivato il dibattito. Un po’ di retorica, alcuni spunti interessanti, un filo conduttore importante. I ragazzi sono studenti della facoltà di Agraria, vengono dalla Val Camonica, dalla Val d’Ossola, dalle montagne trentine, dalle pianure piemontesi, dalla città di Roma. Molti di loro studiano gli alberi e i semi degli alberi perché vogliono realmente impararne le leggi segrete, e non perché ambiscono a diventare custodi di conigli e spacciatori d’ossigeno per turisti domenicali, o vendere formaggio a cinquantotto euro al kilo con sottotitoli in inglese.

Il loro professore, invece, insiste sul concetto fondamentale. Loro diventeranno tecnici agroalimentari, e dovranno pensare a quei cinquantotto euro al kilo. Non importa dove, non importa poi così tanto neanche il come: se le opportunità saranno migliori, sarà opportuno anche migrare. Le montagne, in fondo, non si somigliano poi tutte?

Il problema è che questi giovani, vent’anni tutti, hanno un’altra idea in testa. Molti di loro si sono iscritti ad Agraria per completare quella che è una loro reale passione, che comunque già praticano nei boschi dietro casa. Molti di loro passano il sabato pomeriggio a potare noceti, e vorrebbero vivere in montagna ma privilegiando il vivere alla montagna, soprattutto se si tratta  della loro montagna, e la conoscenza intrinseca della natura cambia, cinquanta chilometri più in là. Hanno capito che la logica dei cinquantotto euro al kilo è la stessa che ha giustificato la pista da sci, gli scempi edilizi, la montagna che è diventata una succursale della città – come le filiali delle banche che ospita.

Hanno capito soprattutto che gli alberi di mele andrebbero potate anche se le mele non si vendono, che l’idea di una distesa piena di vigne suona più “grottesca” che “meravigliosa”, che lo schema che ti vogliono tramandare non è il più giusto, ma è solamente quello che qualcuno ha tramandato a loro. Nel nostro documentario, i vecchi si lamentano perché i giovani fuggono. Anche i giovani si lamentano perché i giovani fuggono, però poi iscrivono i figli di cinque anni alla scuola elementare della bassa valle, per fare un dispetto al sindaco del paese, che non si decide ad asfaltare la strada dietro casa loro.

Dopo il dibattito, sono salito nelle stanze dell’inquietante caserma con i ragazzi. Tra le pareti, vino e aria di guerra. I giovani sono stanchi di dover ricevere e trasmettere un’anomalia che evidentemente non funziona. Molti di loro si stanno rendendo conto che la maggior parti delle persone al potere oggi non sono solamente ignavi e ipocriti, ma sono soprattutto incapaci. Incapaci di leggere il mondo, di scrivere una rotta, di mettere in scena un’idea di futuro. Molti di loro si lamentano perché un loro professore, che muove le leve della facoltà in cui insegna, parla di “economia di montagna”, ma non sa riconoscere l’antenna televisiva camuffata da pino che svetta più alta degli altri pini, sui tetti della mia cittadina.

Un’intera generazione di giovani ha le idee chiare. Il mondo è da riscrivere, con coraggio e fantasia. Il mondo è da riscrivere, ma prima di tutto, è importante eliminare quel che non ha funzionato. Questo era quel qualcosa che volevamo raccontare nel nostro documentario.
Facendolo.

Il buon vecchio giornalismo di domani


08 Mar

Esisteva il giornalismo, una volta. Quello buono. Quello serio. Quello riservato a una schiera di pochi eletti (che avevano la scritta “Press” sul cappello), uomini chiaramente consapevoli del proprio ruolo e dei limiti che questo comportava.

Poi venne il giornalismo. Quello spettacolare. Quello da grandi tirature. Quello innescato dal ruolo primario dei mezzi di comunicazione nelle sorti dei governi e degli uomini, quello da superstar che potevano permettersi il lusso di salire sullo stesso piedistallo degli oggetti dei loro servizi (Pinco Pallino intervistato da).

