Archive for the ‘Sud America’ Category

Popol Vuh


16 Apr

La selva come presenza, come entità. Esiste sottoforma di suono, una nota lunga e grave che sembra non finire mai, un coro polifonico come nelle cattedrali di legno e di pietra, nel milletrecento. Guardala e giudica, e dimmi se non la temi. La selva è qualcosa più che la terra, qualcosa meno dell’acqua, è un mondo simbolico che non entrerà mai nella finestra.

Radio Esperanza


13 Apr

Capita anche di incontrare qualcuno interessato di America Latina, ed allora segnalo questo link, un’agenzia di informazione alternativa o di controinformazione  o semplicemente di informazione, quella che di solito gli altri giornali non pubblicano.

E’ in spagnolo, ed è già qualcosa. Potrebbe essere in Kitchwa.

p.s. Questo post ha la sua anima occulta.

La mia personale candidatura al premio nobel per la Pace


02 Apr

Pierino ha sessantun’anni e viene dalle montagne di Bormio. Un personaggio piuttosto conosciuto e presente in qualsiasi paesello italiano, uno di quei bravi signori che si sono costruiti la casa con le loro mani perché sono un po’ idraulici, un po’ falegnami, un po’ muratori e un po’ tutto.

Pierino ha lavorato tutta la vita in un’azienda pubblica, é diventato padre e poi nonno. Ha visto l’Italia cambiare velocemente, troppo velocemente, e non sempre in meglio. Poi é andato in pensione, e ha deciso che c’erano ancora tante cose utili da fare, o meglio: che era giunto il momento di fare qualcosa di utile.

Cosí é partito con lo zaino in spalla, come un ventenne. E’ arrivato in America Latina, ha attraversato per settimane intere la Bolivia in solitaria, ha imparato lo spagnolo. E adesso collabora con una ONG di compaesani valtellinesi, gente come lui che ha deciso di dare un senso alle cose facendo qualcosa di utile.

Passa i suoi giorni, Pierino, in mezzo alle montagne d’Ecuador, costruendo scaffali per la scuola prossima ad inaugurare, aiutando dove c’é bisogno. Senza pretese. Anche perché, come dice lui, “se aiutare significa ridurre questa gente a correre come é successo da noi, molto meglio sospendere tutto e tornare a casa”.

Questa è una fotografia


17 Mar

Harold, capelli neri e occhi nobili, accento paisa. Vive nella strada, i suoi occhi sono gli occhi di chi ha voglia di chiuderli per un momento, e nascondersi dalle luci della città. Impossibile. Ci riesce con i suoi disegni, a nascondere con la mano la parte brutta delle cose, come si fa avvicinando una mano a cinque centimentri dalla pupilla, la parte marcia rimane coperta e si vede solo una striscia di mondo. Ha la pelle chiara ma anche scura, dipende dai punti di vista, e si sa che i punti di vista sono importanti in una terra dove è meglio mettersi la crema solare per evitare di diventare troppo neri. Harold è nero perchè la strada. Perchè dorme su un cartone nella 73 con 55, lì dove cinque anni fa c’era un parco e adesso ci stanno costruendo la fermata del TransMetro. Eppure sono una brava persona, però tu sai come vanno le cose, io comunque non sono di qua, però è un piacere averti conosciuto, di fronte al Carrefour di solito la gente ti guarda piuttosto male, e invece io voglio solo vendere la mia arte, sai, io la chiamo arte perchè è una cosa che faccio io, che la faccio io e la faccio così e non so nemmeno perchè, forse perchè mi piace così. Però ti guardano male, non so come sia nel tuo paese però qua la gente è razzista, è classista, c’è la società dove devono essere tutti uguali però non possono, sai questo è un paese che ha molti problemi eppure è bello, si sta bene, la gente è felice e sono felice anch’io.

Poi siamo andati al cinema. C’era un film strano, non si capiva se eravamo noi a guardare gli attori attraverso lo schermo, o viceversa.

Intervista a Marlon Santi


18 Feb

Si era parlato di Sarayacu, anche se sono cose che poi non si prendono troppo sul serio. Indigeni, avanguardie, amazzonie: concetti lontani. Terzo millennio, pachamama, armonia. Non vanno piu’ di moda.

