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Abor


11 Set

Quanti amori nati e finiti nello spazio di un pranzo. Nell’attesa di un bus, in una città di polvere e pietre, quattro occhi incollati tra loro in un gioco di sguardi che non potrà mai evolvere in nient’altro. La tentazione e l’invito, il tormento ed il rimpianto, l’inganno e l’illusione. Quattro attimi spesi a giocare col fuoco, a leggere i segreti di un’altra vita lontana, scrivendo nell’aria la scia della propria personalità o di un qualcosa vagamente simile al desiderio di calore dell’umano animo, celebrando una tacita unione carnale destinata ad esplodere in un altro chissà, in altri luoghi ed altri perché.

Quanti amori abortiti al settimo mese.

Déja-vu


18 Feb

L’aria si fa rarefatta. Il respiro risuona nelle orecchie, poi nei timpani, da lì nel sistema nervoso e si trasmette ai muscoli e li contrae in direzione-spasmo. E il cuore è un muscolo, il cuore reagisce, il cuore accelera i battiti e li esalta e li esaspera e si converte nel motore stesso del meccanismo in atto, del processo inevitabili.

I timpani fuori uso riducono all’effetto sordina le voci del mondo di fuori. E’ una specie di autodifesa del corpo umano, un invito a nutrirsi di emozioni e rigettare il superfluo. S’ingozza lo spirito nella bulimia di eccitazione e timori, l’assimilazione è totale e l’accumulatore al limite. Un leggero strato di armonia sintetica avvolge e protegge l’equilibrio raggiunto.

Calci e pugni contro i pessimismi. Anatemi e domande rivolte al Destino, ed il Destino che smette di essere un’invenzione dei poeti e scende nel mondo fatto di uomini e bulloni. L’ennesimo bacio di addio appoggiatosi su  guancie ormai inaridite da strazianti partenze e nebulosi arrivi.

Martedìmattinaore11.54


23 Dic

Viaggiare non è vedere Kathmandu. Viaggiare è sognare Kathmandu.

Kundera nella valigia


12 Nov

Partire per un viaggio è una sensazione di insostenibile leggerezza dell’essere.

Una mirada hacìa atras


30 Ago

Viajar es libre melodía del alma. Es un grito silencioso, un animal migratorio, un lento existir. Una universidad donde los profesores son compañeros y los compañeros libros, allí se escribe y allí se lee. Es dejar rastros de un pasaje, sea algo inmortal o suave neblina. Ser en el mismo tiempo fotógrafo y modelo. Viajar es, los decía el Gran Khan, “tomar el agua de una tierra nueva”. Aprender a reconocer los distintos sabores del pan y del queso, de la música y de la poesía, despertándose una mañana tal vez panadero tal vez poeta. Endurecer la espalda en los suelos de autobuses llenos, llenando hojas bajo los ojos de una gordita que te cree sicópata, escribiendo contra el tiempo que viajar es encontrar tus origines allá donde menos pueden estar. Que es conocerse en Bielorrusia y reencontrarse en Armenia, una de las muchas Armenia de este mundo. Viajar es descubrir que hay otras Armenias. Es una forma hedónica del conocimiento. Una mochilla en una playa, una playa en una mochilla, una mochilla y una playa en la cumbre de una montaña. Viajar es Priviet diebucka let’s go together a quattro mani, si vous voulez, kita vakara sangrienta y fría. Es una estación de un pueblo lejano perdido y embalsamado, donde en sus binarios todo comienza y todo termina. Una comunión pagana y un dedo medio hacia las convenciones. Una religión sin fieles ni dioses, sin guerras santas ni diablos imaginarios, sólo una grande misa continua contra diablos disfrazados de palabras venenosas como “Patrias” o “Naciones”. Viajar es una aventura que se cumple en un cuarto, transformando la ventana en ventanilla y las hormigas en animales exóticos, para una hora una vida o quizás dos. No es Baltic Man, ni Caribbean Man, sino una entidad que se cumplirá, un día, en Atlantis. Viajar es despedirse de este Mar de Caribe, de este Sur América, de este todo.

Viajar es abrir una ventana sobre el mundo. Es la curiosidad de llegar donde terminan las carreteras. Descubrir que se esconde mas allà de las montañas. Atreverse hacia el imprevisto. Aceptar el desafìo del desconocido para alcanzar las orillas de la tierra.

Viajar es perderse, sacerdotre solitario, en un exilio voluntario, y encontrar en el camino amigas, amantes, novias, concubinas y putas, hasta reconocer en dos ojos, finalmente, la verdadera Compañera de Viaje.

