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Geronimo Carbonò


06 Gen

Perchè?

Perchè la crisi.
Perchè la crisi, e il mondo cambia.
Perchè la crisi, e il mondo cambia, e succedono cose.
Perchè la crisi, e il mondo cambia, e succedono cose strane.

Geronimo Carbonò è una maschera. Una scusa, uno sbaglio. Un nome e un cognome rubati alla storia, un nome e un cognome dimenticati dalla storia. Il nostro nome e il nostro cognome, “nostro” di un noi aleatorio e infinito, labile e confuso, concreto.

Geronimo Carbonò ha voglia. Di fare, di distruggere, di andare avanti e tornare indietro. Ha voglia di fare l’amore in maniere strane, a lume di candela o con cera incandescente che gocciola sulla pelle. Ha voglia di analizzare e manipolare, stimolare e svanire, sognare di partire per poi tornare.

Geronimo Carbonò sono occhi, mani, piedi, meraviglie e sudori. Persone diverse, persone. Profondamente sbagliate, intimamente simili, contraddizioni univoche disperse su mille pianeti diversi scaldati da un unico sole. I nomi e i cognomi che si nascondono dietro la maschera di Geronimo sono frutto della fantasia di uno scrittore annoiato.

Geronimo Carbonò è musica, immagini, parole. Fondamentalmente, è bugia. Geronimo Carbonò è una bugia, raccontata a fin di bene. E Geronimo Carbonò è un’utopia, un tempo senza spazio, un qui che diventa adesso quando Geronimo Carbonò è.

E poi Geronimo Carbonò è anche un’Associazione Culturale. Così dice la legge. Che poi non è così male, perchè “Associazione” significa “unire insieme”, significa tanto, significa tutto, mentre “culturale”…. beh.

Ma Geronimo Carbonò è soprattutto tutto il resto. Quel che rimane da fare, quel che ancora deve essere detto.

Benvenuti a casa Geronimo.

Bucarest


02 Apr

Come in un lungo piano-sequenza cinematografico, Bucarest sono mille realtà sovrapposte in continuità lineare. E’ un’immagine di forte luce chiara, grigio imperante, e una scenografia di pubblicità in formato americano e palazzi tedeschi e bulevard francesi e disastri sovietici e bruttume contemporaneo, un’immagine mossa dai passi di un popolo che si cerca e s’insegue – ma anche in questo caso sono livelli sovrapposti – tra diverse velocità.
Una città che si rinnova e si sconvolge. Tra abbandono e desiderio, in fuga dal passato e bramosa di futuro, Bucarest lascia all’azzardo la gestione del suo presente. I grandi parchi del nord, in attesa di una primavera che non arriva, rubano la scena ai cubi di cemento di altre epoche e rivoluzioni, e tra le vie del centro una lapide qua e là ricorda venti ventenni caduti sotto i colpi del dittatore. Falce e martello hanno lasciato il posto alla stella a tre punte dei mercedes neri, parcheggiati sulle piazze del centro, ma capita anche di veder transitare un trattore, di fronte al chilometro zero della poliedrica nazione. E poi ci sono i rifugi, tanti rifugi, sintomo di un popolo giovane affamato di cultura e di fuga da un futuro che qualcuno vorrebbe dipingere blu con dodici stelle gialle. I rifugi, tanti rifugi, mimetizzati negli scantinati dei grandi edifici o illuminati da manifesti virtuali. I musei della capitale, un’elegante tradizione classica, e un teatro che in Europa è leggenda e che riscopre oggi Eugéne Ionesco. Ma anche concerti di ogni tipo, strepitosi trii jazz in tourné dall’Austria, e una retrospettiva cinematrografica sull’Europa vista dalla non-Europa, dall’Europa dei confini, da registi serbi, croati, georgiani, romeni. E nel frattempo, come nella storia di Parada, nei sobborghi intorno alla stazione i figli di Ceacescu continuano a sniffare colla nei sacchetti di nylon, sotto gli sguardi indifferenti di chi comunque non si ritiene responsabile, perchè gli zingari, i rom e i sintu, sono zingari anche a Bucarest.

Diary of a Baltic Man

Real Eyes. Real Lies. Realize.


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