Barranquilla è un vecchio nido, un déja-vu in technicolor, un’oasi di sabbia in mezzo al deserto ed al vento. El vividero màs feliz del mundo, un vividero per l’appunto, distesa tropicale ricoperta di esseri umani in eterna, definitiva, speranzosa attesa, cinque bicchieri di aguardiente per accorciare il tempo. Città di poeti ed artisti, di trabajadores e taxisti, sangue d’indigena e sudore di negro si mescolano alla sabbia e al cemento, si fonde il Grande Fiume nell’orgia dell’Oceano Atlantico mentre trecentosessanta giorni di Quaresima separano da un altro carnevale.
Retrogusto di decadenza dei tempi che furono, quando le signore di Spagna dalle piume rosse in testa sbarcavano sul muelle di Puerto. Uomini e mani contro il vento ed il sole; donne e bambini tra leggende e sedie a dondolo. Il Grande Fiume era l’unica strada asfaltata verso la lontana capitale, cultura arte e tecnica s’incontravano tra mare e terra nel disordine di Barranquilla.
Poi fu l’aereo e fu il declino, e Cartagena de Indias scomoda elegante vicina a rubarsi le risorse straniere. Mentre il Grande Fiume, sventrato ed oltraggiato nei kilometri del porto, vomitava acque sempre più sporche nel mar di Barranquilla. Contadini e paesani continuarono ad affluire verso la grande città , che di notte e di rhum respirava la tregua all’eterno sole.
Barranquilla oggi è un vecchio nido, un villaggio transgenico di due milioni di persone e tanti cani negli spazi d’ombra. Rifugiati interni del conflitto colombiano, mercanti, visionari, bianchi, neri e soprattutto mulatti, e un italiano. Sì perchè Barranquilla non è più – o non è ancora – concretamente presente in nessuna mappa geografica, è un’oasi di pace tra l’affollato e crescente turismo di Cartagena e Santa Marta, cento kilometri a destra e a sinistra sulla cartina. La Miami del sud, dicono quei loro abitanti che continuano ad inseguire un sogno di plastica e silicone. Quei loro abitanti che non la capiranno mai.