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Funeral parade of roses


12 Ott

Era il padrone del racconto ma non lo sapeva, ed era per questo che le sue storie finivano sempre male.
Sarà la sfortuna, diceva, questa maledetta  che se la batte quando la meccanica inizia a funzionare, e tutto sembra scorrere verso altri destini, o la lancetta del distributore ferma da anni sulla tacca dell’inganno, giorno e notte immobile nel suo incontro di buio e colori.

O forse erano stati i personaggi stessi a tradirlo.
Impavidi, decisi, sicuri di loro stessi e così maledettamente simili all’autore, una sorta di gatto con diverse vite, sette, che si consumavano nell’inchiostro di pagine inutili, spese a progettare un’insalata nucleare o il più semplice marchingegno per rendere finalmente utile, migliore, l’esistenza prossima in lista. Sei personaggi in cerca di sei personaggi per interpretare un ruolo mascherato da qualsivoglia parvenza di arte, così ci si riconosce nel protagonista ma senza che il panico vinca, perché il suo volto è diverso, la sua faccia è un’altra, è la vita degli altri a dover essere esuberante perché a noi l’esuberanza spaventa, odora vagamente a sudore ed incomprensione, e si finisce tutti a cantare o a recitare o scrivere sulla solitudine, un’altra occasione persa, un altro foglio nella pattumiera gialla.

Il padrone del racconto viveva rinchiuso in una gabbia con i suoi personaggi, era Signorina Goldmayer a portare i pantaloni nella claustrofobia delle quattro mura, a buttare nella mischia nuovi falliti o promettenti emarginati, pezzi di silenzio e di carne un po’ più caldi del solito che venivano buoni quando fuori c’era la neve, e il grigio e la massa rendevano deforme la Valle. Lui li osservava e di ognuno di loro conosceva i segreti, si accorgeva di serbare una lacrima, un rancore, un insulto una pacca per ognuno di loro e quando li scriveva era perché aveva smesso di odiarli. Appollaiato sul tetto più alto, aquila maestosa e regale sotto il vento e la neve, tra le generazioni e il sole, si ripeteva che l’immagine preconcetta della consuetudine rinforza i colori che il tempo ha iniziato a sbiadire.

Così diversi e così uguali, i suoi personaggi. E lui vittima dei un complotto vittima della sua stessa paranoia e così solo con famiglia a carico, un elenco di disperati così vasto nella rotonda del mouse, lui carceriere super-partes o un semplice bastardo che osserva la prigionia degli altri animali dietro le sbarre della sua gabbia?

Sempre per gli altri, le storie di eroi e cavalli bianchi. Non erano mancate sorprese, come quando scrivendo di un fumatore megalomane se ne era innamorato perdutamente, eppure tutti i suoi personaggi puntualmente si ritrovavano ad abbandonare le scene sempre troppo presto, o rimanevano immischiati nella polvere della prima gloria. Non ebbe mai il coraggio di staccare la spina, il padrone del racconto, perché ognuno di loro era come un figlio, e abbandonarli significava ammettere a se stesso di non aver saputo concepire altre possibilità.

