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Lala salama


10 Mag

Fishermen

Locale sudato di vento notturno.
Secondo piano di una palafitta di legno, di fronte all’Acacia Hall del centro di Kampala.
Un ragazzo dà le spalle alla festa. Le ginocchia su una panchina e i gomiti appoggiati alla finestra.
E’ Rafael.

Osserva la città travolta dai lampi.
Alle sue spalle il legno è verde, il legno è viola, il legno è blu.
Anche la musica è stata verde, è diventata nera, adesso è blu.
La festa va avanti e va avanti per davvero.

Le tavole vibrano. Le donne scivolano contro, muovono. Grandi ventilatori laterali garantiscono un vento fresco che entra nella camicia e finisce tra i capelli degli altri.
Rafael continua a guardare fuori dalla finestra. Il vento gli arriva in faccia carico d’acqua.
Piove.
Laggiù in strada passano due individui con due lunghi pali di legno sulle spalle. Appena superano il fascio biancastro della luce pubblica si fermano, spostano il palo sull’altra spalla, riprendono fiato.
“Ladri”, pensa Rafael.
“Chissà dove hanno preso quel palo. Chissà cosa ne faranno”.
Trycha lo segue con la coda degli occhi, continua a ballare.
Anche per lei sono le cinque del mattino. Anche per lei sono cinque ore ballando.
Un paio d’ore prima Rafael e Rachid avevano spiegato che nella loro lingua “to dance” e “to fuck” sono un termine solo.
Poi avevano spento la sigaretta, e siamo tornati a ballare.

“Le uniche luci che vedi sono quelle dei ricchi”, dice Rafael.
“Ogni luce una casa. Ogni luce una casa. Ogni luce una casa. Sembra che tutt’intorno non ci sia nulla. Il nero più assoluto”.
Kampala è una distesa di colline di terra rossa.
Campi di manioca si alternano a officine meccaniche, palazzine e motel. Nelle intersezioni tra le colline sorgono i centri commerciali.
Di fronte a un centro commerciale c’è una finestra senza vetri con un ragazzo che guarda là fuori, e alle sue spalle, una festa.
Da un paio di minuti almeno i ragazzi sono diventati due.
Là fuori ha iniziato a piovere, e la pioggia del tropico è un discorso totale.
L’unico modo per non sentirla è trovarsi in una palafitta infarcita di musica, donne che scivolano, luci colorate, rhum.

Qualche secondo più tardi arriva un unico grido.
Tonalità infantili o femminili, una lama di suono che arriva da lontano e riempie le strade di queste colline.
E’ andata via l’elettricità e iniziano storie nuove.
Perché quando piove va via la luce, e le distese di colline rimangono al buio. E quando succede, si spengono prima di tutto le orecchie, sparisce una crosta di suono che non si ricordava nemmeno più di percepire.
Chi credeva di stare già sonnecchiando può ritrovarsi improvvisamente in movimento, come un gatto.
Per questo appare gente che tenta di fuggire, per strada, con due pali di legno sulle spalle.

Tutte le cose iniziarono cantando


04 Dic

Dietro la creazione

Tutte le cose iniziarono cantando
canzoni di culla dalla consistenza della lana grezza.
Lana grezza che stabiliva un confine.
Al di là della filatura, la mano dell’uomo.
Al di là della mano dell’uomo, la pelle dell’animale.
Un solo fuoco a scaldare tutto.

Ricordo le strade arancioni, la città delle quattro del mattino.
Il freddo a congelare le vibrazioni appese alle mie labbra.
Possibilità di esprimermi limitata, coscienza a briglie sciolte.
“Quella notte hai parlato di me come se mi conoscessi da una vita”.
Quella notte ti conoscevo da tutta una vita.

Attraversare l’oblio in retromarcia.
Le illusioni e i desideri che si trasformano in certezze.
L’abbraccio del vento che diventa concreto
Cosa diventerò domani?
Quale pezzo di me ormai abbandonato mi accoglierà?

Stamattina ho spaccato legna per tre ore con mio nonno.
Poi quando la brina si è sciolta lui è partito con un bastone.
E’ tornato mezz’ora più tardi, poco prima delle campane di mezzogiorno.
Mia nonna come al solito è uscita incazzata a cercarlo, quando il sugo era già in tavola.
“Lavati le mani”, mi ha detto mio nonno.
“quella che rimane la spacchiamo domani”.

Ieri invece, dov’ero ieri.
Ieri è un concetto ancora un po’ difficile da ubicare.
C’è uno “ieri” fatto a linea continua e un altro sempre più piccolo, laggiù in fondo.
C’è uno ieri anche in questa notte, qui a Viola.
C’è uno ieri in quel che verrà.

