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Mentre il mondo si contrae


21 Mar

“Mentre il mondo si contrae noi ci espanderemo”,
dicono le persone fiduciose sui social net.

Ci espanderemo, andremo a raccogliere i frutti proibiti
i frutti del nostro essere finalmente umani,
capaci di silenzio,
di empatia,
capaci di silenzio,
e di empatia.

Così dicono le persone fiduciose sui loro balconi
ma nel frattempo cresce la paura, l’ansia, la perversione del sempre connessi.
Ci ritroveremo sopravvissuti
sopravvissuti e senza dignità
a celebrare la festa dei sopravvissuti senza dignità.

– ‘Ho un po’ di febbre. Che ne pensi?
– Penso che sia normale. Hai febbre perché non esci di casa. Fumi cicche sul balcone, vivi in pigiama, e non esci di casa. È normale che ti venga la febbre. È il ritratto perfetto dell’ammalato. È così che ci vogliono, è così che ti vuoi.

 

‘La gente ha paura della morte, muchacho, non l’hai ancora capito?’
Ha paura della morte perché non ha mai imparato ad essere realmente viva.
Si può aver paura di morire senza essere stati realmente vivi?
Evidentemente sì.
Il fatto stesso di darsi da fare per non morire dà finalmente un senso all’esistenza dei più. E questo li accomuna all’esistenza del virus. In fondo siamo tutti sulla stessa barca. Non è il caso di essere troppo ostili, nei confronti del virus.

[per esempio. Era davvero il caso, di portare in giro quelle bare sui carrozzoni militari?]

E così

questi sono i giorni dell’essenziale.
Unghie sporche, mani ruvide, l’odore del corpo che basta a se stesso e nessuna necessità di aprirsi agli altri.
Io per esempio ho imparato a fare i muretti a secco.
In questi giorni sto facendo semplicemente a quello: muretti a secco.
Potrei parlarti di quello e di nient’altro. Non ho nient’altro da dire. Non c’è nient’altro.

E allora, sarà vero che mentre il mondo si contrae, noi ci espanderemo?
Potrebbe essere vero.
Siamo dei virus, organismi preposti al contagio.

 


Que pasa contigo hermano. Que pasa contigo?

Dal ristorante della Fao


10 Dic

La fila scorre veloce nella sala ristorante della FAO.
Insalate di ogni formato, anatra all’arancia, il piatto di giorno è il filetto di Orbetello.
Tremila funzionari mangiano qui, tra le 12 e le 14.30.

La signora qua di fianco parla e spiega come funziona l’organizzazione.
Molti ormai sono assunti come “consulenti”, soprattutto gli italiani e gli spagnoli.
Gli spagnoli sono il doppio del numero previsto. Gli italiani sono comunque una discreta maggioranza.
I dipendenti sono obbligati a sottoscrivere un’assicurazione sanitaria privata. Come in America?, le chiedo. Come in America, risponde.

Il filetto di Orbetello naviga in un mare di piselli.
Pure gli spinaci sono buoni. Forse però manca un po’ di sale.
E quanto costa, ogni dipendente/consulente?
Circa diecimila euro al mese. Ma più della metà va in costi di gestione.
Alla fine lo stipendio è un po’ meno del 50%, di quei 10.000 euro.

Nei tavoli intorno siede tutto il mondo.
Facce egiziane, capelli africani, un vasto ventaglio di orientali.
Da qualche anno è iniziata la decentralizzazione, racconta la signora qua accanto.
Oggi, molti progetti della FAO vengono gestiti direttamente dalle varie sedi regionali.

Estraggo dalla tasca il telefonino, prima di assaggiare il budino alla crema.
Diecimila per tremila. Risultato: trenta milioni di euro.
Un budget al ribasso, una media grezza, per calcolare il budget che l’Organizzazione per il Cibo e l’Agricoltura spende ogni mese per i soli costi del personale della sede centrale di Roma.

Anche il budino alla crema non era male.
La signora qua accanto ha finito e si alza.
Caffè?, dice.
Caffè.

[questo post è stato pubblicato grazie alla connessione wireless della sede FAO di Roma].

