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Al-Baicín


16 Gen

Un cane bianco,
bianchissimo,
attraversa il vicolo.

Scivola attraverso le ombre lunghe,
passa leggero sopre le pietre del tempo.
Questo quartiere è il più vecchio d’Europa.
Questo quartiere viene dall’Africa.

Le stradine secondarie sono vicoli chiusi su un muro d’edera.
Lì in mezzo, un lampione spento, un mucchio di sabbia, un set di coperte.
Frammenti di vita anche là dove non te li aspetteresti.
Gli architetti hanno insegnato cosa significa la distribuzione nello spazio.

Un cane bianco,
bianchissimo,
che si contende con un altro cane
[anche questo, inspiegabilmente bianco]
una borsa dell’immondizia.

Ecco la città che per altri è giungla
e questo è il Sentiero del Lupo,
del Lupo Bianco.

L’animale ritorna più volte sui suoi passi
come un animale ci insegue, vuole sapere dove andiamo.
Si volta per un momento, un ultimo momento, per chiedere qualcosa.

Poi sparisce nel suo sentiero del cane,
del cane bianco.

Hobohemia is my place to be


19 Ago

No Hobos Any More

Hobohemia è la vita reale.
E’ l’incontro tra le genti, lo scontro, l’insieme delle strutture ridotto alla sola legge del buonsenso.

Se il paese muore, è anche un po’ colpa nostra.
Se non hai il coraggio di difendere, è anche un po’ colpa tua.

Hobohemia è musica, liberazione dalla musica, spontaneità.
Hobohemia sostituisce “il paese” con un senso più ampio e ristretto, individua la patria nella stanza di un amico o nell’inverno scorso, osserva riflette si abbandona e ci prova.

Hobohemia, mercoledì 21 agosto, sono un gruppo di ragazzi, emigranti o figli di emigranti, che riaprono la scuola elementare di Trappa, la stessa scuola elementare in cui forse studiarono i loro genitori, prima di andarsene via.
[Hobohemia è fatta anche di questo, della scheggia sotto la pelle di questa recente epoca in cui in italia circolavano i soldi, e allora venivano ristrutturate alla grande le scuole elementare, prima ancora di accorgersi che quegli stessi soldi si erano portati via i bambini che avrebbero dovuto riempirle. Hobohemia, mercoledì 21, sono questi ragazzi che per due settimane ritornano a Trappa, e si chiedono perché non sia possibile pensare di vivere lì.

Mercoledì 21 agosto, Hobohemia vorrebbe provare ad ascoltare, indurre a suonare, coinvolgere i nemici, e giocare a giocare. Senza pretese, perché i puristi dell’identità Hobo poi si offenderebbero, se l’obiettivo non fosse semplicemente il non avere obiettivi specifici, il vivere tutto come una poesia o forse solo come un antidoto alla noia, o forse era come disse Kepha, “tutte le sere, quando spengo la luce, parlo con Dio e gli spiego che io ho fatto la mia parte. Gli dico che ora tocca a lui”.

Il film racconta di un pezzo di vita vissuta pochi mesi prima, pochi chilometri più su, negli stessi boschi sopra la stazione abbandonata di Trappa. Racconta tutto quel che non si vede, e forse si intuisce solamente, perché una videocamera non potrebbe essere così potente: racconta di un filo invisibile tra una trascurabile valle nelle alpi marittime e un gruppo di giovani in andalusìa, un filo invisibile che parte da un’estate 2012 e arriva nell’epoca del leggendario West, quando l’occidente correva verso la sua frontiera.

Sono cambiati i tempi, e lo si capisce dalla percezione degli spazi.
Nel mondo descritto da Nels Anderson, le pianure sconfinate venivano tracciate da nuove ferrovie, solcate da città nate sul nulla che crescevano imperiose.
[Nella stessa epoca, a Trappa, il regno d’italia costruiva le sue ferrovie. La mano dello Stato raggiungeva le valli più isolate, pretendeva di ispirare fiducia e protezione].
Nel mondo captato dal film, le pianure sono diventate valli strette e boscose. I palazzi di granada sono tutti pieni. E quel che rimane vuoto, diventa invisibile.

Hobohemia, comunque, non è un film.
La sua immagine migliore prende forma con la musica, che non significa nient’altro che se stessa.
E infatti tutto avrà un suono, e il suono sarà l’incontro.

Per l’occasione Leonardo Lacarne, protagonista del film, quella stessa notte se ne tornerà a Granada.

Hobohemia


24 Mag

Perro silbando

Tutto nasce per sbaglio, tutto cresce per gioco.
Hobohemia è  un esperimento che non vuole provare niente, semplice incrocio di casualità.

E’ una storia dell’estate scorsa.
Kiki scende da un treno a Genova Principe (“biglietto non convalidato!”), un abbraccio sincero, quanti anni sono che non ci vediamo?
Kiki. Impossibile presentarlo. Sarebbe il personaggio perfetto per un film.
[Hobohemia, appunto].

