Archive for the ‘Purple Castle’ Category

Il festival


23 Apr

Dalle mie parti si faceva un bel festival.
“Come a Woodstock, ma si mangia meglio”, era il sottotitolo.
Tanta gente, musica, qualcosa da fumare, birre. Musica. Molta buona musica.
Un gruppo di ragazzi ci si metteva giù d’impegno, lavorava un anno intorno a questioni burocratiche e artistiche (soprattutto burocratiche), coordinava e mediava con tutto ciò che c’era da coordinare e mediare, stringeva tra le mani le redini di infiniti fastidi. [nella settimana successiva al festival, questi volontari rastrellavano metro per metro boschi e prati, perchè nessuno poteva permettersi un sistema migliore per ripulire il mondo da bicchieri di plastica e rifiuti vari].

Io ho conosciuto il festival in una delle sue prime edizioni. Era una piazza di paese con una tensiostruttura verde, qualche bancarella qua e là, salsicce e birre artigianali vendute da quattro o cinque porchettari, poche persone il giovedì notte alle 2. Ci sono ritornato qualche anno più tardi. La piazza è diventata l’intero paese, la bancarella è un’area enorme di scambio e ricambio, e per mettere qualcosa sotto i denti era necessario aspettare 40 minuti, anche perchè i cibi funzionavano secondo la logica del “chilometro zero”. Il festival è diventato il festival gratuito più importante d’italia, e chiamava persone di ogni tipo e provenienza – includendo famiglie con bambini al seguito.

Semplicemente, il senso stesso del festival è esploso. Decine di migliaia di persone hanno iniziato a frequentarlo, un po’ per noia un po’ perchè ci van tutti, forse per la musica e forse perchè le belle figliole. Il festival è esploso, ed era la cosa migliore che potesse accadere. Perchè il festival significa soprattutto “condivisione”. Aria buona, un po’ di ore – o un po’ di giorni – da trascorrere in mezzo a stimoli e iniziative, avanguardie musicali e librerie indipendenti, venditori di marmellata artigianale e sconosciuti o conosciuti da incontrare.

Le autorità hanno reagito con autorevolezza: cagandosi addosso. Tutta questa gente che si riunisce e si diverte, hanno pensato, potrebbe diventare pericolosa. Qualcuno potrebbe drogarsi, qualcun altro potrebbe fare danni, la situazione potrebbe diventare ingestibile. Potrebbe: terrorismo preventivo. Da un paio d’anni almeno i signori Autorità hanno tentato in ogni modo possibile di mettere paletti burocratici sui fogli in cartabollata che legalizzano il festival. Quest’anno sono stati più risoluti: quel festival non si può più fare, hanno detto. Qualsiasi cosa, ma non più quel festival. Vi daremo soldi per fare laboratori e piccoli eventi. Vi sosterremo se vorrete creare un “parco a tema”. Ma tutti insieme, così tanti, così insieme, perdio, non trovatevi più. Ci fate paura.

Ci fate paura.

90 anni dopo


06 Mar

“Quelle che che amo di più sono le persone che possibilmente non abbiano fatto neanche la quarta elementare, cioè le persone assolutamente semplici. Non lo dico per retorica, ma perché la cultura piccolo borghese, almeno nella mia nazione (ma forse anche in Francia e in Spagna), è qualcosa che porta sempre a delle corruzioni, a delle impurezze. Mentre un analfabeta, uno che abbia fatto i primi anni delle elementari, ha sempre una certa grazia che poi va perduta attraverso la cultura. Poi si ritrova a un altissimo grado di cultura, ma la cultura media è sempre corruttrice”.

Pier Paolo Pasolini

Geronimo Carbonò


06 Gen

Perchè?

Perchè la crisi.
Perchè la crisi, e il mondo cambia.
Perchè la crisi, e il mondo cambia, e succedono cose.
Perchè la crisi, e il mondo cambia, e succedono cose strane.

Geronimo Carbonò è una maschera. Una scusa, uno sbaglio. Un nome e un cognome rubati alla storia, un nome e un cognome dimenticati dalla storia. Il nostro nome e il nostro cognome, “nostro” di un noi aleatorio e infinito, labile e confuso, concreto.

Geronimo Carbonò ha voglia. Di fare, di distruggere, di andare avanti e tornare indietro. Ha voglia di fare l’amore in maniere strane, a lume di candela o con cera incandescente che gocciola sulla pelle. Ha voglia di analizzare e manipolare, stimolare e svanire, sognare di partire per poi tornare.

