Archive for novembre, 2012

London


19 Nov

A che serve questa città
senza né tempo né età
a che serve questa città
fatta di mondi che si intersecano si sfiorano non si incontrano
se non a sentirsi parte di un tutto che assume la forma di un niente
a riconoscersi nello spazio di un tempo che è l’unica entità “nostra” possibile
a leggere sulla propria pelle la pelle degli altri
a scrivere insieme le pagine di sette miliardi di incontri
che tra cinque minuti
forse meno
già il tempo stravolgerà.

Salva nelle bozze?


14 Nov

Mentre inseguo e libero il momento, e ti scrivo una mail
– pezzi di adesso che si compongono in forma casuale –
osservo questi pensieri che diventano parole
e si accumulano e si sovrappongono in una massa, qui sopra
che soffoca e schiaccia un flusso autentico
penso a quest’immagine che scorre dal cervello alle mie dita
e la vedo trasformarsi in una genesi di uno e zero
la vedo intrappolata negli spazi asettici di un magazzino digitale
la vedo immortale, resistere alle stagioni, sopravvivere anche a noi
e soprattutto vedo te e forse anche me
in una sera noiosa del tempo futuro
ravanare tra la posta inviata e ritrovare questi pensieri,
che non saranno più materia superiore, pezzi di vento.

Che non saranno più sinceri,
non saranno più questo momento.

Un pioniere in ritardo


06 Nov

Nel 1922 un vagabondo improvvisatosi sociologo – o un sociologo in maschera vagabonda – scrive questo libro, che poi si trasformerà in una precisa fotografia su un popolo nascosto tra i meandri della storia
[un popolo senza nazione, il popolo degli Hobo].

Qui le rose non sbocciano mai; i petali di seta
non possono essere sporcati.

Si tratta di un popolo in continua mobilità
mobilità sociale, geografica, urbana, stagionale.
Lavoratori e vagabondi
(a differenza di bums, barboni, e tramps, perdigiorno)
che sono le mani a contratto giornaliero di un capitalismo usa e getta.

Oggi nelle piantagioni,
domani a costruir ferrovie,
dopodomani in città,
gli hobo conducono un’esistenza in continuo movimento.
e la frontiera è sempre un po’ più in là.

Andersen, l’autore del libro, fu uno di loro.

Ma la figura di riferimento è Robert Park,
l’autore dell’autore del libro,
nel senso che “non mi interessava scrivere libri di prima persona,
ma spingere altri a scrivere”.

Park ha inventato la sociologia di strada, ha studiato La Città
in una Chicago che esplodeva al ritmo di Nuovo Mondo:
30.000 abitanti nel 1850
500.000 nel 1880
2 milioni nel 1910.

E nel commento al libro di Andersen scrive:

Finché l’uomo sarà così legato alla terra e ai suoi luoghi, egli non si renderà mai pienamente conto di quell’altra caratteristica ambizione dell’umanità, cioè quella di muoversi liberamente e senza impedimenti al di sopra delle cose mondane e di vivere, come puro spirito, soltanto nella sua mente e nella sua immaginazione.

Se la società fosse un organismo in senso biologico, non vi sarebbe alcun bisogno per gli uomini in società di avere la mente, poichè essi sono sociali non già perchè sono simili, ma perchè sono diversi. Essi sono indotti ad agire da scopi individuali, ma così facendo realizzano un fine comune.

Alla luce di tutto ciò, qual è il guaio nella mentalità del vagabondo? Perchè con conoscenze così vaste di paesi, uomini e città, e con la vita all’aria aperta e nei bassifondi ha potuto contribuire in così scarsa misura alla nostra conoscenza reale della vita?
L’inquietudine e l’impulso a evadere dalla consuetudine della vita ordinaria, che per altre persone segna spesso l’inizio di qualche nuova impresa, si esauriscono per il vagabondo in movimenti che sono puramente espressivi. Egli cerca il mutamento soltanto per amore del mutamento; la sua è un’abitudine e, come l’abitudine alla droga, si muove in un circolo vizioso: più egli vaga e più deve farlo.

Tutte le forme di associazione tra esseri umani poggiano in ultima analisi sulla località e sull’associazione locale. Il vagabondo invece ha sacrificato il bisogno umano di associazione e di organizzazione alla passione romantica per la libertà individuale. Ma affinché nella società possano esserci permanenza e progresso, gli individui che la compongono devono essere localizzati; e ciò soprattutto per mantenere la comunicazione, poiché soltanto attraverso la comunicazione è possibile mantenere quell’equilibrio instabile che chiamiamo società. 

E’ per questo che poi abbiamo inventato i social network?

Gone

Diary of a Baltic Man

Real Eyes. Real Lies. Realize.


Ricerca personalizzata