Poi il patio di Kiki, una coperta di scritte, Granada.
La fisionomia di un sentiero, intravisto dall’alt(r)o.
La geografia di un’anima, i suoi elementi naturali.
Sei tu il padrone del tuo destino. Prenditelo.
Sei tu il padrone del tuo destino. Prenditelo.

E così tutte le cose iniziarono cantando
e non era la voce di tua madre, quella che sentivi, là dietro.
Non sei neppure sicuro che fosse, in fondo, una voce.
Ma tutte le cose iniziarono cantando.

duemilaeboh


01 Gen

Le immagini

Le parole

La musica

sono

         Femmina.

Il Castagneto Acustico


03 Mag

Il Castagneto Acustico è un esperimento che nasce dalla necessità di recuperare ogni forma di spontanea semplicità.

Più in là della burocratizzazione e della prevedibile ritualità che sta alla base di ogni forma di socializzazione contemporanea, il Castagneto Acustico insegue l’armonia di un ritrovo fra amici, di un’antica festa di un immaginario paese.

Il meccanismo è semplice: ognuno partecipa apportando quel che vuole, anche solo la propria presenza. I musicisti suoneranno per amore all’arte, i disegnatori disegneranno un logo per amore al disegno, chi vorrà fare il pane farà il pane per amore al pane. L’immagine finale sarà quella di un castagneto immerso nella bellezza di una Natura superiore, che per una notte verrà illuminato da fiaccole a legna e strumenti musicali suonati in acustico. L’energia elettrica è assolutamente bandita: per costruire una festa serve molto, molto meno.

Il luogo di ritrovo è un castagneto sulle Alpi Marittime. Per secoli e secoli, alla fine di giugno la comunità autoctona organizzava la Festa di San Pietro, una notte di danze, musica e vino che sorgeva spontanea dai membri della comunità. Qualcuno andava a cercare nelle altre vallate i musicisti, qualcun altro preparava la “tuma” e il salame, tutti insieme si beveva il vino. Negli ultimi cinquant’anni, il silenzio è sceso definitivo sulla borgata, e oggi i sessanta anziani superstiti ricordano con nostalgia il tempo che fu. Il Castagneto Acustico è rivolto soprattutto a loro.

Sono previsti quintetti di ottoni reali, percussionisti tribali indigeni, duetti di clarinetto di fama internazionale e voci femminili accompagnati da chitarre oniriche. Tutto il resto – l’imprevisto, sottoforma di creatività – è assolutamente benvenuto.

(Per raggiungere il Castagneto Acustico, si consiglia di limitare l’uso delle automobili, ottimizzando la capienza. Esiste un leggendario autobus che parte dalla località di Ceva. Esiste la possibilità di piantare la tenda e dormire nel bosco).

Questo articolo sarà costantemente aggiornato con le ultime indiscrezioni.

Prendi un fiammifero


05 Apr

Oltre ai vari ed eventuali (e comunque tutti giustificati) motivi per disprezzare profondamente i Dik Dik, Mogol, gli Innominati, gli Innominabili, i Camaleonti, i New Dada, i Pù, i Ribelli, gli pseudotali e tutti gli altri, eccone uno più valido degli altri.

Erano gli anni Sessanta, e la S.I.A.E. (Società Italiana Autori Ed Editori) era già quell’ente burocratico farraginoso che continua ad essere oggi. Tra i suoi compiti, quello di distribuire le royalities derivanti dalla musica originale riprodotta per un X pubblico. Eppure, un bizzarro vuoto legislativo non specificava cosa sarebbe successo nel caso di brani scritti da autori stranieri, proprio negli anni in cui esplodeva la rivoluzione giovanile, e il mondo esplodeva trascinato dai nuovi messia del rock.

In Italia, ovviamente, qualcuno fiutò l’aria. Strimpellatori di chitarre, giovani vicini al mondo discografico di Milano, studenti di letteratura inglese intuirono il grande business parassita, e iniziarono a stuprare le grida provenienti dall’Inghilterra o dagli Stati Uniti (che ovunque diventavano colonne sonore di rivoluzioni) con versioni provinciali da oratorio, che distruggevano la psichedelia e la ribellione, che trasformavano “All or Nothing” in “Oggi piango”, che trasformavano l’arte (degli altri) in benefici (propri).

Il traduttore-adattatore percepisce la sua quota di diritti su tutte le utilizzazioni del pezzo sul territorio di competenza della Siae, a prescindere che sia stato eseguito in italiano, in inglese, in qualsiasi altra lingua, o anche senza parole .