Andiamo in macchina verso Viola.
Arriviamo di notte.
Kiki è venuto da queste parti per vivere queste parti, vorrebbe lavorare nei boschi e dividere pane e formaggio con vecchi pastori, ma vecchi pastori non ce ne sono più.

Inizia la notte.
Sono cinque anni che non ci vediamo.
Io e Kiki ci siamo conosciuti in Colombia, poi ci siamo ritrovati in Cile, quando faceva il badante dei suoi anziani e meravigliosi nonni materni.
“Sai, finalmente ho trovato un popolo, un qualcosa con cui identificarmi”.
Mi parla degli Hobo, lavoratori migranti, romantica realtà dell’America dei pionieri.
Mi descrive il loro linguaggio, cerchiamo insieme su internet traccia delle loro simbologie.
Io intanto accendo la videocamera. Non si tratta di immortalizzare il momento, di renderlo in qualche modo eterno. Accendo la videocamera perché quello è il modo migliore per vivermi a fondo quel momento.

Due mesi più tardi, decido di iscrivermi a un dottorato.
Kiki è ancora a Viola, ogni tanto andiamo a lavorare insieme nei boschi.
Per scandire il ritmo dei colpi di rastrello, lui canta, e scrive i testi sul momento.
In un certo senso, sembra di essere nelle piantagioni di cotone. America anni Venti.

Vado a trovare il mio professore, anche lui non lo vedo da tempo.
“Vorrei qualche consiglio su manuali di sociologia, qualcosa di stimolante e nascosto”.
Il mio professore mi consiglia tre titoli appassionanti.
Uno di questo è “The Hobo. Sociology of the homeless man“.
Lo prendo come un segno del destino: a quel punto abbiamo una storia.

Hobohemia era il quartiere dove si ritrovavano, tra un movimento e l’altro, le decine di migliaia di Hobo che vagabondavano per gli Stati Uniti.
Hobohemia è film che prende corpo intorno a Kiki, è il mondo popolato dai personaggi che lui incontra.
Ci sono vecchi contadini, giovani occupanti di case sfitte, riciclatori di eccedenze alimentari, custodi di castagneti millenari. E tutti galleggiano in un mondo di monumenti che crollano, di linee ferroviarie che chiudono, di una “precarietà occupazionale che è figlia del sistema economico in quella specifica epoca”.
E’ la realtà del mondo quotidiano, condensata nelle piccole storie di chi costruisce castelli di grande dignità, “negli spazi vuoti lasciati liberi dalla società dominante”.

Hobohemia, quindi, contiene tutto e non abbraccia niente.
E’ uno sguardo partecipato, come partecipato era il ruolo di Anderson, nel redigere l’etnografia scritta nel 1923.
Il gioco del montaggio ha seguito lo stesso approccio degli Hobo, che scrivevano poesie per poi abbandonarle sui treni, poesie che venivano scritte per il solo gusto di scriverle.
Hobohemia contiene livelli narrativi diversi, che lungo i 59 minuti del film si annullano da sé.
Ma allo stesso tempo – inutile negarlo – Hobohemia gioca a saltellare tra documentarismo urbano, osservazione antropologica, esplorazione biografica (Kiki),  finzione narrativa e sperimentazione audiovisiva, anche grazie alle musiche del maestro Pier Renzo Ponzo.

Sociologia visiva?
Molto di più, qualcosa di meno.
Uno sguardo Hobo.

Esperando a Inaniel


02 Apr

Era lì, alla fontana vicino al palo della luce.

Aggrappato con le unghie a questi scampoli d’inverno, dice.
Ci potresti credere?
Aria fredda.
Foglie cariche d’acqua.
Fango ovunque.

Buahahahahaha.
Sei impazzito?
Primavera.
Prova ad andare a piedi,
di notte,
verso il ponte.
Mille voci tutt’intorno.
L’acqua si scioglie, ma si scioglie in mille suoni diversi.
[Succede anche di giorno, ma di giorno non lo vedi].

Si guardavano come se fossero stati rinchiusi, tutto l’inverno.
Lì, a dieci metri di distanza.
Qualche contatto sporadico, ma non avevamo niente da raccontarsi:
entrambi stavano vivendo la stessa storia.

Eppure ti dico che preferisco l’inverno, meglio così.
Mancanza assoluta di colori: chi l’ha detto?
Io d’inverno invece riesco a godere meglio delle sfumature.

Quante volte ce lo siamo detti?
L’anno scorso, forse a ruoli invertiti, ci stavamo menando le stesse fiabe.
E’ la notte la cornice di tutto, è nel buio che si avanza a passo più forte.
E lo sai perché?
Perché di notte ti riesci a scrollare dalla pelle tutto il superfluo.

Poi si sono salutati.
Non mi lasci niente?, le ha chiesto
Hai bisogno di qualcosa?, gli ha risposto.

Io ho bisogno di una canzone.
Io ho bisogno di una preghiera.

Diary of a Baltic Man

Real Eyes. Real Lies. Realize.


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