Nevica.
Nevica là fuori.
È notte ed è bianco ed è pieno di neve.
La strada che porta a casa,
la strada che porta alla mia casa,
non la riconosco più.
Ho viaggiato per il giorno e per la pioggia
ho viaggiato nelle terre del mare, dall’altra parte della montagna.
Ho inseguito le tracce di tutto quel che son stato
Ho inseguito le tracce di te.
C’è un pezzo di vita appeso intorno alla casa di un gigante
e una bidella in una scuola media, che mi offre il caffè.
C’è l’altra parte di me che cammina in un libro
e le verità più profonde che non scriverà mai.
Oggi ho insegnato ai ragazzini di una scuola media il succo del mio segreto
ho detto loro che per parlare davvero occorre prima perdere la voce,
rimanere muti di fronte al rumore degli altri.
Hanno riso sono rimasti sospesi sono diventati improvvisamente seri.
Hanno scritto su un foglio quel che si sente in un minuto
e poi sono stati loro a insegnarmi come si accende un fuoco:
con i detriti del tempo,
le macerie del Noi.
Nel frattempo ho un fratello in viaggio su un furgone,
da 14 ore,
sotto la neve.
Dorme nella piazzola di un autogrill con la febbre a 38, ma nemmeno questo interessa a nessuno.
La storia degli altri importa finché è parte del sé.
Nicola intanto risolve ogni dubbio e conferma che nella lingua violese c’è un fenomeno strano:
alle -i finali del piemontese, dopo una E aperta, corrisponde sempre una -n.
Ecco perché burài, “fungo”, diventa buràen.
Ecco perché quài, “quelli”, diventa quàen.
È la -T- che diventa -n- ed è una roba senza riscontri,
non accade così da nessun’altra parte.
Da nessuna parte, tranne nel dialetto mentonasco di Sainte Agnais.
Chissà se c’è la neve.
Chissà se c’è una strada,
laggiù.