Posts Tagged ‘Solitudine’

I cieli non sono umani. Readin’ Hrabal


11 Set

questi libri, scritti come se fossero boccali di birre, vuotati come una notte che ti scivola addosso, intrecciati intorno a frasi che sono in realtà pensieri in volo libero e idee sbagliate, questi libri che si contraddicono si contrappongono ti costringono e in un certo senso respingono, questi libri figli del novecento e dei suoni anacronismi futuristi, questi libri fatti di passione d’europa centrale e di alienazione, questi libri fatti di altri libri che sanno scendere alle origini delle avanguardie, questi libri che paola ti dice leggilo e dimmi che ne pensi, questi libri che non importa se erano bugie perché comunque io ci credevo, questi libri che sono il motivo per cui uno non si ferma e continua a leggere, anche se sono le tre del mattino e tra cinque ore sarà di nuovo tutto come in questi libri.

Deserti affollati


04 Dic

Sulla finestra, angelica scrive “Ho nostalgia di qualcosa che non ho mai vissuto”. A Simone Marino, Francesca Ferrero e altri due piace questo elemento.

Gravitá permanente


10 Ago

C’è la completa lontananza, lo specchio migliore per osservare qualcosa di interessante attraverso nuove prospettive, e si manifesta sottoforma di goccie d’acqua di un rubinetto che perde. La lontananza come bene necessario, come barriera per difendere da orecchi terzi le lunghe ore di conversazione tra anima e coscienza. Il sentirsi straniero per ritrovarsi a pensare nella propria lingua, ed impararne la grammatica sulle cattedre di scuola. Paradossi a cielo aperto, proprio lí dove i paradossi abbondano, un destino maledetto perché maledetta è la storia di questa terra, prima dei bianchi prima dei neri e prima ancora degli Indios, prima dell’invenzione di un dio necessario per maledire. Una solitudine condivisa, incastro tra jing e jang, bianco e nero fondono tra loro. Lo specchio della lontananza ora che lo specchio non c’è più, spaccato in sette frantumi da un rospo imparanoiato terminato chissá come nella mia stanza, maledetto sia anche il rospo.

La disillusione nello scrivere storie assurde senza il bisogno di inventarle; la quotidianità stessa è una storia assurda e la sua rappresentazione, nient’altro che un capolavoro fotografico.

L’eremita di Barranquilla


28 Dic

Un solitario del secolo ventunesimo, un monaco di clausura rinchiuso nel suo eremo nel centro di una città di due milioni di abitanti. Robert era il discendente di una famiglia nobile, di origini europee, che l’evolversi del tempo e delle rivoluzioni non ha toccato nella provincia del Caribe. Ancora sopravvivevano in lui retaggi di tempi lontani, di quando i bambini degli anni sessanta venivano educati a distinguersi dai “meticci”. Aveva una cugina, Marvel, che qualche decennio prima aveva combattuto il machismo e altre staticità barranquillere con l’arma della parola. Morì giovane a Parigi, dove ancora la ricordano nell’olimpo delle scrittrici latine.

Odiava il mondo, Robert. O, meglio, nutriva una profonda sfiducia in quello che era diventata, a livello globale, la razza umana. Per questo non abbandonava mai il suo nido di VillaKronopyos, un’antica casa repubblicana che profumava a pace nel centro della città più assurda del mondo. Usciva di casa la notte, quando i suoi nemici dormivano, per bagnare i suoi fiori e maledire quel multiforme inquinamento che gli toglieva le stelle e il profumo del mare. I giorni, li passava a “lavorare su me stesso”, così diceva estasiato. E i suoi strumenti erano interi scaffali pieni di libri, di dischi, di film. Era un cultore del diciottesimo secolo, e di tutto quello che artisticamente lo rappresentava. Conosceva Boccaccio e la storia dettagliata delle Repubbliche Marinare italiane, ascoltava Palestrina e i System Of A Down, viveva di retrospettive cinematografiche catastrofiste e reali. “Italiano, eh? Ah bene. Allora ci guardiamo subito un live della Premiata Forneria Marconi, gente in gamba”.

Era un figlio della psichedelìa, Robert. L’avanguardia musicale degli anni ’70 lo aveva travolto in pieno, trascinandolo in un mondo di acidi di funghi e di qualsiasi cosa potesse allucinarlo. Per diciotto lunghi anni era scappato alla morsa del mondo calandosi qualsiasi droga immaginabile. Poi, aveva scoperto Shakespeare e aveva conosciuto una donna. Quindici anni fa l’ha sposata, a lume di candela della loro cucina mentre preparava la cena, l’ha sposata senza preti né burocrati nè testimoni e da allora non può più vivere senza di lei.

Sono tornato a Barranquilla ed ho eliminato tutto ciò che questa città aveva rappresentato per me. Non ho cercato nessuno, ho lasciato il cellulare spento, nemmeno il sole del caribe ho incontrato. Immediatamente, però, sono andato a bussare alla porta di VillaKronopyos, a passare i pomeriggi tra disquisizioni sul razzismo d’Europa e la genialità dei Focus. Ogni tanto qualcuno suonava al campanello. Robert abbassava il volume, stava un minuto in silenzio e strizzandomi l’occhio scoppiava in una profonda risata.

