Archive for the ‘Libri’ Category

Il tamburino magico


19 Lug

E’ una favola di Gianni Rodari, che raccontò Antanas Mockus, a Cuneo.
Un suonatore di tamburo va in giro per il mondo, e al suono del suo rullante ogni problema in qualche modo si risolve.
Gli zoppi smettono di zoppicare, le guerre tra i popoli diventano pacche sulle spalle, i re e gli imperatori aprono le loro cantine alla gente comune.

 

E poi?
A un certo punto il tamburino si rompe.
Il gioco non funziona più.

Antanas, a quel punto, aveva suggerito tre finali possibili.
Nel primo, il suonatore riesce ad aggiustare il tamburino, e la magia riprende il suo corso.
Nel secondo, il suonatore non riesce ad aggiustare il tamburino, e mestamente riprende il suo cammino.
Nel terzo finale, il suonatore non prova nemmeno ad aggiustare il tamburino: quel che è stato è stato, e il resto sarà diverso.

Quale finale preferite?, chiese Antanas.
Io scelgo il terzo.

<3


07 Lug

<3

Se saliranno – e sapranno attendere –
aspetteranno insieme
il tacito miracolo, umile prezioso e bello
del tuo sbocciare
del tuo fiorire che sfida il gelo crescente;
e vedremo – poiché essa verrà – la ritornante allodola,
(skylark: gioco e splendore celeste)
rapida nel suo volo, sul bacino d’argento
delle sorgenti scendere, a bersi un sorso di cielo.

E sarà la nuova alba, regalata dalla notte;
per le sentinelle dell’aurora:
Sentinella che ora è della notte?
Sentinella che notizie porti dalla notte?
E la sentinella: Viene il mattino e poi anche la notte,
se volete domandare, domandate,
mùtate di mente, venite!

E troveranno, tra il gelo dei cuori impietriti
e il disgelo della nuova primavera,
che ivi sono pietre e pietre,
e che ivi sono cuori e cuori
e vi sono cuori che sono di pietra
e vi sono pietre che sono di cuore.

E i tuoi occhi contempleranno il Re nella sua Bellezza,
e il tuo cuore si dirà nei suoi terrori:
dov’è colui che registrava,
dov’è colui che pesava,
dov’è colui che calcolava,
dov’è colui che ispezionava le torri?

 

[Giovanni Conterno \\ Profeta Isaia]

Il sole non è che una stella mattutina


15 Giu

L'ombra del camminante

Io lasciai i boschi per una ragione altrettanto buona di quella per cui mi ci ero stabilito. Forse mi pareva d’avere altre vite da vivere, e di non potere dedicare altro tempo a quella sola.
E’ notevole con che facilità e insensibilità noi prendiamo una certa strada e ci facciamo un sentiero ben tracciato. Ero là da appena una settimana, e già i miei piedi avevano segnato un sentiero dalla mia porta alla riva dello stagno.

Imparai questo, almeno, dal mio esperimento: che se uno avanza fiducioso nella direzione dei suoi sogni, e cerca di vivere la vita che s’è immaginato, incontrerà un inatteso successo nelle ore comuni. Si lascerà qualcosa alle spalle, passerà un confine invisibile; leggi nuove, universali e più libere cominceranno a stabilirsi dentro e intorno a lui, oppure le leggi vecchie saranno estese e interpretate in suo favore, e in senso più ampio.

Così egli vivrà con la licenza di un più alto ordine di esseri.

Hobohemia


24 Mag

Perro silbando

Tutto nasce per sbaglio, tutto cresce per gioco.
Hobohemia è  un esperimento che non vuole provare niente, semplice incrocio di casualità.

E’ una storia dell’estate scorsa.
Kiki scende da un treno a Genova Principe (“biglietto non convalidato!”), un abbraccio sincero, quanti anni sono che non ci vediamo?
Kiki. Impossibile presentarlo. Sarebbe il personaggio perfetto per un film.
[Hobohemia, appunto].

