Posts Tagged ‘partenza’

Scampering


17 Feb

Irrealistic presence

Perchè partire
dovrebbe essere peggio
di restare?

Se tutto è un movimento lento,
costante,
a linea retta.

Non sarà perché l’accelerazione improvvisa
rompendo con la forza dell’inerzia
amplifica l’impatto dell’attrito sugli occhi e sulla pelle?

Non sarà perché il cambio di velocità
agendo sulle traiettorie
spostando il baricentro
concede la percezione del guscio di noce che ci sorregge?

∑

Ieri Margherita mi ha detto che una formica
quando cammina sul dorso della mano
si sente.
Ma non si sente “perché è pesante”.
Si sente perché fa il solletico.

Allo stesso modo io dico che
partire non significa riempire uno spazio
ma lasciare il vuoto dietro di sé.

 

∞

Déja-vu


18 Feb

L’aria si fa rarefatta. Il respiro risuona nelle orecchie, poi nei timpani, da lì nel sistema nervoso e si trasmette ai muscoli e li contrae in direzione-spasmo. E il cuore è un muscolo, il cuore reagisce, il cuore accelera i battiti e li esalta e li esaspera e si converte nel motore stesso del meccanismo in atto, del processo inevitabili.

I timpani fuori uso riducono all’effetto sordina le voci del mondo di fuori. E’ una specie di autodifesa del corpo umano, un invito a nutrirsi di emozioni e rigettare il superfluo. S’ingozza lo spirito nella bulimia di eccitazione e timori, l’assimilazione è totale e l’accumulatore al limite. Un leggero strato di armonia sintetica avvolge e protegge l’equilibrio raggiunto.

Calci e pugni contro i pessimismi. Anatemi e domande rivolte al Destino, ed il Destino che smette di essere un’invenzione dei poeti e scende nel mondo fatto di uomini e bulloni. L’ennesimo bacio di addio appoggiatosi su  guancie ormai inaridite da strazianti partenze e nebulosi arrivi.

Amarcord


25 Lug

La tua gente, i segnali di fumo di un Pellirossa, un’Aquila addormentata nella mano. Sto davvero pensando all’evidente sudditanza dello “scrivere” nei confronti del “dimenticare”, e da lì mi inoltro in ingannevoli circoli mentali troppo più veloce delle dita.

Strano davvero il viaggio erratico, a queste latitudini. Il caldo fertile rimpingua i rigagnoli dei sentimenti. Nella stanza a fianco si sentono voci indistinte, amici di amici improvvisano un poker e ne distruggono il sottostante tavolo. Risuonano accenti paisa. Al loro fianco, mi immagino una nativa, immersa nel mondo virtuale in cui si è racchiusa, camminare gomito a gomito con la sua vecchia amica “sé stessa”. Dietro lo schermo passeggia un suo possibile futuro vedovo e lei se lo lascia scappare. Leo cammina a testa alta sopra il filo sul burrone.

-“Dopodomani alle 7 del mattino dovrò prendere il taxi”.

-“Aaah non farla drammatica. Stop that. Tutti hanno preso un taxi per partire pieni di tutto dopo la loro festa d’addio. Una volta Benat è anche riuscito a fermare l’unica taxista donna del sud america, una tettona che non ha mosso un dito mentre lui moriva sotto tonnellate di valigie”.

-“Tu non capisci. Nessuno ha mai dovuto prendere un taxi per finire in un terminal per finire in un bus di venti ore per finire in un bus urbano per finire in un aereo per la Spagna per finire a TORINO. Tu non capisci”.

Urlano di qua ed urlano di là. Sento dietro la porta gente correre fuori dalle vie della ragione. Dietro di lui qualcuno piangendo ride e parla di peperoncino negli occhi. Ma Leo non se n’è accorto, ricollega le logiche delle sue verità:

“Praticamente prendo tutto sto casino di aerei e bus e navi e treni per finire su uno scivolo che conduce direttamente nella merda”

D’improvviso capisco. Rivedo, come in una serie di fotoflash, la cronologia del nostro cammino, ritrovo frammenti di etereo ricordo spersi tra le brezze di savona e le tempeste delle nostre provincie, annego nel trago amaro che questa notte ci tocca. Ombra costante, aleggiano melodie di fado portoghese. Ricordo il tempo in cui tornammo a casa – quale casa? – ebbri, sbranando anguria e mango mi confessavi la spinta definitiva che ti ha trasportato su queste terre. Ci ripenso ora scrutando le facce qua riunite, nascosto in mezzo a altre stronzate ritrovo un po’ d’orgoglio, un qualcosa di cui andar fiero d’aver condiviso con loro.

Te ne vai e per la prima volta il piccolo mondo di questa grande città addormentata sui caraibi si ferma. Non ho mai visto questa casa inondata dalle lacrime, né ho ritenuto logico piangere sopra un qualcosa macchiato di reversibile. Eppure i muri urlano silenzio, in questa prima notte vedova del tuo spirito. Da oggi non esisteranno più parole né tacite intese, il logico ritornerà a distinguersi dall’illogico, non ci saranno più donne né assurde storie di donne in quest’eterna primavera. Un mutismo androgino e solitario scenderà sulla vita a delirio e caffè.

Ciao Amico mio, compagno di Viaggi.

Diary of a Baltic Man

Real Eyes. Real Lies. Realize.


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