Eppure Peacereporter pubblica un articolo che scrivemmo (il plurale e’ una roba lunga da spiegare) in un internet cafe’ a Pereira (Colombia), in un disgraziato pomeriggio di Feria de los Toros. Marlon Santi, il personaggio intervistato, e’ uno dei piu’ giovani e brillanti dirigenti indigeni di questa nuova America. Osservando la storia di Evo Morales, c’e’ chi pronostica per Marlon – classe 1976 – un futuro di primo piano, ricordando comunque che il 40% degli Ecuadoriani e’ indigeno.

Ecuador. Un concetto lontano.

Sandro de América


21 Gen

Non è alegria, non è baile, non è violencia il filo conduttore di questo gran continente latino. L’uomo comune, il simbolo di un unico grande popolo è (era) un cantante argentino, tanto sconosciuto in Europa quanto popolare tra le sue genti: Sandro de América. A Buenos Aires come a Bogotà, in Chile e in Ecuador, nelle case del pueblo così come nei giradischi dei ricchi, Sandro alias el Gitano è la costante sempre presente, il simbolo d’identità. Giuro di aver visto metallari alcolizzati mettere le mani avanti, come per dire “no. Sandro non si tocca”, ed intere famiglie ascoltare i suoi dischi in macchina, la domenica. Al punto che, per comodità, ad ogni incontro con sconosciuti, ho imparato a presentarmi “Sandro. Come il cantante”.

Le ragioni del suo successo? Era bianco, era argentino, era il cosiddetto “figo”. Era dotato di una voce impressionante (“la voz”), e di una grande abilità nel modularla a seconda dell’interpretazione. Pioniere del rock nel sud, si convertì presto in una stella della musica melodica, dopo una rapida stima in termini di profitti economici. I suoi dischi furono i più venduti negli Stati Uniti, tra i latinos, e la sua carriera sfociò presto nel cinema. Impressionante il delirio che gli tributavano le fans, di ogni epoca ed età.

Consumato dal tabacco e dalla vita, il 4 gennaio la Voz de América se ne è andata (difficile dire é passato a miglior vita). La cosa assurda, in tutto ciò, è che non si chiamava neppure Sandro. I funzionari del Registro Civile, nella Buenos Aires degli anni ’40, lo avevano considerato un nome illegale.

Fragmentos de Quito


15 Gen

Quito es una mochilla llena

Quito es una mochilla llena. Trajes multicolores, niños colgando de las espaldas de sus madres, rostros de América. Bibliotecas blancas y atardeceres de altura, Quito es la larga trenza negra de la viejita en el trolebus. Seco de chivo, jugo de viaje, olor de tiempos antiguos en las calles sin luz. Pero tambien montañas y cielo, perros callejeros y miles de pieles, este eterno flotar entre la linea de los dos hemisferios, los graffitis fuera de la ventanilla, las siete de la mañana caminando hacia el mercado de San Roque. Quito es una mochilla llena.

Quito desde la ventana de Guayasamin

Como en un cuadro dinámico, sus colores se mueven a paso continuo, y hay quien dice que hasta la noche y el día se alternan en el lienzo, respetando los ritmos del cielo. También el sujeto va cambiando: la imagen de hoy ya no es la misma de ayer. Culpa del tiempo, que ha añadido elementos al dibujo inicial, así que el verde de las montañas se fue manchando de gris. Lo cierto es que, en su Capilla, el gran pintor quiso enmarcar en un vidrio la obra más complicada, la única que no es suya porque es de todos.
Meteoras

Hijo de un jaguar y padre de hijos olvidados, habla a los pájaros y canta con los espiritus, aunque el ruido de la ciudad lo encierre en un solitario silencio. Su tatarabuelo era un gran chamán del tiempo perdido, y vivió casi 120 años. No me dijo su nombre porque no tenía alguna importancia, pero se despidió regalandome una de las plumas más bellas que haya visto nunca, verdes como la selva. Y después se bajó del bus para hundirse en un mar de miles y miles de otras historias, todas reales y absurdas como la luna.

Una tarde en la Biblioteca Nacional

El silencio del edificio era su ausencia de luz artificial. Bajo las obligaciones de un tiempo de crisis, jóvenes hombres y jóvenes mujeres gozaban a la luz de la tarde de su oasis de paz. Había quien descubría la lucha de los abuelos, y quien se dedicaba a escribir el futuro. Rostros particulares, exóticos, los volcanes y la selva y la sierra y miles de años de sol del ecuador se materializaban todos en sus caras, y me fascinaban. Después volví a mi libro. Contrariamente a cuanto uno imagina, las bibliotecas no se parecen todas.