E infine, fu il tempo del giornalismo. Inteso come sportivo, gossipparo, popolare, zerbinizzante. Volti imbellettati utilizzati come amplificatori per trasmettere e inculcare un messaggio ben preciso: quello del datore di lavoro. Di un datore di lavoro che è anche politico che è anche opinion leader che è anche a capo di una holding che è anche te.

E adesso, è il tempo del giornalismo. Artigianale, esaustivo, direttamente dal produttore al consumatore. Di fronte ai principali quotidiani nazionali (tutti uguali: La Stampa è esattamente identica al tg delle 20.30, La Repubblica esiste tale e quale anche in Colombia, il taglio è quello trito e ritrito e viene messo insieme da stagisti sottopagati), appare ridicolo, una volta di più, il linguaggio dei cosiddetti “media”. Ci sono i blogs, ci sono movimenti d’opinione d’ogni sorta, ci sono esseri umani (i giornalisti) che non possono più materialmente raggiungere ogni notizia, e per ogni notizia ci sono centinaia di esseri umani che la vivono in prima persona – e hanno iniziato a esprimerla. Quando sfoglio uno qualunque di questi giornali, quando leggo questi patetici articoli messi insieme con lo schema tradizionale, provo un sentimento di autentica pena per questi costruttori di nulla, impegnati a tenere in piedi un anacronismo fatto di carta catrame e pubblicità, un unico giornale che parla le cinquemila lingue senza dire veramente niente.

La buona notizia, però, è che il giornalismo siamo anche noi. Con le nostre fotocamere, con i nostri frullatori che fanno video in full hd, con skype che permette di chiedere a un amico a fukushima di che colore è l’insalata da quelle parti. Tecnicamente non sarebbe troppo difficile attendere il sindaco di fronte al municipio, con il dito pronto sul tasto “rec”, e chiedergli “e quindi dottò, questo nuovo ospedale da cinquemilamilioni, a che cosa servirebbe?” Anche per questo, non è facile non incazzarsi di fronte a chi parla di “censura”, di “ai giornali però questo non interessa”, di “questo sì che andrebe detto in televisione”: la vera censura la operiamo noi, se continuiamo a comprare il giornalone da novanta pagine, se clicchiamo l’articolo sul vicino di casa del marito di garlasco, se condividiamo su facebook le foto dei nostri figli ancora feti e non quelle poche notizie che potrebbero interessare a qualcun altro.

Ah. A proposito: il reportage che segue l’abbiamo messo insieme – in due giorni – a Quito. Una conoscente parla di questo drammatico fenomeno silenzioso che coinvolge Haiti ed Ecuador, internet ti dice chi può spiegarti qualcosa, una videocamera e un po’ di montaggio fanno il resto. Costo totale: 10 euro (includendo due ottimi succhi di mango e maracuya con latte). La Stampa, Repubblica, Rai, Mediaset, Corriere & Co. continuano a mantenere inviati a Londra, per raccontare la pelliccia della regina.

i-Phone 400000


20 Gen

Si avvicina con sguardo volpino, dieci minuti prima dell’inizio del concerto. Il suo strumento é ancora nella custodia; ha altro a cui pensare. Tra le mani, il suo ultimo gioiello. L’iPhone 400000, ultimo prodigio dei prodigi, sei mesi dopo l’iPhone 399999.
E’ impaziente di mostrarmi le meraviglie dell’aggeggio. Mappa di navigazione stellare, condensatore di ricette giapponesi, connessione satellitare con Marte, l’intera produzione dei Simpson. C’é anche la tavola degli elementi chimici, e vorrei sapere come e perché dovrá mai utilizzare una roba del genere.

Nel corso del concerto, mi rendo conto che non é particolarmente attento allo spartito. Sul leggío c’é l’i-Phone 400000, che emana strane luci dal display. Mi chiedo cosa stia mai combinando, ma ha lo sguardo soddisfatto.