Andiamo in macchina verso Viola.
Arriviamo di notte.
Kiki è venuto da queste parti per vivere queste parti, vorrebbe lavorare nei boschi e dividere pane e formaggio con vecchi pastori, ma vecchi pastori non ce ne sono più.

Inizia la notte.
Sono cinque anni che non ci vediamo.
Io e Kiki ci siamo conosciuti in Colombia, poi ci siamo ritrovati in Cile, quando faceva il badante dei suoi anziani e meravigliosi nonni materni.
“Sai, finalmente ho trovato un popolo, un qualcosa con cui identificarmi”.
Mi parla degli Hobo, lavoratori migranti, romantica realtà dell’America dei pionieri.
Mi descrive il loro linguaggio, cerchiamo insieme su internet traccia delle loro simbologie.
Io intanto accendo la videocamera. Non si tratta di immortalizzare il momento, di renderlo in qualche modo eterno. Accendo la videocamera perché quello è il modo migliore per vivermi a fondo quel momento.

Due mesi più tardi, decido di iscrivermi a un dottorato.
Kiki è ancora a Viola, ogni tanto andiamo a lavorare insieme nei boschi.
Per scandire il ritmo dei colpi di rastrello, lui canta, e scrive i testi sul momento.
In un certo senso, sembra di essere nelle piantagioni di cotone. America anni Venti.

Vado a trovare il mio professore, anche lui non lo vedo da tempo.
“Vorrei qualche consiglio su manuali di sociologia, qualcosa di stimolante e nascosto”.
Il mio professore mi consiglia tre titoli appassionanti.
Uno di questo è “The Hobo. Sociology of the homeless man“.
Lo prendo come un segno del destino: a quel punto abbiamo una storia.

Hobohemia era il quartiere dove si ritrovavano, tra un movimento e l’altro, le decine di migliaia di Hobo che vagabondavano per gli Stati Uniti.
Hobohemia è film che prende corpo intorno a Kiki, è il mondo popolato dai personaggi che lui incontra.
Ci sono vecchi contadini, giovani occupanti di case sfitte, riciclatori di eccedenze alimentari, custodi di castagneti millenari. E tutti galleggiano in un mondo di monumenti che crollano, di linee ferroviarie che chiudono, di una “precarietà occupazionale che è figlia del sistema economico in quella specifica epoca”.
E’ la realtà del mondo quotidiano, condensata nelle piccole storie di chi costruisce castelli di grande dignità, “negli spazi vuoti lasciati liberi dalla società dominante”.

Hobohemia, quindi, contiene tutto e non abbraccia niente.
E’ uno sguardo partecipato, come partecipato era il ruolo di Anderson, nel redigere l’etnografia scritta nel 1923.
Il gioco del montaggio ha seguito lo stesso approccio degli Hobo, che scrivevano poesie per poi abbandonarle sui treni, poesie che venivano scritte per il solo gusto di scriverle.
Hobohemia contiene livelli narrativi diversi, che lungo i 59 minuti del film si annullano da sé.
Ma allo stesso tempo – inutile negarlo – Hobohemia gioca a saltellare tra documentarismo urbano, osservazione antropologica, esplorazione biografica (Kiki),  finzione narrativa e sperimentazione audiovisiva, anche grazie alle musiche del maestro Pier Renzo Ponzo.

Sociologia visiva?
Molto di più, qualcosa di meno.
Uno sguardo Hobo.

Stephen Dedalus


15 Mag

Ti dirò cosa farò e cosa non farò. Non servirò ciò in cui non credo più, si chiami casa, patria o chiesa: e cercherò di esprimere me stesso in qualche modo di vita o di arte il più liberamente e il più compiutamente possibile, usando a mia difesa le sole armi che mi concedo di usare: il silenzio, l’esilio e l’astuzia”.

[Joyce – ritratto dell’artista da giovane]

Anti-antipolitici


27 Mar

Antefatto doveroso: ho scritto un libro.
E’ iniziato nel 2007, quando sul balcone di Kaunas, in una pausa sigaretta tra una birra e un vodka, è apparsa una ragazza colombiana.
– E tu che ci fai, qui?
– Sono venuta in Lituania per cercare di capire da dove arriva l’uomo che ci ha cambiato la vita, a Bogotà.

