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Give my love to Rose


02 Giu

Gli Hobo.
Lavoratori migranti, ma anche poeti.
Nel loro habitat fatto di treni e avamposti di stazioni, avevano un nemico naturale: gli agenti privati al servizio delle compagnie ferroviarie.
Give my love to rose è la storia di un incontro tra il poeta e un uomo sofferente, picchiato a morte sul treno, sulla sua via del ritorno a casa.

 

I found him by the railroad track this morning
I could see that he was nearly dead
I knelt down beside him and I listened
Just to hear the words the dying fellow said

He said they let me out of prison down in Frisco
For ten long years I’ve paid for what I’ve done
I was trying to get back to Louisiana
To see my Rose and get to know my son

Give my love to Rose please won’t you mister
Take her all my money, tell her to buy some pretty clothes
Tell my boy his daddy’s so proud of him
And don’t forget to give my love to Rose

Tell them I said thanks for waiting for me
Tell my boy to help his mom at home
Tell my Rose to try to find another
For it ain’t right that she should live alone

Mister here’s a bag with all my money
It won’t last them long the way it goes
God bless you for finding me this morning
And don’t forget to give my love to Rose

Give my love to Rose please won’t you mister
Take her all my money, tell her to buy some pretty clothes
Tell my boy his daddy’s so proud of him
And don’t forget to give my love to Rose.

Hobohemia


24 Mag

Perro silbando

Tutto nasce per sbaglio, tutto cresce per gioco.
Hobohemia è  un esperimento che non vuole provare niente, semplice incrocio di casualità.

E’ una storia dell’estate scorsa.
Kiki scende da un treno a Genova Principe (“biglietto non convalidato!”), un abbraccio sincero, quanti anni sono che non ci vediamo?
Kiki. Impossibile presentarlo. Sarebbe il personaggio perfetto per un film.
[Hobohemia, appunto].

Andiamo in macchina verso Viola.
Arriviamo di notte.
Kiki è venuto da queste parti per vivere queste parti, vorrebbe lavorare nei boschi e dividere pane e formaggio con vecchi pastori, ma vecchi pastori non ce ne sono più.

Inizia la notte.
Sono cinque anni che non ci vediamo.
Io e Kiki ci siamo conosciuti in Colombia, poi ci siamo ritrovati in Cile, quando faceva il badante dei suoi anziani e meravigliosi nonni materni.
“Sai, finalmente ho trovato un popolo, un qualcosa con cui identificarmi”.
Mi parla degli Hobo, lavoratori migranti, romantica realtà dell’America dei pionieri.
Mi descrive il loro linguaggio, cerchiamo insieme su internet traccia delle loro simbologie.
Io intanto accendo la videocamera. Non si tratta di immortalizzare il momento, di renderlo in qualche modo eterno. Accendo la videocamera perché quello è il modo migliore per vivermi a fondo quel momento.

Due mesi più tardi, decido di iscrivermi a un dottorato.
Kiki è ancora a Viola, ogni tanto andiamo a lavorare insieme nei boschi.
Per scandire il ritmo dei colpi di rastrello, lui canta, e scrive i testi sul momento.
In un certo senso, sembra di essere nelle piantagioni di cotone. America anni Venti.

Vado a trovare il mio professore, anche lui non lo vedo da tempo.
“Vorrei qualche consiglio su manuali di sociologia, qualcosa di stimolante e nascosto”.
Il mio professore mi consiglia tre titoli appassionanti.
Uno di questo è “The Hobo. Sociology of the homeless man“.
Lo prendo come un segno del destino: a quel punto abbiamo una storia.

Hobohemia era il quartiere dove si ritrovavano, tra un movimento e l’altro, le decine di migliaia di Hobo che vagabondavano per gli Stati Uniti.
Hobohemia è film che prende corpo intorno a Kiki, è il mondo popolato dai personaggi che lui incontra.
Ci sono vecchi contadini, giovani occupanti di case sfitte, riciclatori di eccedenze alimentari, custodi di castagneti millenari. E tutti galleggiano in un mondo di monumenti che crollano, di linee ferroviarie che chiudono, di una “precarietà occupazionale che è figlia del sistema economico in quella specifica epoca”.
E’ la realtà del mondo quotidiano, condensata nelle piccole storie di chi costruisce castelli di grande dignità, “negli spazi vuoti lasciati liberi dalla società dominante”.

Hobohemia, quindi, contiene tutto e non abbraccia niente.
E’ uno sguardo partecipato, come partecipato era il ruolo di Anderson, nel redigere l’etnografia scritta nel 1923.
Il gioco del montaggio ha seguito lo stesso approccio degli Hobo, che scrivevano poesie per poi abbandonarle sui treni, poesie che venivano scritte per il solo gusto di scriverle.
Hobohemia contiene livelli narrativi diversi, che lungo i 59 minuti del film si annullano da sé.
Ma allo stesso tempo – inutile negarlo – Hobohemia gioca a saltellare tra documentarismo urbano, osservazione antropologica, esplorazione biografica (Kiki),  finzione narrativa e sperimentazione audiovisiva, anche grazie alle musiche del maestro Pier Renzo Ponzo.