Viajando por Colombia


09 Gen

Este gran jardin lleno de frutas y de colores y de caballos y de cafè y de mangos y maracuja, este gran jardin cercado por kilometros y kilometros de alambre metàlico, este gran jardin que sube y que baja se moja y se seca se calienta se enfrìa se llena de flores, este gran jardìn de flores coloridos como las pieles de su gente, este gran jardin de montañas y desiertos, cuevas y sol,  rìos y mares y rìos como mares, que parece mojarse en la humedad de su tròpico para despuès secarse a la brisa de la noche, este gran jardìn rojo y azul porquè el amarillo de su bandera se lo llevaron todo con barcos y ferrocarriles, este gran jardin donde el arte està en el aire y los viejitos te hablan en el bus, este gran jardin tan igual y tan distinto, tan rico y tan pobre, paraiso de la naturaleza y infierno del hombre, tendrà algun dìa un pueblo que sepa sentarse sobre su hierba, y gozar de èl?

Avanguardie selvatiche


03 Gen

La Comunità Indigena di Sarayaku non è il posto migliore del mondo solamente perchè scarseggia di buon vino. Eppure poco ci manca, perchè questo pezzo d’utopia nascosto nella selva, occulto al conquistador ed ostile al missionario gesuita, ha saputo raggiungere a piedi scalzi il terzo millennio carico di grande forza innovativa.

Basti immaginare il contesto ambientale. Una distesa di verde grande quanto un continente, questa selva Amazzonica che è tutto ciò che ci resta, di cui Sarayaku rappresenta l’ultima frontiera “civile”, prima di perdersi nel regno dei giaguari e dei selvaggi. Il fiume come unica via di comunicazione con la prima città, lontana cinque ore di canoa, se la canoa è a motore. L’aereo (un precario modello da cinque passeggeri + pilota) come mezzo alternativo, e può capitare di aspettarlo per giorni (ed infatti è capitato).

L’unico supermercato disponibile è la Naturaleza. PachaMama, in lingua kitchwa. Pesci e carne a completare una dieta a base di yuca, e la chicha ad innaffiare le feste (e qua si sente la mancanza del vino, soprattutto quando si scopre il processo di produzione della chicha). Un vecchio capo indigeno è il saggio della Comunità, e la sua parola deriva direttamente dall’acqua e dal cielo, si è tramandata nelle generazioni attraverso la carne ed il verbo orale, ed ha raggiunto una saggezza alternativa e completamente indipendente alla scienza dell’uomo bianco.

Eppure Sarayaku è Terzo Millennio. Le sue capanne di legno e palma sono adornate dai pannelli solari; le scuole del villaggio dotate di internet. L’organizzazione politica, una storia felice. Uomini e donne, spinti dal buonsenso e dalla conoscenza delle leggi dell’uomo, nel 2003 si sono resi protagonisti di una grande vittoria contro le multinazionali del petrolio (tra le quali, Agip, ma questa è una storia a parte) che li ha portati alla ribalta del mondo di fuori, fino a creare un importante precedente per un’America Latina costantemente violentata nelle sue parti più ricche.

In un momento di nobel per la pace smarriti ed inutili Copenaghen, la Comunidad di Sarayaku rappresenta l’esempio per un continente intero, e forse anche qualcosa di più. Orgoglio, coscienza, tradizione, tecnologia, radici, ecologismo, spirito comunitario sono elementi tanto reali quanto il verde delle foglie, in quell’angolo di mondo lontano dal mondo. Un posto perfetto per imitare, o per nascondersi, quando la battaglia sarà completamente persa.

Natale selvatico


21 Dic

Uno tra i tanti possibili. Nella selva amazzonica, comunità di Sarayacu, simbolo di lotta di difesa della Pachamama da chi vuole continuare a tirar su petrolio nonostante i tempi incerti. Due bottiglie di vino nello zaino, cinque o sei ore di canoa e un autoctono dai capelli lunghi un metro. Non servono ciccioni vestiti di rosso o bambini vecchi duemila anni per festeggiare il natale.

Poi, per chi non sa cosa fare, c’è un articolo su Peacereporter.

Diary of a Baltic Man

Real Eyes. Real Lies. Realize.


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