La storia di Antanas Mockus era troppo potente, per non immergersi fino in fondo.
Un intellettuale che trasforma la società utilizzando, a dosi alterne, massicce e contemporanee, arte, pedagogia, sperimentazione semiotica e politica.

Nel 2010, mentre il libro si scriveva da solo, ci furono le elezioni colombiane.
E dalla Colombia si tentava di proporre articoli alla stampa italiana, soprattutto a quella progressista, perché la situazione era piuttosto unica.
Un individuo autentico, indipendente e libero, stava per giocare scacco matto ai macchinari di potere di un Paese tra i più corrotti al mondo.

La stampa italiana però non dava cenni di vita, per un motivo semplice: l’azione di Mockus stava spiazzando sia le forze di destra che quelle di sinistra, e creava imbarazzanti confronti con il contesto italiota.
Il giorno delle elezioni Repubblica non ne parlò, altri liquidarono Mockus come “un candidato ecologista”.

Oggi, tre anni più tardi, il libro è uscito.
Ma nel frattempo è uscito anche Grillo e il suo Movimento, e anche l’Italia si è accorta che non esiste una sola impostazione, un solo linguaggio, un solo percorso, per raggiungere i palazzi dell’amministrazione pubblica.

E a questo punto per esempio leggiamo su L’Espresso un interessante paragone tra due personaggi che tra loro condividono soltanto la carica innovativa di rottura con gli schemi finora conosciuti.

Ora. La prima considerazione che potrebbe venire in mente è che, anche grazie a “uno come Mockus”, l’Italia può tirare un sospiro di sollievo nel prendere atto che ci può essere un Grillo. Ed è un piccolo risultato. Ma, rovesciando il ragionamento, è altrettanto vero che, anche grazie a Grillo, quella branca di pubblici opinionisti in qualche modo vicina al “progressismo” si è accorta dell’esistenza di Mockus, personaggio in tutto e per tutto fuori dagli schemi, e anche per questo, difficilmente assimilabile in paragoni e metafore.

Se L’Espresso avesse approfondito a tempo debito il fenomeno-Mockus in Colombia, oggi non rischierebbe di rimanere coinvolto nell’errore di considerare che un’alterità politica nei confronti dell’esistente debba obbligatoriamente essere immaginata, sempre e comunque, con quegli stessi termini populistici che alla fine confluiscono nella definizione di “antipolitico”.

Per riassumere: Antanas Mockus è uno studioso che fin dalla sua prima formazione – Francia 1970, Filosofia e Matematica – si dedica all’analisi delle possibilità di cambio sociale. Il suo intero cammino personale e professionale si è sviluppato tra le strade della creatività e dell’arte, applicate ad una solida fiducia nell’utilizzo della pedagogia per trasformare una città (o un Paese, e quindi un’intera società) in un laboratorio dinamico di possibilità. Nei suoi anni di insegnamento all’Universidad Nacional de Bogotà i suoi studenti impararono a pensare “fuori dagli schemi” osservando il loro professore scrivere con il gessetto sulle pareti dell’aula una volta che la lavagna era ormai piena, per poi proseguire sulla porta della stanza, e da lì verso le pareti del corridoio….

Intrapresa l’attività politica [la prosecuzione della pedagogia con altri mezzi], Mockus apparì per strada travestito da SuperCittadino, con l’obiettivo di stimolare un gioco creativo in cui il risultato finale era una grande riflessione relativa alla destinazione da attribuire ad uno spazio urbano per la prima volta percepito come collettivo.

Ecco un primo paragone possibile tra il Comico e il Pagliaccio, con il non secondario dettaglio che pochi mesi più tardi, una volta eletto a Sindaco della capitale colombiana, Mockus sostituì interamente il corpo dei vigili urbani con un esercito di clown, attori teatrali, mimi. Il suo obiettivo era semplice: risolvere i problemi legati al traffico. I vigili urbani non facevano altro che alimentare un antipedagogico sistema di corruzione e di “soddisfazione dell’ego” per gli automobilisti che evitavano le sanzioni, mentre i mimi e i clown, con creatività e solidità sociologica, avrebbero toccato un tasto caldo per il prototipo di automobilista latinoamericano: l’orgoglio.