Perchè questa era la verità. Per ogni riadattamento in italiano di un testo straniero, il traduttore veniva premiato con la metà dei diritti d’autore che spettavano a quel brano. Ma è curioso notare come questa generosa quota del 50% veniva mantenuta anche quando una radio, una televisione o una sala da ballo trasmetteva la versione originale. In pratica, ogni volta che il grande classico “A whiter shade of a pale” suonava sul territorio italiano, Mogol intascava migliaia di lire, in quanto autore della traduzione italiana.

La conseguenza? Centinaia di successi venivano immediatamente tradotti e depositati presso SIAE da un’élite di furbacchioni, che si accaparavano, così, il 50% delle esecuzioni future. E’ per questo che nei polverosi archivi italiani si possono trovare hits milionarie quali “Mister Tamburino”, tra le altre. Poi qualcuno all’estero si accorse dell’inghippo, e sospese la concessione dei diritti di traduzione per l’Italia.

E a noi rimane un Mogol bello lucido al festival di Sanremo e un’ignoranza che si ripete: cinquant’anni dopo gli innominabili, continuiamo ad essere l’unico popolo al mondo che scarnifica i film con il doppiaggio, piuttosto che imparare l’inglese.

Fonte: Franco FABBRI, “Il Suono in Cui Viviamo” – Feltrinelli 1996

Contro le coverbands


27 Ott

Hot_Space_Queen_Tribute_Band.jpg.bigSe la musica può essere considerata uno strumento efficace per scattare una realistica fotografia sulla situazione culturale di un’intera società-, allora, ancora una volta, l’Italia è definitamente fottuta. Cinquecento anni più tardi di Palestrina, cent’anni dopo Verdi, la musica del cosiddetto “popolo” è ormai quella (scimmiottata) di altri, possibilmente in inglese.

E’ il fenomeno delle “cover-bands”, di quei gruppi di musicisti che si dilettano ad eseguire alla perfezione un pezzo scritto e interpretato, originariamente DA altri e/o PER altri. Con ambigue conseguenze, del tipo: “oh! Ho sentito una cover band dei Nirvana, tiggiuro che il cantante era uguale a Kurt Cobain. E pensa che dopo il concerto si è suicidato in un garage”.
Quando tende verso il parossismo, la cover band si propone addirittura di migliorare la versione originale, la qual cosa, si commenta da sola. (“oh! Ho sentito una cover band dei Led Zeppelin, pensa che il solo di Stairway to heaven era ancora più bello che nell’originale).

Il problema, effettivamente, sta proprio qui. Nel fatto che molte volte i membri delle varie cover bands sono veramente dei bravissimi musicisti, che per qualche inspiegabile motivo scelgono di ripetere all’infinito quattro accordi già ripetuti all’infinito, o, peggio ancora, salire su un palco vestiti come Freddy Mercury.

Perché? Bella domanda. Il fatto che così facendo si guadagni di più, è vero solo in parte. E comunque, ricordo bei tempi in cui i musicisti erano artisti, prima ancora che mercanti. Ma anche ammettendo il discorso del musicista-prostituta, trovo comunque molto più dignitoso ricoprire il ruolo fino in fondo, e suonare il genere meretricio per eccellenza, e cioè il liscio, piuttosto che atteggiarsi da star nelle varie festacce della birra locali per poi cantare Cicale-Cicale, o che so, qualsiasi canzone di Bob Marley o Jimi Hendrix, scritte per ben altri contesti.

La causa ultima, ovviamente, sta nel pubblico. Fedeli alla disgraziata linea del “si dà alla gente quel che la gente vuole” – che ci ha regalato perle come La ruota della fortuna o Il grande fratello, ricordiamolo –, musicisti e gestori di locali organizzano i loro spettacoli intorno alle covers, meglio se ascoltate e strascoltate, per consentire alla pollastra seduta in prima fila di ricavare soddisfazione dal muovere la testa e dire “ah si questa la conosco”, mentre la band suona Another Brick in the Wall, o Il cielo è sempre più blu, che poi viene riconosciuta come “quella della pubblicità”.

La conseguenza è piuttosto evidente. Un popolo che continua ad ascoltare le stesse canzoni, che si afferra al già esistente anziché sperimentare, un popolo che cerca conferme (conferme de ghe?) ed ha paura del nuovo, è un popolo fottuto. Definitivamente fottuto. Artisticamente estinto, culturalmente imbalsamato, socialmente ammuffito e politicamente retrogrado.

L’italia, insomma. L’italia e gli italiani. La più grande tribute-band dei Queen (come gli originali!) è italiana, i migliori scimmiettatori de U2 (meglio degli originali!) sono modenesi. Tutto questo, mentre a Kassel, una città qualsiasi in Germania, ogni sera si presentano in scena concerti rock inediti, e mentre a Bogotà il lunedì come il martedì o il sabato sera si può assistere a spettacolari combinazioni di rock e ritmi latinoamericani, flauti indigeni e musica elettronica, psichedelie audiovisuali miste a free-jazz.

