Archive for the ‘Università’ Category

Cara università ti scrivo


11 Dic

Caro Sig. Baltic Man,

Mi scuso per il ritardo con cui le rispondo, ma una serie di impegni di
famiglia (non previsti) e di lavoro (previsti), cui si è aggiunto anche il
cambio di computer all’università, con scontate conseguenze sul ricevimento
delle email (ovviamente anch’esse non previste, e pare che i guai ancora
non siano finiti), mi ha costretto a procrastinare i miei obblighi nei
confronti di tutti i corrispondenti, sicché solo adesso riesco lentamente a
emergere. Per il suo caso specifico (ovvero l’anticipazione di una parte
della trafila burocratica, come lei mi chiede) non posso fare nulla, perché
contrariamente agli studenti Erasmus per i quali è prevedibile, e quindi in
un certo senso in qualche modo anticipabile l’iter che dovranno percorrere,
per quelli del CINDA invece, per quanto ne ho capito (finora le richieste
sono state poche), ogni curriculum è un caso a sè stante, e soggiace a dei
criteri valutativi che vengono espressi da una commissione rettorale della
quale almeno finora non fanno parte i delegati alle relazioni
internazionali delle singole facoltà. In pratica noi riceviamo gli
incartamenti a cose fatte e spesso nemmeno quelli, in quanto per la sua
particolare tipologia lo studente CINDA (o per lo meno quello che si
iscrive a Genova) si rapporta direttamente con gli uffici centrali per
quasi tutto. Noi invece gli forniamo il supporto informativo per quanto
riguarda esami, lezioni e via dicendo assieme al relativo “iter”. Spero di
essere stato abbastanza chiaro, ma se ci fossero altre questioni continui a
scrivermi: le prometto che, contingenze dela vita e di lavoro permettenti,
sarò più sollecito nel risponderle. Cordiali saluti.

(risposta odierna a una mail che inviai nel gennaio 2008).

Un piccolo cursore nero lampeggia su un foglio di Word


06 Nov

Tesi.
Mentre una tazzina di caffè gialla con un caffè e le labbra da donna mi guarda.
Mentre il mondo lentamente affoga sotto un autunno bulimico.
E ogni pagina clamorosamente inutile dormiente sul mondo del web è una salvezza.
A cercare di iniziare a trovare un pensiero da scrivere.
Millecinquecento cose utili da fare e io qua davanti al nemico.
Millecinquecento cose inutili da fare e io qua davanti al nemico.
Millequattrocentonovantanove possibili vie di fuga costituiscono mordace tentazione.

Tesi è scrivere quantitativi di cose inutili su fogli che nessuno leggerà mai.
Anche blog è scrivere quantitativi di cose inutili che nessuno leggerà mai, ma perlomeno non si spreca la carta.

Darius – o David – ovvero: in ogni villaggio c’é uno scemo


07 Mag

milhouse.jpgUna grande nuvola nera segnala l’incombere di queste presenze costanti. Le folle si ammutoliscono, e i piú saggi si allontanano. C’é chi sostiene che anche gli uccelli smettano di cantare.

Nei giorni piú freddi di Laisvés Aleja come nel forno a cielo aperto di un mezzogiorno caraibico, Darius – e David – vagano nell’aere con lo stesso costante obiettivo. Una volta individuato, non c’é via di fuga: essi si avvicinano con passo deciso, una luce accende il loro sguardo, piú in lá dell’inestricabilitá della loro complessa vuotaggine cronica e cranica. E’ il preludio. Quello che segue sono le stesse domande di ieri, in attesa delle medesime risposte dell’altro ieri. Dialoghi vuoti, dialoghi costanti, dialoghi pesanti cosí pieni di niente che irritano all’inverosimile. Mi immagino cosí le zecche dei cani. Con la faccia di Darius, o di David.

Certe volte, sorprentemente, Darius – o David – si spingono piú in lá del prevedibile:
Darius (o David): “…e senti un po’, non hai un account facebook o skype o msn?”
Baltic Man: “…no, non conosco queste diavolerie.”
Darius (o David): “come no! Ci permetterebbero di essere amici anche via internet”
Baltic Man: “io non sono tuo amico”.
Darius (o David), accusando la botta dietro l’occhiale ma rialzandosi come il miglior Tyson: “allora dammi il tuo numero di telefono”
Baltic Man: “Perché? Non voglio essere tuo amico”
Darius (o David): “no, cosi, magari possiamo vederci anche di sera, andare al cinema, o ti faccio conoscere tutti i miei amici, sono simpatici sai, e si chiamano tutti Darius, o David”
Baltic Man, sudando ghiaccio: “ah. certo. 301…”
Darius (o David): “Ma questo é il numero dell’altro italiano, ce l’ho giá”
Baltic Man: “Ti sbagli, é il mio. Chiamami pure, questa notte, verso le 3”. E fugge.
Darius (o David), affannato, ricordando l’immagine di una sposa incinta al decimo mese che saluta l’amato sul treno che lo porta alla guerra: “…a stasera, amico mio”

