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07 Feb

Sarà qualcosa che ritorna e costantemente ritorna,
dall’altro lato del mare,
dal decimo piano di una finestra su  nebbia.

Qualcosa che semplicemente accade
nel sovraffollamento di nomi, di volti, di ombre, di momenti a luce blu.

Aurore boreali di quando eravamo piccoli, e il mercoledì era il mercato.
Prima che inventassero l’America.
Prima che scoprissero gli aerei.

Nomi fantastici riempiono di colore i cartelli, al fianco della lunga linea d’asfalto.
Humahuaca. Maimarà. Tilcara.
Micromondi significativi quanto un intero universo, galassie lontane interconnesse da una falla nel sistema.

Intere legioni di bambini scorrono lungo le loro strade polverose, popoli di indiani e cow-boy così immaginari da diventare tremendamente veri.
Ancora una volta, il paradigma del “paese” va sottobraccio con quello di “infanzia”.
Sono complementari, intercambiabili.
Ma non possono prescindere l’uno dall’altro: non può essere stato veramente “piccolo”, chi è nato in una città.

Manifesti pubblicitari appena sostituiti ai margini della Provinciale.
La memoria evolve in fantasia, ricostruisce mentalmente la geografia di luoghi e storie che improvvisamente appaiono fantastici e lontani –  Humahuaca è più reale. Ottomila kilometri più in là, è possibile disegnare ogni curva ripercorsa e ripetuta nei scivolosi anni dell’infanzia, scrivere la mappatura delle buche nell’asfalto.
Non è normale. Non dovrebbe esserlo. Lo è.
Il concetto di “casa” diventa un’astrazione in qualche modo limitata.
Superate certe prove, oltrepassati i confini di Merica, l’irrazionalità diventa un surrogato necessario, la terra degli antenati.

Humahuaca


06 Ott

Contrasto naturale

Senza far rumore fluivamo fuori dallo spazio e dal tempo, eravamo lontani anni luce dal ricordo di un’infanzia, estranei. Comete. Lentamente ci stavamo spegnendo, ma nell’accelerazione finale avremmo fatto mille volte ancora il giro del mondo, toccando ogni pietra senza perdere mai quota, eravamo nell’atmosfera e galleggiavamo leggeri in una nuvola d’amore, anche se avremmo avuto troppa paura di scriverlo anche solo sul vapore di un vetro. Eravamo due estranei in viaggio tra loro, un giga di foto da mostrare ad amici poco interessati nel remoto giorno del ritorno, eravamo qualcosa che non saremmo stati mai più.

Cusi-Cusi


18 Mag

Sabato a Cusi-Cusi è arrivato un trattore. Niente di eccezionale, e invece sì. Cusi-Cusi è un pueblito perso nei 4.200 metri di altura e di confine tra Argentina Chile e Bolivia, e un trattore da quelle parti non c’era mai arrivato. A dire la verità sono molte le cose che non erano mai arrivate a Cusi-Cusi, trentasei ore di bus e quattro di strada sterrata attraverso un jeep da Buenos Aires, lì dove la gente mastica foglie di coca e mangia carne di lama, e coltiva quinoa, la preziosissima materia prima di quelle preziosissime barrette energetiche che ingurgitano i ciclisti e le donne che vanno in palestra.

Fu così che sabato arrivò il trattore, donato da un miscuglio di ONG e Cooperazioni varie, gran festa e tutti in piedi a cantare l’inno davanti alla stramba immagine di una bandiera argentina in mezzo al deserto, ma questo è un altro discorso. Ciò che vorrei sottolineare, invece, è: Cusi-Cusi si alimenta ad energia solare. Le case sono costruite interamente con Adobe (un fango prodotto dalla terra andina, ottimo per costruire pseudomattoni), la benzina per il trattore arriverà una volta al mese, le macchine presenti nel pueblo sono all’incirca cinque, ma Cusi-Cusi si alimenta a pannelli solari. Ogni casa (di Adobe) porta sul tetto (di paglia e/o arbusti vari) un pannello solare. Lo Stato argentino già da anni investì sull’energia solare, soprattutto in quelle aree a 36 ore + 4 dalla capitale.

In questi giorni di pre-campagna elettorale nel mio pueblo originario, il mio facebook si riempie di candidati vari (c’è anche chi dice: “combatteremo l’immigrazione”. Ah ah. Welcome to twothousandnine, hermano). In quel palco elettorale di 5.800 anime, volano parole retoriche per il mio pueblo, e non un cane (o un lama, o una pecora andina) che mi parli di pannelli solari. Continuiamo così, gente.

Oggi che è giunto un trattore, andrò a vivere a Cusi-Cusi. Prima che combattano l’immigrazione. Ah ah.

Pachamama


13 Mag

La provincia piú settentrionale dell’Argentina é un pianeta diverso. Scompare ogni siginificato globalmente inteso di “societá”, di “religione”, di “diritti e doveri” sotto l’influsso di Pachamama, Madre Natura, Terra, l’unico Dio e l’unico Governo per le diverse comunitá indigene disperse per la regione.

E’ la Terra – con la scarsa acqua rimasta – a dar la vita ai campesinos della regione, é la terra a convertirsi in fango e il fango in mattone ed il mattone in una casa, in un antro, in qualsiasi cosa che protegga dal sole perenne andino (da queste parti non piove da aprile a dicembre) e dalla gelida notte. E’ la Terra a resistere nel fondovalle, perché le montagne intorno sono pietra e polvere e cactus e vento, e dalla Terra nascono e resistono quelli che per sbaglio chiamarono “Indios”. Il panorama umano di questa provincia quasi boliviana (solo il futbol significa “Argentina”, qua a 36 ore di bus da Buenos Aires), Patrimonio Mondiale dell’Umanitá, é la cosa piú assurda che si possa immaginare. Nel taglio degli occhi e nel colore della pelle, nella fisionomia del volto e nei loro vestiti colorati con minerali del deserto resistono i pro-nipoti di chi per primo arrivó in America, secoli o millenni prima del Colombo, dall’Asia di chissá quale deserto orientale.

Poi c’é l’uomo bianco, con le sue miniere di Uranio e d’Oro che uccidono l’acqua e stuprano Pachamama. Un’altra storia.

Diary of a Baltic Man

Real Eyes. Real Lies. Realize.


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