Quando il concerto é finito, si avvicina con la stessa eccitazione di due ore prima. Abbandona lo strumento vicino al termosifone, incurante della folla distratta. La sua mano destra, eretta, mi mostra l’i-Phone 400000 in tutto il suo splendore. Con uno sguardo di assenso, preme play e fa partire un rumore agghiacciante, come il suono di una motosega nel traffico di Bombay. E’ la sua registrazione, in presa diretta, del concerto appena concluso.

“Sai cos’é il bello di tutto questo?”, mi confida, prima di andarsene. “Il bello é che lo puoi caricare subito su internet, quasi come fosse in tempo reale”.

Dyb


30 Dic

Un amico ha scritto un libro, e non ̬ automatico leggerlo, ̬ automatico scrivergli Рdopo.

Un amico ha scritto un libro, perchè aveva qualcosa da dire.

Un amico ha scritto un libro, perchè avevamo qualcosa da ascoltare.

Un amico ha scritto un libro, poi un altro, poi un altro ancora. Questo di oggi è l’ultimo, prima del prossimo. Quando ho iniziato il suo primo libro, il mio amico non era ancora mio amico. Quando l’ho finito, il mio amico non era ancora mio amico, ma era già mio amico.

Un mio amico ha scritto un libro, e a questo punto è chiaro che mi è amico anche il libro, perchè i libri dei miei amici sono anche miei amici.

Un mio amico ha scritto un libro, ed è come se l’avesse narrato a voce. L’ha scritto come l’avrebbe pensato e come l’avrebbe parlato, l’ha scritto parlando, l’ha letto scrivendo. Ha scritto un libro come racconta una storia, ha scritto una storia per raccontare un libro.

Un mio amico ha scritto un libro, pieno di stereotipi e contro gli stereotipi, ha scritto un libro su una terra che fu la mia su un’età che fu la mia su una realtà che non abbiamo ancora fra le mani.

Un mio amico ha scritto un libro, per deviare il maldipancia verso inaspettate speranze.

Un mio amico ha scritto un libro per scrivere un libro, e non per pubblicare una copertina.

Un mio amico ha scritto un libro, strano, iperreale, romanzato, fotografico, trasparente, libro.

Un mio amico ha scritto un libro.

Per quanto me ne intendo


06 Nov

Tra il 2009 e il 2010, per un paio di semestri, mi è capitato di insegnare la lingua italiana in un’università colombiana.
Il lavoro più inutile del mondo, a quanto pare. Vanificato e azzerato dalle logiche perverse che stanno dietro alla “lingua”, quando questa viene convertita in strumento politico.

Tra i miei studenti – “clienti”, secondo il linguaggio in uso in quell’ateneo privato – c’erano ragazzi con cognome italiano, studenti di storia dell’arte che sognavano di vedere Firenze e Venezia, ma soprattutto c’erano studenti del terzo millennio che, come tutti i loro colleghi qua e là per il mondo, ambivano a passare un semestre universitario in Europa, attraverso le decine di programmi di interscambio esistenti nella nostra epoca globalizzata.

Il grande inghippo, anomalia nel sistema, era rappresentato da Dante Alighieri. Non il Sommo Poeta padre della lingua, ma i suoi nefasti discendenti più lontani, l'”Istituto Dante Alighieri di Bogotà“, che avrebbe dovuto certificare le competenze linguistiche, per autorizzare la procedura di richiesta del visto (nota bene: non per autorizzare il visto, ma per autorizzare la procedura di richiesta del visto, da inoltrare presso l’italica ambasciata). Uno studente colombiano che avesse voluto richiedere il foglio per studiare in Italia, avrebbe dovuto presentarsi a Bogotà (non esistono sedi decentrate), pagare 100 US dollari, e sostenere un “test d’ingresso per il Livello C1”. A niente sarebbe servito addurre motivazioni di carattere logiche (“il motivo del mio viaggio in Italia è proprio lo studio della lingua italiana”), o allegare le lettere di accettazione standard che gli atenei italiani inoltrano agli studenti vincitori di borse di studio tipo Erasmus (“si precisa che tutti gli studenti stranieri beneficeranno di un corso di lingua gratuito”). L’ambasciata di Bogotà, in materia di visti per motivi di studio, è chiara: anche se  lo scopo del viaggio è lo studio, è necessario sostenere il “test d’ingresso”.