Pechichona Style


16 Apr

pechichona.jpgPer uno strano scherzo del destino, nel mio errante cammino ho incontrato pochi professori geniali e un esercito di ciarlatani, paraprofessionisti messi là dietro una cattedra a insegnare il loro nulla. Non è dei secondi che val la pena parlare, ma delle poche e valide eccezioni: gente che ha sempre lasciato il formalismo fuori dalla porta, che senza remore ti chiama Coglione quando sopravvivacchi in un’università che paghi – eccome, se la paghi -, professori che ti trattano come figli ma come i figli si trattavano una volta, a bastone e carota si suol dire.

Ebbene, una di queste falle nel sistema è apparsa nella Uninorte. Professoressa, psicologa, marketinwoman, madre di un figlio che studia in Vietnam e di un altro che suona il sax contralto con Baltic Man in mezzo a un ufficio, la Nostra ha creato un’impresa senza particolari scopi di lucro se non quello di investigare giornalisticapsicologicamarketsocialmente nella disastrata Barranquilla. Un’impresa dove il personale è under30, e quando si festeggia un compleanno l’ufficio si blocca e appaiono pappagalli. Un’impresa dove, manco a dirlo, da un po’ di tempo passo i pomeriggi, e guarda lì che ti scopro che in Colombia, ebbene si, si può lavorare. E che lavorare, ebbene si, può essere un gioco.

Protagonista della storia è comunque una sedia. Una sedia, lo giuro, una sedia a dondolo. “La pechichona“, cosi si chiama, suole rievocare i bei tempi andati, quando a ritmo blando le nonne e le mamme lentamente ci trascinavano giù (o su) nel mondo (soprattutto in Colombia, dove quest’oggetto conserva il suo aplomb) richiama alla saggezza popolare: lì si siedono governanti, artisti, faccendieri, gente che viaggia in moto dall’Alaska alla Patagonia, futuri santi, poeti e navigatori. Un progeto di “marketing culturale”, nato dalla fantasia della Profesora di cui sopra e rapidamente diffusosi nel Barranquillese. Geniale. Assolutamente geniale.

El Tunel


08 Apr

Giusto di fronte all’Universidad si nasconde “El Tunel“, uno di quei tipici ristoranti per buone forchette che in Italia si chiamano “Trattoria da Marisa” e sfamano con ottime economie qualità/prezzo camionisti lavoratori e studenti. All’ombra di alberi sconosciuti, c’è sempre il “piatto del giorno” da cui non si esula accompagnato da zuppe e sciroppi strani, mentre galline e anatre ignare del loro destino zampettano allegramente sotto i tavoli. Bambini in mutande e piedi nudi allegramente si inseguono e ondeggiano sulle 5 amache.photo-0196.jpg

Giusto di fronte all’università si diceva, e nell’università nessuno conosce “El Tunel”. Questa schiera d’incamiciati da quattro o cinque anni spreca la sua quotidianità alla stessa fermata dell’autobus e non si è mai accorta del piccolo paradiso gastronomico che si nasconde al di là del sottopassaggio. E tutto ciò perchè semplicemente non se n’è mai voluta accorgere, secondo lo stesso principio che regola e legittima le spaventose diseguaglianze sociali che da sempre stravolgono nel silenzio l’America Latina.

Le regole sociali della Colombia si basano su una grottesca divisione in “extractos“. Barranquilla va dall’1 al 6, curiosamente in ordine Sud-Nord, e le tasse e i servizi variano a seconda dell’area urbana di suddivisione. Non è uno scherzo, ma la classe di appartenenza appare anche su qualche scartoffia personale: nomi, cognomi, gruppo sanguigno e soldi in tasca.