Tuned out


03 Mar

Maestro, io sto facendo tutto quel che mi ha consigliato lei, ho acceso il computer, ho spento la televisione, sto leggendo i giornali, mi sono iscritto a communities virtuali dove si commenta quel che succede, guardo i video su youtube e altri siti, compro gli approfondimenti settimanali dei grandi quotidiani in edicola, mi sintonizzo su radio divulgative quando sono in macchina, eppure c’è qualcosa che non funziona, tutta l’informazione che ricevo è vagamente inquietante, tutta l’informazione che condivido mette di cattivo umore i miei amici, tutte le notizie che processo mi parlano di un mondo che si comporta in maniera esattamente opposta a quanto direbbe la logica, Maestro, non so se sono io il problema o se sono tutti gli altri ad essere impazziti, Maestro, e questo non è bello, perchè prima o poi dovrò uccidere qualcuno se non vorrò che siano gli altri a uccidere me, non voglio arrivare a questo, Maestro, non voglio, e allora spengo tutto e decido che se questa è la realtà, preferisco continuare a ignorarla.

Fuori dal (primo) mondo


31 Mag

Traduzione veloce dell‘articolo apparso sul BlueMonk:

Riflettendo sul significato del concetto di “casa”, ci si puo’ ritrovare di fronte a situazioni piuttosto controverse, soprattutto quando i contrasti tra due situazioni sono evidenti almeno quanto i pregiudizi, e le situazioni effettive, paradossali.

Il discorso e’ che mi sono trasferito. Non vivo piu’ in una casetta sulla spiaggia dell’Oceano Atlantico, frazione di Salgar, municipio di Puerto Colombia; sono tornato nel punto di incontro tra Alpi ed Appennini, in un punto qualsiasi delle montagne della vecchia Italia, dove sono nato. Nonostante le differenze possano sembrare infinite, mi stavo dedicando all’esercizio di focalizzare le similitudini, in una specie di studio di un’immaginaria “sociologia dei paesini”, quando un altro tipo di riflessione, questa volta, relativa alla geopolitica ed alle comunicazioni, ha deviato il corso dei miei futili pensieri.

E mi rendo conto, adesso, di come ero fin troppo ben abituato nella mia casetta senza vetri alle finestre, la’ fuori da ogni mappa. D’accordo che dovevo passare la scopa ogni volta che tornavo a casa, di sera, per tirar via mezzo kilo di sabbia dal pavimento. Si spegneva la luce della cucina ogni volta che il frigo si accendeva in automatico – che si puo’ fare. Avevo perfino dovuto condividere diverse volte il mio cibo con ogni tipo di esseri viventi di ogni dimensione, che  saltavano fuori – da chissa’ dove – ad ogni disattenzione. Cosi’ e’ il Tropico.

Eppure, non e’ poca cosa, per un viaggiatore postmoderno ed ipocrita, costantemente incollato a quello che rimane indietro attraverso il web. E la’, nella casetta di Salgar, avevo internet. Qualcosa che nel municipio di Viola, al nord di Italia, piena Unione Europea, pare impossibile.

Ragioni economiche? Politiche? Disattenzione? Chi lo sa. Tutto e niente, a quanto pare. Gli indigeni locali dicono che il cavo dell’ADSL e’ arrivato solamente fino a valle, dimenticandosi di chi vive qualche kilometro piu’ in su. Pero’ in realta’ si sa che il caro signor B. – che, come si sa, ha fondato il suo impero sulla trash-tv commerciale – fa tutto il possibile per frenare l’evoluzione di internet e continuare cosi’ nell’era primordiale della “scatola magica” – un mezzo di comunicazione obsoleto ormai da decenni, nonostante lo dipingano oggi di “digitale” (il fornitore unico dei decoder? Paolo B. Fratello di Sua Maesta’).

Il risultato e’ che la conclusione di qualsiasi analisi di osservazione continua ad essere lo stesso: “primo” e “terzo” mondo sono concetti arbitrari e piuttosto antipatici, una volta di piu’. Se l’accesso ad internet e’ ormai una discriminante fondamentale nel livello di sviluppo di un Paese, si consideri che in Italia il 12 percento della popolazione continua a vivere coattivamente disconnessa dal mondo.

E nella mia casetta di Salgar, tra sabbia ed elettricita’ precaria, insetti e finestre senza vetri, ho trovato, finalmente, il progresso. Wireless.

Diary of a Baltic Man

Real Eyes. Real Lies. Realize.


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