Diritti a rovescio


09 Ott

profumo di uva fermentata nel fondo del bicchiere.
sonno accumulato nella distrofìa di due palpebre.
centinaia di passi, milioni di kilometri, vago buio.
cinquantatrè giorni senza di te, infinito inesistere.
sceriffi addormentati e sbronzi di noia.
mattonelle antiche, una sull’altra impilate, eterne.
orgie linguistiche, parodie dei sensi, conoScienze.
un’amore lontano lontano anni luce.
dicotomìe d’infinito tra i riflessi di finestre oniriche.
calore di famiglia, focolare ritrovato, estrema ustione.
luce sensuale vibrante e ardita.
un bicchiere pieno di lacrime tracannato con miele e sale.
apoteosi di calore inarrestabile gelo perenne.
220 watts di energia per contribuire all’autodistruzione.
amistades ciertas se quedaron entre los dedos.
clorato di benzoidene come aperitivo, stuzzichevole fiele.
tu che leggi e io scrivo.

Ma perchè?

Amarcord


25 Lug

La tua gente, i segnali di fumo di un Pellirossa, un’Aquila addormentata nella mano. Sto davvero pensando all’evidente sudditanza dello “scrivere” nei confronti del “dimenticare”, e da lì mi inoltro in ingannevoli circoli mentali troppo più veloce delle dita.

Strano davvero il viaggio erratico, a queste latitudini. Il caldo fertile rimpingua i rigagnoli dei sentimenti. Nella stanza a fianco si sentono voci indistinte, amici di amici improvvisano un poker e ne distruggono il sottostante tavolo. Risuonano accenti paisa. Al loro fianco, mi immagino una nativa, immersa nel mondo virtuale in cui si è racchiusa, camminare gomito a gomito con la sua vecchia amica “sé stessa”. Dietro lo schermo passeggia un suo possibile futuro vedovo e lei se lo lascia scappare. Leo cammina a testa alta sopra il filo sul burrone.

-“Dopodomani alle 7 del mattino dovrò prendere il taxi”.

-“Aaah non farla drammatica. Stop that. Tutti hanno preso un taxi per partire pieni di tutto dopo la loro festa d’addio. Una volta Benat è anche riuscito a fermare l’unica taxista donna del sud america, una tettona che non ha mosso un dito mentre lui moriva sotto tonnellate di valigie”.

-“Tu non capisci. Nessuno ha mai dovuto prendere un taxi per finire in un terminal per finire in un bus di venti ore per finire in un bus urbano per finire in un aereo per la Spagna per finire a TORINO. Tu non capisci”.

Urlano di qua ed urlano di là. Sento dietro la porta gente correre fuori dalle vie della ragione. Dietro di lui qualcuno piangendo ride e parla di peperoncino negli occhi. Ma Leo non se n’è accorto, ricollega le logiche delle sue verità:

“Praticamente prendo tutto sto casino di aerei e bus e navi e treni per finire su uno scivolo che conduce direttamente nella merda”

D’improvviso capisco. Rivedo, come in una serie di fotoflash, la cronologia del nostro cammino, ritrovo frammenti di etereo ricordo spersi tra le brezze di savona e le tempeste delle nostre provincie, annego nel trago amaro che questa notte ci tocca. Ombra costante, aleggiano melodie di fado portoghese. Ricordo il tempo in cui tornammo a casa – quale casa? – ebbri, sbranando anguria e mango mi confessavi la spinta definitiva che ti ha trasportato su queste terre. Ci ripenso ora scrutando le facce qua riunite, nascosto in mezzo a altre stronzate ritrovo un po’ d’orgoglio, un qualcosa di cui andar fiero d’aver condiviso con loro.

Te ne vai e per la prima volta il piccolo mondo di questa grande città addormentata sui caraibi si ferma. Non ho mai visto questa casa inondata dalle lacrime, né ho ritenuto logico piangere sopra un qualcosa macchiato di reversibile. Eppure i muri urlano silenzio, in questa prima notte vedova del tuo spirito. Da oggi non esisteranno più parole né tacite intese, il logico ritornerà a distinguersi dall’illogico, non ci saranno più donne né assurde storie di donne in quest’eterna primavera. Un mutismo androgino e solitario scenderà sulla vita a delirio e caffè.

Ciao Amico mio, compagno di Viaggi.

Calle 84 6 a.m.


09 Giu

Una strana sensazione nell’aria. Una casa incomprensibilmente vuota, per la prima volta i muri sono bagnati di una sostanza riflettente che non contempla i fantasmi. La casa è vuota, la stanza è vuota, le anime stesse sono vuote e ripetitive e paranoiche. Empty, vacìo. Parlano i chiodi nei muri, urlano al fumo la disperazione totale: llevaban en ellos trozitos de vida, trozitos de vida ahora cerrados en malletas y recuerdos.

L’armata dei superstiti accalorata agonizza intorno a una tavola. Il fondo è di vetro, attraverso lo sguardo s’intravedono piedi e immondizie e battiti di ali. Una combriccola di zombies, incollata a vicenda da dadi e bottiglie, da miele e parole, da brividi e buio. La superficie vitrea riflette un computer, cordone artificiale e itinerante. Nei suoi viaggi sbatte nella notte piccanti individui dalla città dell’ovest al disordine costeño.

Le parole volano e le mani scivolano nel caldo umido di vertigine e furore. Mentre i clacson accendono, le luci uccidono, le carezze smuovono la moltitudine di depravata passione. ¿Hai perso il filo? Anche io. Nel tombino di una città senza tombini.

Diary of a Baltic Man

Real Eyes. Real Lies. Realize.


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