Che fare quindi? Emigrare può essere una soluzione. Sottoscrivere una petizione a Napolitano, un’altra. Oppure presentarsi al prossimo concerto di una cover band dei Pantera, e sparare al chitarrista. Solo per dare un effetto ancora più realistico alla faccenda, ovviamente.

Garage


12 Ott

In bilico su un arpeggio costante, ritmico e cromatico. Hoppipolla. Polifonico. Astruso. Quasi inesistente. Indie, rock. Selvaggio e raffinato. Che esplode in un’apoteosi di violini, che scende giù dalle montagne come un pezzo di mitologia, l’esercito definitivo che ci spazzerà via tutti. Strappami via i pantaloni. Cerca con le tue mani, tra l’inconsistente buio, tutto ciò che ci rimane, una libidinosa voglia di volere. La musica continua, so che non esiste e so che la percepisci anche tu sotto di noi, e non ha niente a che fare con la musica degli altri, là sulla spiaggia. Il problema è la nostra capacità di sognare, di sognare con un domani, e non c’è altra possibilità se non cercarsela tra le tue gambe, quest’alba che non arriverà mai. Non è più tempo di ideologie, divagazioni su come distruggere il mostro che si rigenera, lettere scritte agli amici per comunicare che effettivamente dio non esiste. Tutto ciò che ci è rimasto è un buco lungo la strada verso il mare, un aborto di garage abbandonato a sè stesso, per cercarci in mezzo al buio. E un pezzo di stoffa bianca a separarti da me, a separarmi da te, a separarci da noi.

Classifica delle canzoni più vendute e ascoltate sul web, in italia, nel mese di agosto 2010


03 Set

1. Alessandra Amoroso – La mia storia con te
2. Shakira – Waka Waka
3. Eminem & Rihanna – Love the way you lie
4. Lady Gaga – Alejandro
5. Fabri Fibra – Vip in trip
6. Modà – Sono già solo
7. Ne-yo – Beautiful Monster
8. Mika & Redone – Kick ass (we are young)
9. B.o.B. – Airplanes (feat. Hayley Williams)
10. Katy Perry – California Gurls (feat. Snoop Dogg)

L’eterna lotta tra il bene e il male


16 Ago

Concerto di Ferragosto I

Montagne denudate del loro intimo silenzio, sacrilego rituale pagano non peggiore di altre barbarità valligiane [i centri commerciali traboccano. Umanità bambina].
I moderni pellegrini inseguono sulle cime più alte la chimera di una diretta televisiva, “esserci” significa “essere là dove si spingono le telecamere”, esistenzialismo applicato alla realtà contemporanea.
A lui comunque tutto questo non interessa.
E’ lì per la musica, la voce del passato invisibile nel tempo.
Lo speaker radiotelevisivo esagera gli intervalli tra suono e silenzio, frenesia del piano di sotto in contrasto con ritmi d’altura, tradizionalmente, lenti.
Donizzetti, Mendelssohn, Rossini. Dove giocavano già più? In un’epoca in cui l’arte primeggiava sullo spettacolo, e il re stringeva uno scettro e non un microfono.
Le montagne, comunque, sempre uguali. Sempre lì, millenarie.
Lo speaker esalta aforismi di patria e bandiera, eppure per lui gli unici eroi possibili indossavano parrucche bianche e vestiti a fronzoli, romantici simboli di rinascimenti perduti.
A contraddire lo speaker comunque ci sono le casette militari. Pietre su pietre, sangue su sangue, pietre su sangue. La montagna non ha pietà per i labili confini dell’uomo. Sessant’anni dopo l’ultima carneficina, la montagna tutto cancella e niente perdona.
E poi comunque ci sono le aquile, i fiori, le nuvole, il nulla. Un frammento di neve che resiste al grigiume di un mare di pietre, prolungata agonia di un’estate che in extremis vincerà.
L’uomo della televisione comunque continua a parlare, la sua dialettica stordisce e colpisce. Molesta e attira. Irrita e anestetizza. Distrugge, conquista.
La musica propone e s’impone. Insinua ma non obbliga. Illude e svanisce. Dignitosamente vince, è eterna.

Foto di Elianto Blu

111


14 Ago

…smisero di far l’amore
smisero anche di scopare
smisero di dormire insieme
e smisero di chiacchierare…

Marlene Kuntz

Diary of a Baltic Man

Real Eyes. Real Lies. Realize.


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