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Prospettive di un palazzo di fronte


29 Ott

Un grande cubo arancione composto da decine di migliaia di piccoli cubi arancioni, questo è tutto ciò che vedo. Undici linee e nove colonne, un sistema perfettamente incasellato secondo geometrie rettangolari. Dentro ogni buco nero, un uomo. Poi un altro, e un altro, e un altro ancora. Decine di piccoli uomini neri con testoline gialle, l’elmo di sicurezza è l’unico placebo per voi che scaricate secchi di sabbia a venti metri dal suolo. “Il mese scorso ne cadde al suolo uno e non é morto, pensa un po’”, dice la muchacha de servicio. Sullo sfondo, flusso di movimento in doppio senso contrario, la nuvola scura tra il Gran Rìo e la via 40, la strada delle industrie, la strada teatro del Carnevale, a febbraio. Stringi con uno zoom quei bagni che stanno costruendo nel palazzo di fronte, sarà mai possibile stirare le braccia senza incontrare un muro, in uno di quegli appartamenti? Si costruisce, e si costruisce su terreno che sprofonda per le assurde il-logiche di un paese per vocazione agricolo, andino, fertile, coloniale. Coloniale. Cemento sul Tropico.

Eppure io vedo inferriate alle finestre nei terzi piani degli edifici, vedo un signore buffo con una camicia blu e un bravo distintivo luccicante sul petto, vedo un revolver appeso alla coscia destra e vedo tutto questo sette piani più in alto, il Dio del Balcone o qualcosa così. Vedo insicurezza, paranoioa, aria di tempesta. Non perderlo di vista. Non perdere di vista quest’attempato Rambo mancato. Quell’inutile. Dov’è il mare. No, ditemi dov’è il mare. Era lì fuori dalla finestra del cesso cinque minuti prima, e in cinque minuti è scomparso. Al suo posto c’è un altro nuovo edificio, gli daranno un nome assurdo tipo “Florencia” o “Torre Golden Montreal” e lo riempiranno di conigli da ingrasso, i cui figli suoneranno reggae e canteranno Freedom con gli amici. Chiusi in scatole di due metri per due. Città in prospettiva città: un mostro continua ad essere un mostro, nonostante il maquillage. Filma questo zoo umano, senza timore. Io me ne torno a Salgar.

Anarquilla


17 Ott

Adn

Diario ADN Barranquilla del viernes 16 octubre 2009

Casa de las tres Piedras ventana norte


30 Set

Si nunca entendiste el porqué de aquella vieja canciòn, y las letras te parecìan cursilerias de un poeta exagerado, ven en Salgar, ahora, y dime que opinas sobre el brillo de la luna de Barranquilla…

“Papà, el rock se muriò?”


26 Set

Cosas còmo el “Miche Rock Festival” no tiene absolutamente nada relacionado con lo que se pueda llamar lejanamente rock. Cuaranta anos despuès de Woodstock, todo lo que quedò de la antigua palabra, en la aldea polvorienta de Barranquilla, parece màs bien una burla boccaccesca sobre su verdadero significado. No puede sèr rock, por ejemplo, la policìa fuera del templio, revisando maletines y huevos en la busqueda de una ilusiòn de control, la policìa persiguiendo jugos de frutas y coca-colas entre las piernas de la gente. Rock analcolico.

Rock. Rock en nombre de Jesùs, que herejìa. Juro que el año pasado escuché un cantante heavy-metal, estilo noruego-pesado (que no significa nada pero suena a algo violentodepresivo) dedicar la pròxima canciòn a Jesus. Curioso. Y vagamente desubicado. Al final de todo, serìa màs o menos còmo vèr entrar a Jimi Hendrix en una iglesia para leer las letras de sus canciones desde el altar (no obstante hay quien asegura que Jesù Cristo fué un rocker, el tipico amigo rocker: todos tenemos un amigo con el pelo largo y la barba larga, que alucina de vèz en cuando).

“Donde estàn los rockeros MAS LINDOS de Barranquillaaaaaaa?”, iban chillando las presentadoras. Buena pregunta. Yo veo solamente maniquì reluciendo sus camisetas de Iron Maiden o Metallica con sus companeritas aburridas al lado, gente que no tiene ni puta idea de quien era Sid Vicious, o Jefferson Airplanes, o Keith Emerson, o Jim Morrison cuando se quedaba tres horas inmòbil grabando Spanish Caravan, o Pink Floyd, o Primus, o los millones de underground que siguen pensando la mùsica còmo algo bien electricificado, hasta llegar a la lìrica de Gustavo Cerati, a las nuevas progresiones islandeses, para que vean que el rock se evoluciona, resiste.