C’è una scintilla di folle ipocrisia nel meccanismo intrinseco. C’è lo sforzo di alzarsi al mattino, raggiungere aule e laboratori dove sollevati dalla forte aria condizionata tutti insieme noi si ciarlerà, come ieri e come domani, di tutte quelle belle cose che accadono o accaddero o accadranno chissà dove nel mondo, per uscire col sorriso sereno alla sera e pagare con gli interessi la botta. Non è il muro di calda caraibica umida atmosfera che picchia, è lo sguardo scorrevole del ciò che circonda la materna placenta del campus universitario. Questa città di un milione e mezzo di abitanti, come altri milioni e mezzo di città, non è altro che un palcoscenico senza teatro nè pubblico o muri, un non-luogo dove gli attori – troppi attori – mettono in scena la loro quotidianità fatta di nulla, niente è negativo perchè niente è positivo, semplicemente lo scopo è tirare avanti con i 4 dvd pirata quotidiani per ricominciare la sfida un altro giorno. Niente discussioni politiche, nessuna rilettura di Goethe, o illusori progetti fantascientifici su come ridurre l’attrito delle ali nell’aria: là fuori manca il pane e l’acqua è sporca, ma più che tutto manca quella componente di sogni che alimentano ogni giorno la luce in fondo al Tunnel.

Universalità


27 Feb

uninorte.jpgsaddham.jpg
Diremo quindi due parole sopra questa università colombiana. Proprio sopra questa: la regola anti-generalizzatrice vale ora più che mai, in un Paese dove il sistema accademico è molto più “liberale” che in Italia, e le autonomie degli atenei producono un quantitativo sorprendente di universitarucole sparse per il feudo di Barranquilla.

La Universidad del Norte è effettivamente la più prestigiosa, se è vero come è vero che la tassa di accesso si basa intorno ai 2000 dollari per semestre, con il conseguente risultato di produrre un ambiente assolutamente irreale, una cittadella perfetta che vive di vita autonoma proprio lì, ai margini della città. In questo megacampus da cui proprio adesso scrivo stravaccato su un tavolino mentre un malefico marchingegno innaffiatore spara acqua sul mio computer, l’avventore può incontrare sul suo cammino: una palestra, un’agenzia di viaggi, un paio di negozi a tariffa-autogrill, innumerevoli ristoranti, un campo da tennis, uno da calcio, uno da basket, verdi giardini tropicali, numerosi gatti, confortevoli divani su cui guardare film a testa in su, infinite moderne tecnologie. Non si possono trovare, va detto, birra e sigarette, e la cosa produce un immediato sviluppo del piccolo commercio al dettaglio, pratica molto apprezzata dai colombiani, dove gli studenti si improvvisano rivenditori di caramelle/sigarette/ognicosa con simpatici teatrini come il seguente:

Leo: “Scusa, hai una sigaretta?”
Tipo: “Certo, tieni”.
Leo: “Grazie, fratello”. Pacca sulla spalla.
Tipo (guardandolo fisso): ……
Leo: (guardandolo fisso): —-
Tipo: “…son 300 pesos”
Leo: “…comunque, se racconto in Italia che in Colombia spacciano sigarette e caramelle non mi credono”.

Tralasceremo l’analisi sul punto di vista strettamente accademico (dopotutto non riesco a immaginarti interessato ad un intercambio a Barranquilla), basterà ricordare come, ancora una volta, lo studente medio italiano rimarrà spaesato nel ritrovarsi di fronte a una classe di professori mediamente sotto i 60 anni, docenti che nella vita fanno i docenti (pensa un pò) e non 4 o 5 altri lavori per loro più importanti.

Quello che effettivamente sorprende, alla fine, è l’età media dei compagni di corso: non so, pare che qua a 15 o 16 anni si possa andare all’università. 15 o 16 anni. Perbacco. Ma, soprattutto, l’orario delle lezioni: nella più totale sorpresa iniziale, apprendo che dovrei avere un paio di lezioni alle 6.30 del mattino. E’ bastato comunque aggrapparsi all’italica arte di risolvere con ogni mezzo le situazioni apparentemente sfavorevoli, in aggiunta ad un pietoso discorso sulle differenze culturali che effettivamente proibiscono ad un europeo di svegliarsi così presto per andare a lezione, per ottenere un radicale cambio di orario.

Adesso le lezioni del Baltic Man iniziano alle 12.30.

p.s.: le due foto lassù in alto rappresentano, rispettivamente, uno scorcio del campus e un professore palesemente uguale a Saddham Hussein.

American college


01 Feb

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Visto che casualmente il fato mi ha condotto in questa grande città dove altrettanto casualmente il mio brother sta frequentando la quarta superiore americana, mi sembra rientrante nei compiti del fratello maggiore controllare la situazione dal vivo.

E’ per questo che, indossata la mia brava uniforme bianco-beige della rispettabile Lamar High School, e con un po’ di complesso d’inferiorità per non essere riuscito a trovare una pistola o una mitragliatrice che i miei pregiudizi ritengono necessarie per districarsi in una grande scuola americana, alle 8.30 mi sono presentato col fratello ai cancelletti di partenza.