Sociologia visiva?
Molto di più, qualcosa di meno.
Uno sguardo Hobo.

Senza Titolo


28 Apr

Lobo.

[davanti a un carretto che vende crèpes alla nutella]
Sai dov’è la stazione?
No. Ma so che non ci sono più treni. Comunque anch’io sto andando lì.
Ah. E perché vai lì, se non ci sono più treni?
Per fare una foto.
Vuoi fare una foto ai treni, che non ci sono più?
No. Ci ho provato cento volte, ma viene mossa.
Hai provato ad aumentare l’esposizione?
Credo sia un problema di fuoco. E’ difficile mettere a fuoco qualcosa che non c’è più.

[sull’autobus tratta urbana C]
Ma cos’è quel libro che stai leggendo?
Si intitola “bibbia”. Credo che in qualche lingua antica significasse “corteccia interna del papiro”.
Ah. Anch’io dovrei averlo da qualche parte. Ma una versione diversa. La mia ha la copertina blu.

[di fianco a un manifesto con il faccione di shimon peres]
Quindi anche tu sei un pellegrino.
No, assolutamente. Guardami. Io oggi sono qua, ma domani a quest’ora sarò a Tirana.
A Tirana? E che ci vai a fare a Tirana?
Boh. Suppergiù, quel che faccio qua. Annuso. Mi muovo. Guardo la gente. Musica nelle orecchie.
Quindi vuol dire che sei un pellegrino.
No. Un pellegrino guarda la terra. Pellegrino. Non lo senti, cosa significa? Peregrinare. Per agro andare.
E quindi?
E quindi, per esempio… guardati intorno. In questi precisi giorni potresti fare una mappa dei ciliegi, dei meli, dei peri. Fioriscono tutti insieme, e questo è il momento. Tutto il bianco che vedi, sono loro. Un pellegrino guarda queste cose, ci fa attenzione. Io no.

[sotto la sede provinciale dell’a.n.p.i.]
Ma perché prima hai detto che sono un pellegrino?
Boh. Perché è una parola che nessuno usa più.
E come dicono adesso?
Viaggiatore. Freelancer. Videomaker. No, aspetta. In effetti non dicono più niente. Non si usano più in senso generale, quelle parole.

[E chi darà occhi ai fabbricanti del gelo?]
Bella, questa frase. Ma non ci doveva essere l’indicazione di un luogo, lì sopra?
Perché? Che c’entra?
Non so. Fino ad ora mi sembrava che ci fosse sempre.
C’era, infatti. Ma questa frase è meglio.
E’ bella davvero. L’hai scritta tu?
No. L’ho letta su un libro scritto da un prete.
Ah, sempre quello della corteccia e del papiro?
No. Un libro che ho trovato nella portiera della macchina di un amico, cercando il cavo dell’ipod.
E come fai a sapere che era un prete?
C’era la foto. Aveva il colletto bianco.

[alla fine del discorso]
Però io lo vedo come un discorso di bellezza.
Non esistono i discorsi di bellezza. L’ho visto in un film. C’era una ragazza, nuda, e diceva che sentiva estasi e calma. Abbracciato a lei c’era un ragazzo, nudo, e diceva che sentiva prudere e tirare. Il tema del film era l’incomunicabilità tra uomini e donne.
Quel film parla del mondo com’era una volta. Prima della Sesta Umanità.
E come sarebbe la Sesta Umanità?
Le donne prendono consapevolezza del loro potere, e lo usano per prendere per mano gli uomini e raggiungere, insieme, l’Unione. C’era scritto su un libro.
Quello del papiro o quello del prete?
Ma è la stessa cosa. Per scrivere un libro, in ogni caso devi essere un prete.

s’esbiner


08 Apr

Hiver

Il lento viandante di remota eleganza
giacca baverese e cappello nero in testa
solo un’armonica e un pezzo di legno in tasca
silenzioso s’avvicina a qualcosa da trovare.

Dal lato opposto della valle un peccatore sale stanco
un cane giovane è al suo fianco
fiore vergine all’occhiello di una giacca ormai vetusta
da tante fughe consumate
nell’arte di scappare.

Lì nel mezzo è la montagna
sole e nebbia che la bagna
spazio aperto spazio vuoto
anche il tempo più non c’è.

Uno cerca, l’altro insegue.
Sul crinale c’è l’incontro
uno è biondo, l’altro è nero
tutto intorno è già tramonto.

Due parole tra i viandanti
come i cani che s’annusano
come prede che si osservano
come ladri che ritornano.

Lingue diverse, lo stesso sguardo in faccia.
Uno ha il tabacco e l’altro il vino,
uno ha la sera e l’altro il mattino
e per il pane,
la montagna ci penserà.

E poi cosa succede?