Il cinismo trova però la sua massima espressione nel momento in cui il malcapitato studente colombiano si trova di fronte al test in questione, e deve sottolineare in ogni frase l’opzione corretta. Per esempio:

1)    Non ho dubbi che Marco sia/è il miglior specialista in materia.
2)    Per quanto me ne intenda/intendo, è stato un bel concerto

A questo punto, di fronte alla mail dell’ex-studentessa colombiana che scrive chiedendo un’opinione sul suo esame appena sostenuto, si leva lo sconcerto. Quattro italiani, laureati in materie umanistiche, discutono per due giorni le varie soluzioni. Alla fine è un tomo polveroso, una grammatica italiana dalle pagine ingiallite, a decretare le risposte giuste – o meglio, quelle meno sbagliate.

La risposta giusta, l’unica possibile, afferma che è triste vedere come la lingua venga prostituita da becere logiche di pseudopolitica. Di fronte alla “necessità” (?) di limitare il numero di ingressi di stranieri in italia, si pretendono competenze linguistiche che l’80% degli italiani “veri” non possiede.

Inbox – oggetti abbandonati sugli scaffali


17 Ott
Latito, hai ragione!
Ma avevo i miei buoni motivi. 
Il principale dei quali è: non avrei saputo che scrivere.
L’ambientamento a questa ultima faccenda ha assorbito le sue buone energia, 
tra chilometri sotto le suole e sana impotenza di fronte 
a certi problemi tipicamente caraibici,
tipo trovare nella Bombay del centro di Barranquilla tutto 
ciò che può servire in una casa, qualcosa tipo Ikea dei poveri.
Adesso, però, tutto sta prendendo la sua giusta piega.
I miei giorni iniziano con una secchiata d’acqua addosso nel patio dietro casa,
poi tutto ciò che succede si sta rivelando piacevole.
Come previsto, sono bastati pochi chilometri per separare 
nettamente Barranquilla da me, 
con il piacevole risultato di eliminare l’eliminabile.
In altre parole, passo buona parte del mio tempo in piacevole solitudine, 
forse perchè, ambientalmente parlando, il contesto aiuta. 
Oggi è mercoledì, per esempio.
Ogni mercoledì sera, per esempio, a Salgar la luce misteriosamente sparisce.
L’immagine di questo pueblo a lume di candela, con le stradine di sabbia e il
boato dell’oceano in sottofondo, è un momento di puro calòr.
Poi c’è l’università. Mi hanno dato un ufficio, mi hanno dato un computer,
mi hanno dato un corso di Italiano 1 e mi danno del lei. In più, mi danno libero accesso
alla mediateca universitaria, non solo ottimi libri – in italiano – 
ma anche una caterva di dvd. Non mi lamento. 
I miei studenti sono un bel gruppo, dai 17 ai 40 anni,
ed ormai viaggiamo per la sesta lezione, tra grammatica arti e cultura generale.
Ho una certa libertà nei contenuti, cerco di approfittarne.
Anche se ciò comporta sostituire tiziano ferro con giovanni lindo ferretti.
Venerdì, invece, inizio le lezioni della specialistica.
Due materie già da adesso, due materie più avanti.
E tu invece? Sapevo da fonti certe che eri partito in bici verso oriente.
Calcolando la velocità di internet in Val Mongia, 
il messaggio è stato qualcosa tipo
“è partito verso la romania in bici e treno. Grande”. Vago, ma credibile.
E come procede la cosa? Sei in solitaria? Se non è blasfemo dirlo, ti invidio.
Hai poi comprato un volo per queste terre maledette?
Vedrai tu come organizzarti, ma nel caso piombassi a Salgar
chiedi per la Casa de las tres Piedras ;-);-)