Estàn encerrados en sus casas, los verdaderos rockeros de Barranquilla. Lejos de los gritos de pato de cuatro presentadoras completamente desubicadas, de la inmundicia del “tropipop” vendido còmo rock (de otro modo, quien asistirìa a un concierto de TROPIPOP?), sucios y sudados, musicalmente absortos, amarrados a un giro armònico sin final, a un sòlo de guitarra sangrienta, a toda èsta mùsica que todavìa significa algo.

Vota P.E.N.E.


26 Lug

Il prossimo anno, i colombiani eleggeranno il nuovo president. Sì perchè, nonostante il plebliscito che i sondaggi non hanno smesso di accordare al parabastone e la narcocarota di Uribe (robe da 80%, 81,27 come direbbe Berlusconi), il vento dalle parti di Washington è cambiato e questo antipatico negrito non sembra disposto ad avallare un terzo mandato dell’unico presidente zerbinoamericano in America Latina.

Caza d’la Poesia, eccellente angolo di filosofi, pensatori, musicisti, perfettamente incastonato sotto un mango tropicale, ha lanciato il suo accorato sostegno al “partido del P.E.N.E.”. Ossia: “Partido Entreguista Nacionalista Embustero“, dove il principale candidato sarà…Nessuno.

Nessuno infatti tirerà fuori dal terzo mondo questo hermosisimo paese, Nessuno provvederà a ridare una casa ai due o tre milioni di rifugiati interni (seconda tragedia al mondo, dopo la Somalia), sarà Nessuno a guidare la Colombia fuori da una retorica battaglia tra “bene” e “male” dove tutto è, una volta di più, relativo

La Arenosa


20 Lug

Barranquilla è un vecchio nido, un déja-vu in technicolor, un’oasi di sabbia in mezzo al deserto ed al vento. El vividero màs feliz del mundo, un vividero per l’appunto, distesa tropicale ricoperta di esseri umani in eterna, definitiva, speranzosa attesa, cinque bicchieri di aguardiente per accorciare il tempo. Città di poeti ed artisti, di trabajadores e taxisti, sangue d’indigena e sudore di negro si mescolano alla sabbia e al cemento, si fonde il Grande Fiume nell’orgia dell’Oceano Atlantico mentre trecentosessanta giorni di Quaresima separano da un altro carnevale.

Retrogusto di decadenza dei tempi che furono, quando le signore di Spagna dalle piume rosse in testa sbarcavano sul muelle di Puerto. Uomini e mani contro il vento ed il sole; donne e bambini tra leggende e sedie a dondolo. Il Grande Fiume era l’unica strada asfaltata verso la lontana capitale, cultura arte e tecnica s’incontravano tra mare e terra nel disordine di Barranquilla.

Poi fu l’aereo e fu il declino, e Cartagena de Indias scomoda elegante vicina a rubarsi le risorse straniere. Mentre il Grande Fiume, sventrato ed oltraggiato nei kilometri del porto, vomitava acque sempre più sporche nel mar di Barranquilla. Contadini e paesani continuarono ad affluire verso la grande città, che di notte e di rhum respirava la tregua all’eterno sole.

Barranquilla oggi è un vecchio nido, un villaggio transgenico di due milioni di persone e tanti cani negli spazi d’ombra. Rifugiati interni del conflitto colombiano, mercanti, visionari, bianchi, neri e soprattutto mulatti, e  un italiano. Sì perchè Barranquilla non è più – o non è ancora – concretamente presente in nessuna mappa geografica, è un’oasi di pace tra l’affollato e crescente turismo di Cartagena e Santa Marta, cento kilometri a destra e a sinistra sulla cartina. La Miami del sud, dicono quei loro abitanti che  continuano ad inseguire un sogno di plastica e silicone. Quei loro abitanti che non la capiranno mai.

Pequeño homenaje a Mario Benedetti


24 Mag

Grabado en Barranquilla.

Subida Paraìso


31 Gen

Un percorso mistico, quasi infinito. Sessantaquattro con Novantuno C fino a Quarantanove C con Ottantanquattro. Ricordo che abbaiavano i cani, e mi inseguivano, bastardi esseri pulciosi e selvaggi così vivi da spezzare la morte di quelle notti. Quei cani, simbolo della morte viva nelle notti morte. E le mie ciabatte, sempre più veloci sul cemento sudato, su da quella salita infinita, viaggi mentali ed un pellerossa tra le dita, miliardi di pensieri incasinati dopo un’altra overdose di te. Su per quella salita ti ho conosciuta ed ho conosciuto me stesso, su da quella salita col filo spinato, e le guardie ed i ladri ad inseguirsi intorno a me. Che me ne andavo col computer sulle spalle, alle due di notte nella Provincia del Tropico, e a fanculo il terrorismo psicologico, ogni notte a sognare case coloniali e capanne di banano, fino al giardiniere notturno che solitario rinfrescava il cemento. Quella salita qualche ora prima era stata una discesa, la mia solitudine era stata la tua compagnia, i colori del mondo apparivano diversi. Quella salita esisteva solo se esisteva solo per me, nessun taxista né puttana né disperato né giardiniere popolava quel regno, me ed i miei passi e i buchi nel cemento e i buchi nella testa e l’immagine di me stesso con la mano sul tuo culo al pomeriggio. Dietro le mie spalle l’essenza, di fronte a me l’immortale disordine, poker e alcol e amici e superficialità rendevano più difficile e più magica la maledetta salita.