[Immaginare una trama.
Qualcosa.]

Esperando a Inaniel


02 Apr

Era lì, alla fontana vicino al palo della luce.

Aggrappato con le unghie a questi scampoli d’inverno, dice.
Ci potresti credere?
Aria fredda.
Foglie cariche d’acqua.
Fango ovunque.

Buahahahahaha.
Sei impazzito?
Primavera.
Prova ad andare a piedi,
di notte,
verso il ponte.
Mille voci tutt’intorno.
L’acqua si scioglie, ma si scioglie in mille suoni diversi.
[Succede anche di giorno, ma di giorno non lo vedi].

Si guardavano come se fossero stati rinchiusi, tutto l’inverno.
Lì, a dieci metri di distanza.
Qualche contatto sporadico, ma non avevamo niente da raccontarsi:
entrambi stavano vivendo la stessa storia.

Eppure ti dico che preferisco l’inverno, meglio così.
Mancanza assoluta di colori: chi l’ha detto?
Io d’inverno invece riesco a godere meglio delle sfumature.

Quante volte ce lo siamo detti?
L’anno scorso, forse a ruoli invertiti, ci stavamo menando le stesse fiabe.
E’ la notte la cornice di tutto, è nel buio che si avanza a passo più forte.
E lo sai perché?
Perché di notte ti riesci a scrollare dalla pelle tutto il superfluo.

Poi si sono salutati.
Non mi lasci niente?, le ha chiesto
Hai bisogno di qualcosa?, gli ha risposto.

Io ho bisogno di una canzone.
Io ho bisogno di una preghiera.

Un pioniere in ritardo


06 Nov

Nel 1922 un vagabondo improvvisatosi sociologo – o un sociologo in maschera vagabonda – scrive questo libro, che poi si trasformerà in una precisa fotografia su un popolo nascosto tra i meandri della storia
[un popolo senza nazione, il popolo degli Hobo].

Qui le rose non sbocciano mai; i petali di seta
non possono essere sporcati.

Si tratta di un popolo in continua mobilità
mobilità sociale, geografica, urbana, stagionale.
Lavoratori e vagabondi
(a differenza di bums, barboni, e tramps, perdigiorno)
che sono le mani a contratto giornaliero di un capitalismo usa e getta.

Oggi nelle piantagioni,
domani a costruir ferrovie,
dopodomani in città,
gli hobo conducono un’esistenza in continuo movimento.
e la frontiera è sempre un po’ più in là.

Andersen, l’autore del libro, fu uno di loro.

Ma la figura di riferimento è Robert Park,
l’autore dell’autore del libro,
nel senso che “non mi interessava scrivere libri di prima persona,
ma spingere altri a scrivere”.

Park ha inventato la sociologia di strada, ha studiato La Città
in una Chicago che esplodeva al ritmo di Nuovo Mondo:
30.000 abitanti nel 1850
500.000 nel 1880
2 milioni nel 1910.

E nel commento al libro di Andersen scrive:

Finché l’uomo sarà così legato alla terra e ai suoi luoghi, egli non si renderà mai pienamente conto di quell’altra caratteristica ambizione dell’umanità, cioè quella di muoversi liberamente e senza impedimenti al di sopra delle cose mondane e di vivere, come puro spirito, soltanto nella sua mente e nella sua immaginazione.

Se la società fosse un organismo in senso biologico, non vi sarebbe alcun bisogno per gli uomini in società di avere la mente, poichè essi sono sociali non già perchè sono simili, ma perchè sono diversi. Essi sono indotti ad agire da scopi individuali, ma così facendo realizzano un fine comune.

Alla luce di tutto ciò, qual è il guaio nella mentalità del vagabondo? Perchè con conoscenze così vaste di paesi, uomini e città, e con la vita all’aria aperta e nei bassifondi ha potuto contribuire in così scarsa misura alla nostra conoscenza reale della vita?
L’inquietudine e l’impulso a evadere dalla consuetudine della vita ordinaria, che per altre persone segna spesso l’inizio di qualche nuova impresa, si esauriscono per il vagabondo in movimenti che sono puramente espressivi. Egli cerca il mutamento soltanto per amore del mutamento; la sua è un’abitudine e, come l’abitudine alla droga, si muove in un circolo vizioso: più egli vaga e più deve farlo.

Tutte le forme di associazione tra esseri umani poggiano in ultima analisi sulla località e sull’associazione locale. Il vagabondo invece ha sacrificato il bisogno umano di associazione e di organizzazione alla passione romantica per la libertà individuale. Ma affinché nella società possano esserci permanenza e progresso, gli individui che la compongono devono essere localizzati; e ciò soprattutto per mantenere la comunicazione, poiché soltanto attraverso la comunicazione è possibile mantenere quell’equilibrio instabile che chiamiamo società. 

E’ per questo che poi abbiamo inventato i social network?

Gone

Diary of a Baltic Man

Real Eyes. Real Lies. Realize.


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