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La patria sarà quando tutti saremo stranieri


02 Nov

A quanto pare, benché io abbia dichiarato espressamente che non intendevo firmare l’appello sullo ius soli, il mio nome vi è stato in qualche modo illegittimamente inserito.
Le ragioni del mio rifiuto non riguardano ovviamente il problema sociale ed economico della condizione dei migranti, di cui comprendo tutta l’importanza e l’urgenza, ma l’idea stessa di cittadinanza.
Noi siamo così abituati a dare per scontato l’esistenza di questo dispositivo, che non ci interroghiamo nemmeno sulla sua origine e sul suo significato.
Ci sembra ovvio che ciascun essere umano al momento della nascita debba essere iscritto in un ordinamento statuale e in questo modo trovarsi assoggettato alle leggi e al sistema politico di uno Stato che non ha scelto e da cui non può più svincolarsi.
Non è qui il caso di tracciare una storia di questo istituto, che ha raggiunto la forma che ci è familiare soltanto con gli Stati moderni.
Questi Stati si chiamano anche Stati-Nazione perché fanno della nascita il principio dell’iscrizione degli esseri umani al loro interno.
Non importa quale sia il criterio procedurale di questa iscrizione, la nascita da genitori già cittadini (ius sanguinis) o il luogo della nascita (ius soli).
Il risultato è in ogni caso lo stesso: un essere umano si trova necessariamente soggetto di un ordine giuridico-politico, quale che sia in quel momento: la Germania nazista o la Repubblica italiana, la Spagna falangista o gli Stati Uniti d’America, e dovrà da quel momento rispettarne le leggi e riceverne i diritti e gli obblighi corrispondenti.

Mi rendo perfettamente conto che la condizione di apatride o di migrante è un problema che non può essere evitato, ma non sono sicuro che la cittadinanza sia la soluzione migliore.
In ogni caso, essa non può essere ai miei occhi qualcosa di cui essere orgogliosi e un bene da condividere.
Se fosse possibile (ma non lo è), firmerei volentieri un appello che invitasse ad abiurare la propria cittadinanza.
Secondo le parole del poeta: “la patria sarà quando tutti saremo stranieri”.

Giorgio Agamben.

Felici ma trimoni


29 Giu

In quest’italia che lentamente si cuce intorno al mio ritorno, noto un’incredibile resistenza di contraddizioni di fondo, soprattutto in quest’epoca di sbandierata austerità (austerità all’italiana. Si rinuncia alle Maldive per pagare 40 euro al giorno una sdraio in Liguria. Ma va beh).

Parlo dei matrimoni, e non parlo solo dei matrimoni. Voglio dire: un po’ per moda un po’ per noia, un po’ perchè l’Italia è uscita dal mondiale, la gente continua a sposarsi (e solo questo, di per sé, pare incredibile. Continua ad essere ritenuta “cool” un’istituzione arcaica già negli anni sessanta). Però, soprattutto, continua a sposarsi tra pranzi fastuosi e liste nuziali ridicole, tra fedine e bouquet e stappabottiglie elettrici, spostandosi poi su mezzi improbabili al limite del trash noleggiati in rent a car costosissimi come massima aspirazione nel “giorno più bello” (tié!), manicures e riti di celebrazioni tra il funebre ed il grottesco ad memoriam di libertà mai godute nemmeno da lontano. Riti tribali antropologicamente interessanti; di fronte a cotanta alienazione cerimoniosa, uno si sente un po’ come Lévi-Strauss nascosto dietro il cespuglio, con il binocolo in mano ad osservare l’incomprensibile.

Ed allora vorrei fornire una possibile proposta di uso alternativo, a questo matrimonio così difficile da lasciare nel secondo millennio.

Esistono istituzioni profondamente insultanti nei confronti dell’intelligenza umana: il matrimonio, per l’appunto, ed il sistema di pezzi di carta e timbri che regolano le nostre frontiere. Il primo, continuando a fondarsi su un’irregolarità di fondo (“ti amerò per sempre”, come se un concetto tanto gassoso ed indefinibile come l’amare possa essere investito sul lungo periodo), allontana l’essere dotato di una coscienza autodeterminante dalla possibilità di unirsi con un suo simile, e di aggiornare costantemente lo stato della loro unione alla situazione contestuale dei tempi, del mondo, delle cose. Si potrebbe dire (ed effettivamente lo dicono quei signori vestiti di bianco, di rosso o di nero) che un discorso del genere mini la stabilità della famiglia, ed è a quel punto è giusto rispondere con statistiche precise – o con qualche scandalo recente che così bene non fa, a chi predica di famiglia e valori.

E poi, ci sono quegli altri pezzi di carta. Visti, permessi di soggiorno, catene leggere dell’epoca contemporanea. Riflettiamo: un rotolo di carta igienica può volare liberamente sopra i continenti, ed un essere umano non può farlo. Un turista pedosessuale europeo può viaggiare ogni mese a Cartagena de Indias per soddisfare le sue voglie, mentre Luz, studentessa d’arte in un’accademica colombiana, non può entrare in Italia per ammirare ciò che agli italiani nemmeno più interessa. Sembra giusto?

Ebbene, c’è una via d’uscita. Come ogni assurdità umana, anche il sistema di pezzi di carta si tradisce da solo: uno annulla l’altro. Potrebbe apparire incredibile, ma un pezzo di carta inutile (matrimonio) annulla un altro pezzo di carta (cittadinanza), oltretutto più potente di quello che in realtà servirebbe (visto). Chiedere a Cuba per credere. E dialogando con quelle numerose coppie miste transeuropee che popolano il mio facebook, scopro che molti, stanchi di illimitate code e marche da bollo, effettivamente, già hanno messo in pratica il teorema.

E vissero tutti felici e contenti.

Diary of a Baltic Man

Real Eyes. Real Lies. Realize.


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