Abraxas


16 Lug

Si erano conosciute quasi per caso, nel lento incedere di un pomeriggio di qualche anno prima. Lei stava regalando al sole di Puerto Colombia l’incanto della sua pelle giovane, quando vide avvicinarsi, dondolando su sè stessa, quella vecchia negra dal cestino di aguacate e mangos in testa. “Non scrivere poesie d’amore”, le disse. “Se vuoi scrivere di te, inventati racconti d’odio, storie di tormenti”. Si spense il vento e si fermarono le onde. Perfino il centenario muelle stava per sgretolarsi sotto il peso di quella negra, di quella negra e delle sue parole di piombo.
Secondo il principio che porta due anime a loro modo profonde ad autolesionarsi di paranoia, modificando percezione sensibilità e comportamento verso un’arbitraria azione impercettibile, nasceva in quel giorno uno stretto rapporto d’intesa tra loro. Sarebbero passati quindi mesi senza incontri reciproci, perchè entrambe sapevano che, quasi inconsciamente, lei finiva per apparire di tanto in quanto nell’antro di polvere e erbe mai viste della vecchia negra, per intravedere tra le ragnatele la soluzione ai problemi che di volta in volta tormentavano i suoi vent’anni.
Fino a che, un giorno, lui successe nella sua vita. Aveva attraversato l’Oceano carico di niente, e perso nel suo vuoto più totale lei l’aveva incontrato seguendo il profumo impercettibile della Perdizione. La fusione reciproca fu totale, ed esplose in una dimensione parallela dove tutto il mondo fino ad allora quotidiano rimaneva fuori dalla porta. Scoprivano insieme le mille strade dell’orgasmo e nessuna portava così lontano come il labirinto di parole in cui si chiudevano dopo l’amore. Un giorno, lei gli aveva parlato di quella strana negra di Puerto Colombia, accadde nei tempi in cui la sua famiglia minacciava il Peggio possibile se non avesse abbandonato immediatamente quell’europeo dalle pezze sul culo che infastidiva il loro naso col suo impercettibile odore di Perdizione. L’immagine della negra dai poteri ignoti ma dall’ipersensibilità certa era forte nella sua memoria, ultimo spiraglio di ragione prima dell’inevitabile fuga che entrambi avevano pianificato nella ricerca dell’estasi e del paradiso.
Accadde così che una sera la negra la chiamò. Non le disse come si era procurata il suo numero e nemmeno le disse perchè, le manifestò solamente il suo urgente bisogno di parlarle, all’alba successiva, nel suo antro di Puerto Colombia.
Ci andarono insieme, poi lei lo baciò sulle labbra, e lui la aspettò per ore e ore, e c’era una festa di paese quel giorno, e i bambini ballavano salsa tra le gambe delle madri, e le nonne celebravano e la musica e le gambe si fermarono solamente quando un grido parlava, disperato, di un cadavere, di un europeo e delle onde contro il muelle di Puerto Colombia.

Foto di C,eci.

Il sesso degli angeli


27 Giu

Ricordo quelle notti che passavo sotto casa sua, ricordo quella finestra, ricordo uomini armati e vecchie moto sonnolente. Inoltrandomi nei meandri dell’ingegno, cercavo di spingere la mia voglia di lei più in là della finestra della sua stanza, elucubrazioni inutili. Sempre guardavo con tenero timore ai vetri della finestra di una ragazza, figurandomi la membrana sottile e inviolabile delle sue tende come un’iconografia ben definita, metafora di altri segreti che una femmina sa ben custodire.

Nessuno sapeva cosa succedeva là dietro. Schiere di maledetti e di disgraziati, paraventi di un romanticismo in decadenza, si ritrovava sullo stesso marciapiede, nella stessa ora delle stesse notti, a contemplare i movimenti lenti di quella silhouette misteriosa e maledetta. Ogni battito delle sue ciglia si amplificava nel filtro ottico delle tende, e provocava un brivido di unisono nella platea sottostante. Bellezza di vita trasformata in bottiglia e stretta forte tra le mani; qualcuno indovinava il colore della piuma che portava appesa all’orecchio.

Dora ancora una volta, ancora una notte, si scrollava via di dosso quei vestiti che un conservatorismo ancora vivo le incollava alla pelle tutte le mattine. Spogliandosi di fronte alla finestra, si immergeva in un rito magico che la portava direttamente alla comunione con quel dio alternativo che si era creata. Vento o brezza, bestia selvaggia o cucciolo d’anima, principe azzurro o membro virile, si rifugiava nel culto di quell’entità multiforme ogni volta che suo padre e sua madre la chiudevano dietro un muro di insulti e pianti. Non perché avevano scoperto che un uomo si era portato via quel leggero peso che la loro bambina ormai donna sentiva nel ventre e nella mente, ma perché era lei stessa a inseguire, tra fantasie e delirio, quell’overdose di passione che la trasportava d’incanto nel suo paradiso politeista.
E quando finalmente nuda, spegnendo la luce, scostava le tende e liberava nel vuoto l’ultimo triangolo di stoffa che aveva in quel giorno coperto la sua essenza, un disgraziato, o un maledetto, scagliava sul cemento la bellezza di vita trasformata in bottiglia e stringendo tra le dita il dono del suo dio si allontanava nella notte umida, tiepida, infinita.

Diary of a Baltic Man

Real Eyes. Real Lies. Realize.


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