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Ricordi d’ufficio


10 Ott

Storie lineari di vite degli altri. Quando ripartiva il nastro, la mia difesa naturale era un determinato isolamento, divagazioni sulla melodia della tovaglia di fronte o qualcosa del genere. D’altra parte, i loro racconti erano sempre gli stessi, e se variavano, era per scendere ancora di più nei meandri del grottesco. Si commentava – con toni animati – dettagli insignificanti di vita nel paese, ci si lamentava di condizioni di salute precarie, si annunciava in pompa magna una trasferta a parigi per il concerto “degli u due”, scopo celebrazione di due anni di fidanzamento tenace.
Non che mi molestasse, galleggiare in quel limbo di mediocrità. Si rimaneva aggiornati con le dinamiche sociali della cosiddetta italia, e poi la macchinetta automatica produceva caffè degni del miglior bar napoletano. Certo, era difficile spiegare alla collega Loredana che la completa impossibilità di aspirare ad un posto fisso non mi turbavano minimamente, anzi. Era convinta che sarei stato un buon potenziale impiegato, e non sapevo se si trattava di complimento o condanna. In ogni caso, come il miglior materialista nichilista odierno, clamorosamente disinteressato a tutto ciò che esula dal perimetro tracciabile dalle proprie braccia, tutto ciò che mi muoveva ad interrompere i miei sogni ogni mattina alle 7.35 erano quegli ottocentosettantasette euro mensili, che un giorno avrei potuto tranquillamente investire in bombe.

Post-depressione


13 Dic

E’una roba strana. Che s’incarna s’interseca s’insedia e avviene in combustione totale con miliardi di altri non-elementi. Una roba che nasce nei cento kilometri di solitudine su vie notturne quasi ghiacciate e rimane, salato sulla pelle, nonostante gli ambienti lentamente cambino e gli interlocutori immaginari prendano vita. E’ una roba scritta, già detta, riscritta, cancellata, eliminata, scritta ancora. E ripudiata. Il giorno dopo. Un qualcosa che va al di là della ragione, più in là della coscienza, ritorna e scompare e riappare e sparisce e così è, si burla, se ne fotte della linea temporale perchè costruisce artifizi improponibili con dejà-vu passati. E’ vivo e scolpito sulle facce delle persone, non forse su tutte chi lo sa, non sembra sui fratelli laggiù in fondo in fondo ad est, ma forse è solo un tilt mentale sulla quantificazione delle misure, dove l’occhio vede troppo il cervello cancella, come il sole che diventa nero se lo si fissa troppo a lungo. E’ un qualcosa che c’è, e sta lì, a galla, sopra un mare di rum nella Bodeguita del Medio all’havana e in un lago di sangue in un garage a Seattle, e tutti la chiamano con altri nomi e tu puoi darle il tuo se lo vuoi, e tanta tantissima gente ci passa i mesi gli anni la vita a studiarla e analizzarla e non trovarla per poi accorgersi un giorno che era sempre stata lì con loro, e la chiamarono mesi e la chiamarono anni e la chiamarono vita. Un grido disperato, un disagio sussurrato, un urlo che devasta solo quando è silenzioso, una roba bestiale che ci differenzia dalle bestie, è un Mi maggiore che finisce in un La minore. Silenzioso. E’ uno spaziotempo di infinità  di kilometri, mucchi di settimane, indefinibili quantità da colmare in una sfida impari contro capienze infinite.

Diary of a Baltic Man

Real Eyes. Real Lies. Realize.


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