Ma a chiunque voglia continuare a immaginare i due nuovi eroi in termine di similitudine, basti pensare questo: Antanas Mockus circolava con un cartellino da arbitro di calcio in tasca, e ogni volta che un giornalista o un avversario politico cercava di innescare una polemica o un commento negativo, rispondeva innalzando il cartellino rosa – simbolo del suo Movimiento de los Visionarios. “Comportamento scorretto, atteggiamento poco costruttivo”, rispondeva all’interlocutore, sbigottito. “Non serve a niente parlare degli altri, proseguire la prosopopea del nulla. Non chiedeteci se siamo di destra e di sinistra, siamo a un livello di coscienza più immediato, siamo Cittadini in Formazione. E adesso che abbiamo la consapevolezza di esserlo, iniziamo a costruire qualcosa”.

Tutto qua.

Leggete il libro.

 

 

 

Kibera Slum


18 Mar

Carne

“Il signor Pickwick sedette quindi ai piedi del suo lettino di ferro e cominciò a chiedersi quanto potesse guadagnare in un anno il guardiano affittando quella sudicia stanza. Dopo essersi accertato per mezzo di un calcolo matematico che in quanto a rendita annua quel locale corrispondeva ai proventi dati dalle case di una certa strada nei sobborghi di Londra, passò a chiedersi da che cosa si fosse lasciata allettare a entrare in una soffocante prigione la povera mosca venuta a passeggiare sui suoni pantaloni, quando avrebbe potuto scegliere tra tanti altri luoghi ben più arieggiati, e la conclusione a cui giunse senza possiblità di scampo fu che quella mosca doveva essere impazzita”.

[a pagina 761 de “Il circolo Pickwick” da una panchina della baraccopoli di Kibera].

Avete cinque minuti a testa per parlare di voi


10 Feb

A quanto pare “discorso”
[dis-cursus]
significa, in origine,
il correre qua e là,
le mosse,
i ‘passi’,
gli intrighi,
i movimenti incerti.

A quanto pare quindi
“discorso”
non vuol dire niente.

Vuol dire quel che vuole dire
cioè una serpentina impazzita tra un’idea e l’immagine di un’idea
tra la sostanza eterea di una materia fine a se stessa
un isterico scivolare verso i confini del linguaggio.

E quindi “discorso”
è una sequenza logica di sequenzialità illogiche
nel tentativo disperato di dare un ordine a quel che è fatto di aria,
sostanza gassosa.
Ma è anche un gioco di seduzione e di compromesso
un gioco con il fuoco, l’immensità del mare.

E allora il discorso è
in fin dei conti
soprattutto una domanda:
perché continuare a parlare?

Un pioniere in ritardo


06 Nov

Nel 1922 un vagabondo improvvisatosi sociologo – o un sociologo in maschera vagabonda – scrive questo libro, che poi si trasformerà in una precisa fotografia su un popolo nascosto tra i meandri della storia
[un popolo senza nazione, il popolo degli Hobo].

Qui le rose non sbocciano mai; i petali di seta
non possono essere sporcati.

Si tratta di un popolo in continua mobilità
mobilità sociale, geografica, urbana, stagionale.
Lavoratori e vagabondi
(a differenza di bums, barboni, e tramps, perdigiorno)
che sono le mani a contratto giornaliero di un capitalismo usa e getta.

Oggi nelle piantagioni,
domani a costruir ferrovie,
dopodomani in città,
gli hobo conducono un’esistenza in continuo movimento.
e la frontiera è sempre un po’ più in là.

Andersen, l’autore del libro, fu uno di loro.

Ma la figura di riferimento è Robert Park,
l’autore dell’autore del libro,
nel senso che “non mi interessava scrivere libri di prima persona,
ma spingere altri a scrivere”.