Illusione a fari spenti


18 Ago

Piove. Pioggia: acqua santa che scende dal cielo travestita di maledizione: appare sempre quando meno serve. Per esempio quando è in giro sulle Ande in bici. Lo zaino è una roba che esplode. Sette mesi di vita vi sono rinchiusi dentro e sette mesi di vita – di questa vita, questi sette mesi – sono materiale esplosivo. Non è colpa dello zaino. Il Venezuela non vuole Chàvez. Lo chiamano “dittatore”, da queste parti, però lo dicono a voce bassa accertandosi bene che nessuno li stia ascoltando. Viaggione, uno s’immagina i caudillos sudamericani anni ’70 dimenticandosi che il presunto “dittatore” ha perso un referendum costituzionale l’anno passato, per giunta di un pelo. Pagliaccio è la parola, dittatore suona forte e inflazionato e comunista. Maracaibo, quella della canzonetta da discopub estivo italiano, è una città industriale e petroliera e sporca, ma soprattutto, delusione delle delusioni, si chiama Maracàibo. Con l’accento sulla “A”. Quante generazioni di persone ha rovintato la Carrà. Le radio suonano come in Colombia e vomitano reggaeton. Mèrida, invece, profuma di Svizzera e sa di SudAmerica. La benzina, postilla fondamentale, in Venezuela costa 30 centesimi di euro al litro.

In conclusione, però, tutto questo è una cazzata. Pura mercanzia mentale, sensazioni impressioni e pensieri di un ubriaco, e vedi che domani si dimentica tutto. Un Discovery Channel davanti agli occhi, un inutile contatto msn che ti dice cose invisibili, un falso secondo di gioia. Sulla pelle, tra i capelli, stretto tra le dita, conficcato in una pupilla, dentro un’orecchia, nelle tasche, nell’organo pensante e nell’organo pulsante, in ogni poro, in ogni poro, in ogni poro, c’è la mia Colombia, c’è lei, c’è me stesso.

Amarcord


25 Lug

La tua gente, i segnali di fumo di un Pellirossa, un’Aquila addormentata nella mano. Sto davvero pensando all’evidente sudditanza dello “scrivere” nei confronti del “dimenticare”, e da lì mi inoltro in ingannevoli circoli mentali troppo più veloce delle dita.

Strano davvero il viaggio erratico, a queste latitudini. Il caldo fertile rimpingua i rigagnoli dei sentimenti. Nella stanza a fianco si sentono voci indistinte, amici di amici improvvisano un poker e ne distruggono il sottostante tavolo. Risuonano accenti paisa. Al loro fianco, mi immagino una nativa, immersa nel mondo virtuale in cui si è racchiusa, camminare gomito a gomito con la sua vecchia amica “sé stessa”. Dietro lo schermo passeggia un suo possibile futuro vedovo e lei se lo lascia scappare. Leo cammina a testa alta sopra il filo sul burrone.

-“Dopodomani alle 7 del mattino dovrò prendere il taxi”.

-“Aaah non farla drammatica. Stop that. Tutti hanno preso un taxi per partire pieni di tutto dopo la loro festa d’addio. Una volta Benat è anche riuscito a fermare l’unica taxista donna del sud america, una tettona che non ha mosso un dito mentre lui moriva sotto tonnellate di valigie”.

-“Tu non capisci. Nessuno ha mai dovuto prendere un taxi per finire in un terminal per finire in un bus di venti ore per finire in un bus urbano per finire in un aereo per la Spagna per finire a TORINO. Tu non capisci”.

Urlano di qua ed urlano di là. Sento dietro la porta gente correre fuori dalle vie della ragione. Dietro di lui qualcuno piangendo ride e parla di peperoncino negli occhi. Ma Leo non se n’è accorto, ricollega le logiche delle sue verità:

“Praticamente prendo tutto sto casino di aerei e bus e navi e treni per finire su uno scivolo che conduce direttamente nella merda”

D’improvviso capisco. Rivedo, come in una serie di fotoflash, la cronologia del nostro cammino, ritrovo frammenti di etereo ricordo spersi tra le brezze di savona e le tempeste delle nostre provincie, annego nel trago amaro che questa notte ci tocca. Ombra costante, aleggiano melodie di fado portoghese. Ricordo il tempo in cui tornammo a casa – quale casa? – ebbri, sbranando anguria e mango mi confessavi la spinta definitiva che ti ha trasportato su queste terre. Ci ripenso ora scrutando le facce qua riunite, nascosto in mezzo a altre stronzate ritrovo un po’ d’orgoglio, un qualcosa di cui andar fiero d’aver condiviso con loro.

Te ne vai e per la prima volta il piccolo mondo di questa grande città addormentata sui caraibi si ferma. Non ho mai visto questa casa inondata dalle lacrime, né ho ritenuto logico piangere sopra un qualcosa macchiato di reversibile. Eppure i muri urlano silenzio, in questa prima notte vedova del tuo spirito. Da oggi non esisteranno più parole né tacite intese, il logico ritornerà a distinguersi dall’illogico, non ci saranno più donne né assurde storie di donne in quest’eterna primavera. Un mutismo androgino e solitario scenderà sulla vita a delirio e caffè.

Ciao Amico mio, compagno di Viaggi.

Diary of a Baltic Man

Real Eyes. Real Lies. Realize.


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