Lo shock è grande, soprattutto per chi come me ha passato i suoi 5 anni di superiori in una scuola di 300 persone e si ritrova adesso in un ambiente con 3.500 studenti. La situazione è esattamente come te l’aspetteresti, con lunghi corridoi adornati di armadietti ed affollati da ogni prototipo di teenagers mille e più volte vista nei vari film americani, tanto che appena entrati nei bagni qualcuno potrebbe pensare di trovarsi nella scena finale di American History X.

L’organizzazione della baracca è impressionante: le classi sono impostate in stile universitario, sono gli studenti quindi a scegliersi le lezioni che più gli interessano e ad agire di conseguenza. E pazienza se alcune cose possono sembrare ridicole (come il saluto alla bandiera all’inizio della mattinata), il progresso sono quei computer in ogni classe e la trasmissione “a reti unificate” alle 11.30 del telegiornale gestito e creato interamente dagli studenti. A discapito dei luoghi comuni va poi sottolineata l’importanza che le High School danno agli sport, forse per sana rivalità con le scuole nemiche o forse per smaltire cheesburgers e cocacole, un’importanza estrema: quasi tutti giocano a football o a basket o a soccer, e i coach spesso insegnano anche altre materie.

Altrettanto bizzarro è vedere come gli studenti si suddividono in clubs, come il “gruppo degli studenti gay” o il “gruppo italiano”, mentre i loro rappresentanti sono scelti tra il circolo dei repubblicani e quello dei democratici. Logico.

La ciliegina sulla torta è comunque la classe di italiano (inutile aggiungere che quel cazzaro di mioi fratello frequenta – e con inaspettato profitto – la classe di italiano), dove una pseudoprofessoressa messicana arricchisce le lezioni con preziosismi come “abbiamo riduto” che rendono tutto decisamente più divertente.

Genova è tra Bogotà e Kiev


01 Ott

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E’ lunedì mattina di burocrazie e lunghe code, personaggi lenti e scartoffie che profumano di Sud America. Le facce dell’università questa mattina sono fresche, sono teneramente speranzose, sono il nuovo nel vecchio all’inizio di un nuovo altro anno. Non le guardo e non ci penso, guardo Mac che non le guarda e pensa ad altro, pensa a cose assaporate e poi sfuggite, pensa a cose latine.

Immaginazione che vola nella tiepida Genova che si sta per arrendere all’autunno, viaggi mentali da tenere fermi al check-in prima che esplodano prima di tempi tuttaltro che certi.

Nel frattempo bisogna stare lì, in coda, tra le facce fresche, ad aspettare il verde coi motori accesi. Una porta mi parla, nell’anonima forma di un foglio bianco su mogano beige. Mi parla col tono giusto, quella porta mi sa prendere, mi dice quelle cose là che io voglio sentirmi dire. Senza appello.

E così, mentre qualcuno lassù in quegli uffici giapponesi stritola tra fotocopie e fax le mie speranze, silenziosamente aspetto i primi assaggi di “Lingua e Cultura Ucraina“.

Bentornato nella realtà


05 Lug

Scenario 1. Baltic Man si sveglia, sullo sfondo il sole del giugno lituano. Si reca all’università, ore 10.00. Deve infatti chiudere le pratiche Erasmus, ed avere tutti i documenti attestanti i 9 mesi passati in Lituania. Sale, entra nell’Ufficio Relazioni Internazionali, tra una firma e l’altra ride e scherza con le 2 ragazze dietro la scrivania. Saluti, commozioni, la sequenza si chiude con il protagonista che lascia l’università fieramente, la cartelletta coi preziosi fogli sottobraccio. Sono le ore 10.10.

Pausa. Oscuro.

Scenario 2. Ancora ore 10.00. Il solito protagonista ripete la stessa operazione, solo cambia lo scenario, adesso siamo in Italia. Si sveglia, sale in macchina, poi autostrada, poi parcheggio. 40 minuti di attesa, il treno arriva (si sa, a Genova non si parcheggia). Ore 12.30, arrivo in Università. Chiusa.

“Già è vero, porcocane, qua si fa la pausa pranzo”, pensa.

Attesa.

Ore 14.00. Coda. Ore 14.45. “Salve, io dovrei solamente chiudere le pratiche Erasmus”. “Ah si, ok, vada nell’altro ufficio dall’altra parte della città, se è fortunato dovrebbe arrivare in tempo, oltretutto adesso è Unione Europea e non serve il passaporto, e richieda lì le firme del suo responsabile di facoltà. E’ il Professor XXX, vero? Ah, allora oggi non dovrebbe esserci, è a Coccomaro Di Sopra per un convegno su La Televisione nell’era dei Flinstones. Ma non ci sono problemi. Lasci la documentazione in portineria, secondo gli ultimi sondaggi interni risulta che in un buon 45% arriveranno al suo Docente”.

