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Prendi un fiammifero


05 Apr

Oltre ai vari ed eventuali (e comunque tutti giustificati) motivi per disprezzare profondamente i Dik Dik, Mogol, gli Innominati, gli Innominabili, i Camaleonti, i New Dada, i Pù, i Ribelli, gli pseudotali e tutti gli altri, eccone uno più valido degli altri.

Erano gli anni Sessanta, e la S.I.A.E. (Società Italiana Autori Ed Editori) era già quell’ente burocratico farraginoso che continua ad essere oggi. Tra i suoi compiti, quello di distribuire le royalities derivanti dalla musica originale riprodotta per un X pubblico. Eppure, un bizzarro vuoto legislativo non specificava cosa sarebbe successo nel caso di brani scritti da autori stranieri, proprio negli anni in cui esplodeva la rivoluzione giovanile, e il mondo esplodeva trascinato dai nuovi messia del rock.

In Italia, ovviamente, qualcuno fiutò l’aria. Strimpellatori di chitarre, giovani vicini al mondo discografico di Milano, studenti di letteratura inglese intuirono il grande business parassita, e iniziarono a stuprare le grida provenienti dall’Inghilterra o dagli Stati Uniti (che ovunque diventavano colonne sonore di rivoluzioni) con versioni provinciali da oratorio, che distruggevano la psichedelia e la ribellione, che trasformavano “All or Nothing” in “Oggi piango”, che trasformavano l’arte (degli altri) in benefici (propri).

Il traduttore-adattatore percepisce la sua quota di diritti su tutte le utilizzazioni del pezzo sul territorio di competenza della Siae, a prescindere che sia stato eseguito in italiano, in inglese, in qualsiasi altra lingua, o anche senza parole .

Perchè questa era la verità. Per ogni riadattamento in italiano di un testo straniero, il traduttore veniva premiato con la metà dei diritti d’autore che spettavano a quel brano. Ma è curioso notare come questa generosa quota del 50% veniva mantenuta anche quando una radio, una televisione o una sala da ballo trasmetteva la versione originale. In pratica, ogni volta che il grande classico “A whiter shade of a pale” suonava sul territorio italiano, Mogol intascava migliaia di lire, in quanto autore della traduzione italiana.

La conseguenza? Centinaia di successi venivano immediatamente tradotti e depositati presso SIAE da un’élite di furbacchioni, che si accaparavano, così, il 50% delle esecuzioni future. E’ per questo che nei polverosi archivi italiani si possono trovare hits milionarie quali “Mister Tamburino”, tra le altre. Poi qualcuno all’estero si accorse dell’inghippo, e sospese la concessione dei diritti di traduzione per l’Italia.

E a noi rimane un Mogol bello lucido al festival di Sanremo e un’ignoranza che si ripete: cinquant’anni dopo gli innominabili, continuiamo ad essere l’unico popolo al mondo che scarnifica i film con il doppiaggio, piuttosto che imparare l’inglese.

Fonte: Franco FABBRI, “Il Suono in Cui Viviamo” – Feltrinelli 1996

Diary of a Baltic Man

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