Park ha inventato la sociologia di strada, ha studiato La Città
in una Chicago che esplodeva al ritmo di Nuovo Mondo:
30.000 abitanti nel 1850
500.000 nel 1880
2 milioni nel 1910.

E nel commento al libro di Andersen scrive:

Finché l’uomo sarà così legato alla terra e ai suoi luoghi, egli non si renderà mai pienamente conto di quell’altra caratteristica ambizione dell’umanità, cioè quella di muoversi liberamente e senza impedimenti al di sopra delle cose mondane e di vivere, come puro spirito, soltanto nella sua mente e nella sua immaginazione.

Se la società fosse un organismo in senso biologico, non vi sarebbe alcun bisogno per gli uomini in società di avere la mente, poichè essi sono sociali non già perchè sono simili, ma perchè sono diversi. Essi sono indotti ad agire da scopi individuali, ma così facendo realizzano un fine comune.

Alla luce di tutto ciò, qual è il guaio nella mentalità del vagabondo? Perchè con conoscenze così vaste di paesi, uomini e città, e con la vita all’aria aperta e nei bassifondi ha potuto contribuire in così scarsa misura alla nostra conoscenza reale della vita?
L’inquietudine e l’impulso a evadere dalla consuetudine della vita ordinaria, che per altre persone segna spesso l’inizio di qualche nuova impresa, si esauriscono per il vagabondo in movimenti che sono puramente espressivi. Egli cerca il mutamento soltanto per amore del mutamento; la sua è un’abitudine e, come l’abitudine alla droga, si muove in un circolo vizioso: più egli vaga e più deve farlo.

Tutte le forme di associazione tra esseri umani poggiano in ultima analisi sulla località e sull’associazione locale. Il vagabondo invece ha sacrificato il bisogno umano di associazione e di organizzazione alla passione romantica per la libertà individuale. Ma affinché nella società possano esserci permanenza e progresso, gli individui che la compongono devono essere localizzati; e ciò soprattutto per mantenere la comunicazione, poiché soltanto attraverso la comunicazione è possibile mantenere quell’equilibrio instabile che chiamiamo società. 

E’ per questo che poi abbiamo inventato i social network?

Gone

#casachiesafamiglia


27 Ago

[Attenzione: tra pochi giorni, questo blog sarà venduto ai cinesi – è la morte del “Made in Italy”, si sa. C’è crisi.
I nuovi azionisti vogliono dinamismo e vivacità. Ritengono inoltre che la stagnante situazione dei commenti a ogni post allontanino gli investitori. Servono commenti, polemiche, insulti, minacce di morte. Per stimolarli, cosa, meglio di questo post?]

“La prima tappa, critica, del mio percorso, implica una decostruzione dell’ideale ascetico: per fare ciò cercherò di farla finita con i principi della logica della rinuncia, che tradizionalmente mette in relazione desideri e mancanza, definisce la felicità come compiutezza e realizzazione di sé nell’altro, per l’altro e per mezzo dell’altro; eviterò di sottomettermi all’idea che la coppia fusionale rappresenti la formula ideale di questo ipotetico culmine ontologico; cesserò di contrapporre brutalmente anima e corpo, perché questo dualismo, che è diventato una temibile arma da guerra nelle mani degli amatori dell’odio di sé, organizza e legittima una morale moralizzatrice articolata sulla positività dello spirito e la negatività della carne; rinucerò a collegare fino a confonderli amore, procreazione, sessualità, monogamia, fedeltà e coabitazione; rifiuterò l’opzione ebraico- cristiana che mescola femminile, peccato, colpa, colpevolezza ed espiazione; criticherò la collusione fra monoteismo, misoginia e ordine fallocratico; condannerò le tecniche del disprezzo di sé messe in opera dalle ideologie pitagoriche, platoniche e cristiane; seppellirò la famiglia, questa cellula primitiva del politico che su di essa strutturalmente si basa. In tal modo si possono comprendere.e quindi mettere sotto accusa parecchi secoli di ebraismo- cristianesimo.”

Michel Onfray – Teoria del corpo amoroso

Diary of a Baltic Man

Real Eyes. Real Lies. Realize.


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