La videocamera come un dildo con cui distrarsi, inseguire morbosità , regalarsi un po’ di inutile piacere.
Tre mesi di passeggiate in solitudine tra i marciapiedi bizzarri della metropoli straniera, la luce improvvisa del mondo fuori dalla stanza che si fa stimolo e diventa un’immagine. L’immagine, l’immagine intesa dal punto di vista semiologico, l’immagine con il suo significato più ultimo, che è quello che li vorrebbe contenere tutti, “ma non fa altro che escludere”. Il ponte sospeso dall’altra parte del mare, ponte di parole e di ferite, di unghie per grattarsi via i crosti e voglia di accarezzare. Poi un amico che viene a trovarti, si stappano le birre e le immagini diventano parole, e tutto insieme cristallizza in una melodia – in accordi minori.
Lettere da Bucarest non è un cortometraggio, non voleva esserlo. Sono tre mesi e un momento, un gatto e una gatta che si annusano e non si riconoscono, irrazionalità di condivisione. Una voce sconosciuta ne ha letto i testi, un amico lontano ha risposto, tutto il resto è venuto fuori inseguendo un gioco. La versione integrale dura 18 minuti, e può essere spedita in cambio di un commento.
[qui c’è qualche frame].