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Cormac McCarthy


16 Nov

Highway to hell

Ascolta. Credi. Crepa. Fuggi. Lo sferragliare del treno. Breaking news on time sugli schermi lì fuori nelle stazioni. “Election day: in vantaggio Trump”. La mattina livida del mare di novembre. Giù la testa nella storia. “E che storia”,  dice l’uomo – il protagonista – al figlioletto. Che profumo ha la cenere bagnata? Il solito McCarthy, ma questa volta ha qualcosa di diverso. Il solito McCarthy,  meraviglia maledetta. Le pagine scorrono senza un motivo. Le parole e le azioni, che ancora una volta si sublimano in immagini. “Come un orfanello fermo di fronte alla stazione, in attesa di un autobus che non arriverà mai”. Ecco dunque come si immagina tutto, McCarthy. Un libro scritto in chiave futura, ma le tinte fosche sono quelle di un tempo che è una condanna. Fuori dal finestrino altri maxischermi. “Trump sarà il 45° presidente degli u.s.a.”. Le pagine si avviano verso la fine. Come può finire un libro del genere? Come è potuto iniziare tutto?
“E’ proprio così, figlioletto. Noi portiamo il fuoco”.

Non disse niente e lo capì


30 Lug

L‘ho visto a Madrid. Primavera del 2007. Lui si aggirava con una gibson SG Diavoletto, lo stampino di J. P. Harvey appiccicato sulla custodia. Stava seduto su uno di quei dispositivi che si abbassano quando arriva una macchina autorizzata ad entrare in zona pedonale. Le due ragazze che erano in piedi di fronte a lui fumavano una sigaretta. Una aveva i capelli nerissimi, irregolarmente rasati sul lato sinistro. Sembravano conoscersi da una vita.
L’ho rivisto in un locale di Bulevard Magheru, nel centro di Bucarest. Sotto la giacca marrone portava una camicia a quadri, bianca e rossa e nera, e un cappello rasta in testa. Rasta non ne aveva più, ignoravo se li avesse mai portati. Stringendo i pugni nelle tasche passeggiava tra la folla delle sei del pomeriggio, senza inseguire nessun luogo specifico.
Ho saputo che è esistito anche su internet. Ancora oggi scrive sui blog, ma solo perché gli piace l’idea di non dover legare le parole ad un nome, o una faccia. Trascorre i suoi pomeriggi a commentare amaramente video in cui tutti gli altri parlano d’altro. Tre persone hanno comunque cliccato la manina verde, a lato del suo messaggio.
Esiste anche su internet, abita le stazioni, riempie ogni panchina, sporca le conversazioni di ragazze che non lo sentono da un po’, luce verde che nessuno oserà mai interpellare.
Perché ovunque passa lui è così, lascia l’immagine originale ma ne modifica la percezione, rovescia lo stesso colore su tutto, ed è un colore che dà fastidio, che non piace, che incuriosisce, che attrae. Si mimetizza e non ci riesce, porta a spasso un odore di disastro che incendia l’aria ovunque, si autoannulla nel flagello di essere tutto e il contrario di tutto, nella consapevolezza di riconoscersi solamente nel niente.

Questa è una fotografia


17 Mar

Harold, capelli neri e occhi nobili, accento paisa. Vive nella strada, i suoi occhi sono gli occhi di chi ha voglia di chiuderli per un momento, e nascondersi dalle luci della città. Impossibile. Ci riesce con i suoi disegni, a nascondere con la mano la parte brutta delle cose, come si fa avvicinando una mano a cinque centimentri dalla pupilla, la parte marcia rimane coperta e si vede solo una striscia di mondo. Ha la pelle chiara ma anche scura, dipende dai punti di vista, e si sa che i punti di vista sono importanti in una terra dove è meglio mettersi la crema solare per evitare di diventare troppo neri. Harold è nero perchè la strada. Perchè dorme su un cartone nella 73 con 55, lì dove cinque anni fa c’era un parco e adesso ci stanno costruendo la fermata del TransMetro. Eppure sono una brava persona, però tu sai come vanno le cose, io comunque non sono di qua, però è un piacere averti conosciuto, di fronte al Carrefour di solito la gente ti guarda piuttosto male, e invece io voglio solo vendere la mia arte, sai, io la chiamo arte perchè è una cosa che faccio io, che la faccio io e la faccio così e non so nemmeno perchè, forse perchè mi piace così. Però ti guardano male, non so come sia nel tuo paese però qua la gente è razzista, è classista, c’è la società dove devono essere tutti uguali però non possono, sai questo è un paese che ha molti problemi eppure è bello, si sta bene, la gente è felice e sono felice anch’io.

Poi siamo andati al cinema. C’era un film strano, non si capiva se eravamo noi a guardare gli attori attraverso lo schermo, o viceversa.

Diary of a Baltic Man

Real Eyes. Real Lies. Realize.


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