“Ma veramente no, vorrei parlare al mio ufficio io stesso, sa, dovrei ancora ricevere i contributi finanziari Erasmus, visto che per poterli ottenere in tempo reale avrei dovuto aprire un simpatico C/C con la simpatica banca Carige che poi avrei potuto chiudere con prezzi scontati dello 0.05%…e ovviamente non l’ho fatto.”

“Ah, ok, lei è uno di quei granellini di sabbia che vogliono sempre incastrare il sistema, certo, ma non ci sono problemi, lei riceverà sicuramente tutto il dovuto, guardi adesso stiamo aspettando i fondi, e tra la fine di settembre 2007 e l’inizio di ottobre 2008 provvederemo sicuramente a tutti i pagamenti. Fino all’ultimo centesimo”.

“Ah meno male. Adesso sono tranquillo. E per la transcrizione degli esami?”

“Quello non lo so, vedo che sui suoi documenti c’è tutto a posto ma il timbro è leggermente troppo spostato a destra, guardi dovremmo richiedere conferma alla sua Università in Lituania, dopodichè può tornare qua, ritirare i fogli, andare nell’ufficio in Via Bensa che è aperto tutti i secondi lunedi del mese dalle 8.00 alle 10.00, e sperare che nello stesso orario riesca a trovare anche il suo Responsabile Erasmus, in caso contrario, sulla collina lì dietro c’è il santuario della Madonna delle Grazie, si dice che ogni tanto accadano i miracoli, provi lì…”

Erasmus a Kaunas?


08 Giu

Per qualche strano effetto del web, questo blog appare piuttosto spesso se si cercano informazioni about Kaunas e tu, studente universitario che il prossimo anno ti inoltrerai in questi feudi, sempre più spesso mi chiedi informazioni.

E allora…

Kaunas. Kaunas è un bel posto per farci l’Erasmus, non ti ho detto per viverci, ti ho detto per farci un’Erasmus. Un Erasmus sará bello sempre, questo è vero, ma il fascino di una meta alternativa che fa chiedere a tutti i tuoi amici “sei fuori? Perchè vai li?” ha sempre un qualcosa in più.

Kaunas è la cittá nazionalmente definita “Lituania vera”. Nel senso che Vilnius è ormai una capitale europea, che Klaipeda è una città piuttosto turistica, e che questo continua ad essere il centro nevralgico di quell'”essere tipicamente lituano” che si condensa in mille sfaccettature. Che non ti racconto per non toglierti la sorpresa, chiaro.

Kaunas, ebbene si, è una città universitaria, nel senso che ce ne sono 5 e gli studenti arrivano qua da tutta la Lituania, e anche un po’ dal Medio Oriente (non si sa perchè ma è cosi); eppure…eppure fa fatica ad esserlo, perchè di notte le persone che troverai in giro non sono decisamente il classico prototipo dello studente – perfetto, perchè i locali sono pochi, perchè la maggioranza dei suddetti studenti vive nei dormitori della periferia. Però si è a 100 km da Vilnius, cosa non da poco, con autobus e treni dal mattino presto alla tarda serata.

I dormitori. A te, privilegiato straniero, probabilmente offiranno i migliori, quelli che non sembrano usciti da un film di Tarantino o, peggio ancora, da una pellicola sovietica. E non si sta male, poche decine di euro al mese con una gran bella connessione internet in stanza, poi c’è il particolare non da poco della vita – dormitorio… ma anche gli alloggi costano poco, e anche l’esperienza in Soviet – house deve essere provata, da queste parti.

L’inglese, si, lo parlano praticamente tutti, ovviamente dai 30 anni in giù. Ma ci si fa capire anche con chi non lo parla, e poi un po’ di lituano ti sarà utile per tutta la vita. L’universitá è bella, funziona, i professori sono professori e non “professori + avvocati + dottori + giudici + panettieri”, il livello dell’inglese è ottimo e la burocrazia praticamente non esiste. Che se arrivi dall’Italia, potresti anche sentirti spaesato.

E il freddo, altra paura comune, non te lo so descrivere perchè quest’anno ho vissuto solo fino a -25. E come vedi sono ancora qua a scrivere, no?

Se poi vuoi sapere altre cose, chiedi.

Diary of a Baltic Man

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