Spero di leggere qualche tuo intruglio di birra e sudore.
hola hermano!!! como te va la vaina?
qui sono praticamente al giro di boa di metà missione. Quasi a tirare un bilancio. Prima considerazione che sicuramente sarà difficile che possa resistere in italia più di qualche giorno. Seconda considerazione è che è un’esperienza che ti muta di dentro. Poi la fortuna di aver visto un popolo che difficilmente avrei potuto conoscere in altro modo.
Potrei accettare il consiglio di enzo ed andare a vivere in un luogo sperduto ed isolato. Saprei comunque di aver vissuto.
Mai come in questi giorni sono lontano dalla realtà materialistica occidentale. Per certi versi mi sono ancora più isolato di quello che già il posto comportava.
In questi giorni mi tornano alla mente le serate a salgar.
Luce soffusa e voluto isolamento. Già allora.
Non male direi.
Inizio a preparare lo zaino per il lungo inverno. Camminando.
Nulla può valer lo sforzo di fermarsi.
Si tornerà all’origine e alla migrazione.
Hola,
e beato te che puoi permetterti bilanci. 
Qua e' tutto un bombardamento indiscriminato di...nulla, alla fine.
Effettivamente il tempo scorre, da quelle parti probabilmente 
piu' lento del previsto, ma in un attimo sara' comunque tempo di migrare.
In questi giorni di troppe luci e antitetico isolamento (quant'e' lontana Salgar!)
mi sono accorto che non ha poi cosi senso, quello che continuano a ripetere tutti,
da queste parti. Voglio dire: il pandino delle poste,
il dover attrezzarsi per l'autunno, i programmi a lungo termine, 
ancora una volta, li lascio agli altri.
Quello che ritorna con insistenza nella cabeza, invece, 
e' il progetto di viaggio verso est.
Iran, Turchia, Inguscezia, donde sea. 
L'importante e' non avere una meta, solo un po' di adrenalina
e la sana sensazione di sentirsi vivo. 
I quattro soldi del signor posteitaliane vanno spesi in qualche modo,
e mai come in questo momento sento il bisogno di fare un qualcosa
di veramente utile; fuggire, per esempio. Un taglio netto.
E quindi non so che sara' nel tuo zaino per il lungo inverno.
Non so quale percentuale di tutta la carne che sto cercando 
di gettare sul fuoco cuocera' fino a diventare qualcosa di concreto.
In ogni caso, io ci so(g)no.
Sogno isolamento coniugato con movimento.

Portare il pesce o insegnare a pescare?


13 Set

Gianluca l’ho incontrato tra i pini e l’acciaio dei Monti Carpazi. Era lì con sua moglie Rosa, e una generosissima segretaria, a cercare pertugi da trasformare in autostrade, tra le fila serrate della burocrazia romena.
E’ lì da vent’anni, con un gruppo di buoni amici, e tanta voglia di fare. Portano medicine e quaderni, supporto morale a chi ha solamente diciassette anni e la colpa di esser nato – di esser nato lì. Il principio è semplice: si aiuta a camminare chi vuole imparare a correre, non si obbliga nessuno.

Dal 2008, Gianluca e i suoi amici hanno adottato la frazione di Bradet, comunità dimenticata da dio e dagli uomini tra Romania e Serbia. Il primo passo è stato la ricostruzione della scuola elementare, simbolo di una generazione che dovrà recuperarsi il proprio futuro. Tutto il resto, è sospeso tra sogno e utopia. Anche per questo, Gianluca e gli amici de il Giocattolo hanno bisogno di aiuto.

Diary of a Baltic Man

Real Eyes. Real Lies. Realize.


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