Camminavo sotto quei mangos e respiravo leggenda. Immaginavo libri e parole e frasi e canzoni da incidere su quel cemento, disegnavo progetti e scenari e miti troppo lontani in questa pianura fredda. Quella salita collegava il mondo al paradiso, ma io ancora non lo sapevo.

L’eremita di Barranquilla


28 Dic

Un solitario del secolo ventunesimo, un monaco di clausura rinchiuso nel suo eremo nel centro di una città di due milioni di abitanti. Robert era il discendente di una famiglia nobile, di origini europee, che l’evolversi del tempo e delle rivoluzioni non ha toccato nella provincia del Caribe. Ancora sopravvivevano in lui retaggi di tempi lontani, di quando i bambini degli anni sessanta venivano educati a distinguersi dai “meticci”. Aveva una cugina, Marvel, che qualche decennio prima aveva combattuto il machismo e altre staticità barranquillere con l’arma della parola. Morì giovane a Parigi, dove ancora la ricordano nell’olimpo delle scrittrici latine.

Odiava il mondo, Robert. O, meglio, nutriva una profonda sfiducia in quello che era diventata, a livello globale, la razza umana. Per questo non abbandonava mai il suo nido di VillaKronopyos, un’antica casa repubblicana che profumava a pace nel centro della città più assurda del mondo. Usciva di casa la notte, quando i suoi nemici dormivano, per bagnare i suoi fiori e maledire quel multiforme inquinamento che gli toglieva le stelle e il profumo del mare. I giorni, li passava a “lavorare su me stesso”, così diceva estasiato. E i suoi strumenti erano interi scaffali pieni di libri, di dischi, di film. Era un cultore del diciottesimo secolo, e di tutto quello che artisticamente lo rappresentava. Conosceva Boccaccio e la storia dettagliata delle Repubbliche Marinare italiane, ascoltava Palestrina e i System Of A Down, viveva di retrospettive cinematografiche catastrofiste e reali. “Italiano, eh? Ah bene. Allora ci guardiamo subito un live della Premiata Forneria Marconi, gente in gamba”.

Era un figlio della psichedelìa, Robert. L’avanguardia musicale degli anni ’70 lo aveva travolto in pieno, trascinandolo in un mondo di acidi di funghi e di qualsiasi cosa potesse allucinarlo. Per diciotto lunghi anni era scappato alla morsa del mondo calandosi qualsiasi droga immaginabile. Poi, aveva scoperto Shakespeare e aveva conosciuto una donna. Quindici anni fa l’ha sposata, a lume di candela della loro cucina mentre preparava la cena, l’ha sposata senza preti né burocrati nè testimoni e da allora non può più vivere senza di lei.

Sono tornato a Barranquilla ed ho eliminato tutto ciò che questa città aveva rappresentato per me. Non ho cercato nessuno, ho lasciato il cellulare spento, nemmeno il sole del caribe ho incontrato. Immediatamente, però, sono andato a bussare alla porta di VillaKronopyos, a passare i pomeriggi tra disquisizioni sul razzismo d’Europa e la genialità dei Focus. Ogni tanto qualcuno suonava al campanello. Robert abbassava il volume, stava un minuto in silenzio e strizzandomi l’occhio scoppiava in una profonda risata.

Verbo carne (…)


30 Nov

dejame hundirme en tu fuego
sabroseando molecolas absurdas
de humo de futuro de orgasmo de ti
en la soledad voluntaria de mi blanco

mientras me agarra me escoge me tortura
este vislumbro de neblina frente a mi
mientras el silencio ruidoso de esta tierra tuya
suenan tus bailes y tambores de cumbia
mientras tu esencia se quedò en mis labios
mientras tu ausencia ya es un viaje lejano
yo vivo de palabras y de brisa
de egoismo y de ilusiòn.

y te busco entre sabanas sucias
hojas rayadas por nuestro instincto animal
allì te leo te escribo te dibujo
obra de arte y artista genial.

Diary of a Baltic Man

Real Eyes. Real Lies. Realize.


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