Posts Tagged ‘città’

Peste: nirvana?


20 Set

Cammina a passi verdi, linea intermittente sul grigio dell’asfalto. La linea è quella che divide la pista ciclabile dal marciapiede, il marciapiede dalla corsia del tram, la corsia del tram dalla strada vera e propria, la strada vera e propria da…
…da un’idea metareale, da un’idea come un’altra, da un’idea.

Una parvenza d’illusione, un sano gusto di sbagliarsi. Di sbagliarsi ma di provare qualcosa, sentire il rimorso vibrare – come un arto fantasma – nella tasca destra dei jeans, sarà poi questo, vivere?

E intanto lei passa correndo, rabiosa y apasionada, rabbiosa e overappassionata, muove il vento sposta l’aria e non rispetta nemmeno la linea verdeintermittente sull’asfalto, corre e invade la pista ciclabile e il marciapiede, corre più veloce del tram e nemmeno la strada vera e propria la contiene più.
Lui resiste allo spostamento d’aria perchè semplicemente si accomoda, perchè anche lui è fatto di quell’aria che viene spostata. Non oppone forza solida alla corsa impazzita di quella nuvola negra. Ne intuisce il cammino, la segue da lontano. Allo stesso tempo invidia e rifugge quel vuoto improvviso che esplode contro la materia inerte della città. Quel vuoto improvviso che ha trasformato la distruzione in distrazione, la macchina fotografica in un feticcio, i vecchi progetti di rivoluzione in un lavoro a tempo part-time. E allora ripensa, ricorda, scava tra i grumi di polvere degli archivi sensoriali, in cerca di quell’immagine di lei che corre. Di lei che corre tra le offerte delle vacanze a Rodi, o sul parquet in vero linoleum della mostra di Monet, o gli slalom a bocca chiusa tra chi butta sull’asfalto pezzi di morte fumati fino al filtro.

E’ diventata continua, la linea verdeinerzia, adesso. E’ diventata strada. Sporca come l’asfalto, vera come il tram.

Prospettive di un palazzo di fronte


29 Ott

Un grande cubo arancione composto da decine di migliaia di piccoli cubi arancioni, questo è tutto ciò che vedo. Undici linee e nove colonne, un sistema perfettamente incasellato secondo geometrie rettangolari. Dentro ogni buco nero, un uomo. Poi un altro, e un altro, e un altro ancora. Decine di piccoli uomini neri con testoline gialle, l’elmo di sicurezza è l’unico placebo per voi che scaricate secchi di sabbia a venti metri dal suolo. “Il mese scorso ne cadde al suolo uno e non é morto, pensa un po’”, dice la muchacha de servicio. Sullo sfondo, flusso di movimento in doppio senso contrario, la nuvola scura tra il Gran Rìo e la via 40, la strada delle industrie, la strada teatro del Carnevale, a febbraio. Stringi con uno zoom quei bagni che stanno costruendo nel palazzo di fronte, sarà mai possibile stirare le braccia senza incontrare un muro, in uno di quegli appartamenti? Si costruisce, e si costruisce su terreno che sprofonda per le assurde il-logiche di un paese per vocazione agricolo, andino, fertile, coloniale. Coloniale. Cemento sul Tropico.

Eppure io vedo inferriate alle finestre nei terzi piani degli edifici, vedo un signore buffo con una camicia blu e un bravo distintivo luccicante sul petto, vedo un revolver appeso alla coscia destra e vedo tutto questo sette piani più in alto, il Dio del Balcone o qualcosa così. Vedo insicurezza, paranoioa, aria di tempesta. Non perderlo di vista. Non perdere di vista quest’attempato Rambo mancato. Quell’inutile. Dov’è il mare. No, ditemi dov’è il mare. Era lì fuori dalla finestra del cesso cinque minuti prima, e in cinque minuti è scomparso. Al suo posto c’è un altro nuovo edificio, gli daranno un nome assurdo tipo “Florencia” o “Torre Golden Montreal” e lo riempiranno di conigli da ingrasso, i cui figli suoneranno reggae e canteranno Freedom con gli amici. Chiusi in scatole di due metri per due. Città in prospettiva città: un mostro continua ad essere un mostro, nonostante il maquillage. Filma questo zoo umano, senza timore. Io me ne torno a Salgar.

Black holes


10 Mag

Scendi per strada cercando la tua moltitudine giusta, in quella fiumana di genti diverse diverse da te. Dritto avanti a passo deciso verso la catastrofe. Hasta ahora todo va bien, hasta ahora todo va bien, hasta ahora todo va bien. Il contorno sonoro è insopportabile, respiri e urla di una città qualunque in un momento qualunque, adesso il contorno sonoro è inesistente o il filtro delle tue orecchie ha cancellato il mondo. Un mototaxi impazzito recita contromano il suo dribbling folle sul marciapiede.
Il fischio nelle orecchie lasciato dalla sua voce è forte, gli occhi bruciano e non è il sole dei caraibi, la pelle è gelata di sudore strano, decisamente fuori luogo sotto il sole dei caraibi. Disgraziate anime si riflettono nella miriade di specchi dispersi lungo la strada.
Dritto avanti a passo deciso verso il chissà, scrollando dalle spalle il peso di un anno e mezzo di vita, scrivendo la parola fine proprio lì dove non l’avresti aspettata mai, dopo mesi giorni e millenni di promesse e verità rinnegate nel fondo dell’etere, dopo fellings continuativi che superavano le montagne e asfaltavano gli oceani.
Il telefono squilla e l’istinto lo spegne, il mondo richiama a rumbe elettroniche che da questa sera segneranno l’inizio di nuovi capitoli, pagine bianche e vergini che con consenziente masochismo s’immolano alla consapevolezza di futuri dolori. Quattro operai affaccendati a lavare un semaforo, la città sprofonda nella sua propria vergogna e quelli si inutilizzano nel fondamentale atto di lavare un semaforo. Piovono dal cielo rimorsi di coscienza, effetti collaterali non del tutto previsti e tantomeno illegittimi. Piovono dal cielo e l’istinto li spegne.

Lì vicino, nella polvere dell’ombra sotto un mango, un cane schifoso si morde le costole e regala uno sguardo d’intesa alle bestie sue simili.

You could never be as good as she...

Diary of a Baltic Man

Real Eyes. Real Lies. Realize.


Ricerca personalizzata