Geronimo Carbonò sono occhi, mani, piedi, meraviglie e sudori. Persone diverse, persone. Profondamente sbagliate, intimamente simili, contraddizioni univoche disperse su mille pianeti diversi scaldati da un unico sole. I nomi e i cognomi che si nascondono dietro la maschera di Geronimo sono frutto della fantasia di uno scrittore annoiato.

Geronimo Carbonò è musica, immagini, parole. Fondamentalmente, è bugia. Geronimo Carbonò è una bugia, raccontata a fin di bene. E Geronimo Carbonò è un’utopia, un tempo senza spazio, un qui che diventa adesso quando Geronimo Carbonò è.

E poi Geronimo Carbonò è anche un’Associazione Culturale. Così dice la legge. Che poi non è così male, perchè “Associazione” significa “unire insieme”, significa tanto, significa tutto, mentre “culturale”…. beh.

Ma Geronimo Carbonò è soprattutto tutto il resto. Quel che rimane da fare, quel che ancora deve essere detto.

Benvenuti a casa Geronimo.

Carne fresca nel congelatore


15 Nov

‎”In Italia, data la maggiore influenza avuta dalla cultura marxista e la quasi assenza di una cultura liberale, si è protratta più a lungo, in una parte dell’opinione pubblica e della classe dirigente, la priorità data alla rivendicazione ideale, su basi di istanze etiche, rispetto alla rivendicazione pragmatica, fondata su ciò che può essere ottenuto, anche con durezza ma in modo sostenibile, cioè nel vincolo della competitività. Questo arcaico stile di rivendicazione, che finisce spesso per fare il danno degli interessi tutelati, è un grosso ostacolo alle riforme. Ma può venire superato. L’abbiamo visto di recente con le due importanti riforme dovute a Mariastella Gelmini e a Sergio Marchionne. Grazie alla loro determinazione, verrà un po’ ridotto l’handicap dell’Italia nel formare studenti, nel fare ricerca, nel fabbricare automobili.” [Mario Monti 2 gennaio 2011]

Berlusconi siamo noi


09 Nov

Maschere e identità

Quel che dispiace è sapere che non è servito a niente, che da domani ci sarà comunque sempre qualcuno più furbo e più bello, che dopodomani i colpevoli saranno stati gli altri, che tra dieci anni berlusconi non l’avrà votato mai nessuno. Non saranno serviti a niente le contraddizioni tra puttane e vaticani, l’uso criminoso della televisione giustificato dai milioni di italiani che hanno continuato a subirlo in silenzio, il bieco razzismo e l’evidente presa per il culo collettiva. Tra dieci anni tutto sarà parte di folklore nazionale, berlusconi sarà diventato un sorriso e un “io l’avevo detto che”, ogni tipo di prostituzione etica sarà giustificato in cambio di 3000 euro al mese, il suo modello di “classe dirigente” continuerà ad essere l’unico esistente, agli italiani non importerà sapere che le loro “forze dell’ordine” continuano a commettere omicidi di stato ma continueranno ad interessarsi di partecipazione politica solo quando vedranno minacciato il portafoglio. Non saranno serviti a niente questi ennesimi anni di mediocrità culturale, l’evidente caricatura che siamo diventati, di fronte alle nuove generazioni degli altri europei. Il pubblico continuerà a parlare come parlano sui treni oggi, la cosiddetta “critica” non faticherà ad adeguarsi ad un nuovo leader da adulare (presentando fattura), e continueranno ad essere pochi quelli che hanno realmente frequentato Pasolini. Non servirà a niente pensare che è stato solo uno sbaglio: la storia si ripete, e difficilmente agli italiani capita di volerci mettere le mani sopra, per migliorarla.

“Dunque siate radicali: voi lo sapete, tra i vostri conoscenti, tra i vostri amici, tra i vostri parenti, chi ha supportato il Sultano. Non dimenticatevene: quando non comanderanno più, non ci dovrà essere compassione per queste persone, che sono responsabili fino alla loro ultima azione pubblica (compiuta per convenienza, per malafede o per ignoranza – non c’importa). La democrazia sembra funzionar meglio laddove è coadiuvata dalla riprovazione etica verso i suoi pervertitori, no?”

(Il Professor Morte)

Per quanto me ne intendo


06 Nov

Tra il 2009 e il 2010, per un paio di semestri, mi è capitato di insegnare la lingua italiana in un’università colombiana.
Il lavoro più inutile del mondo, a quanto pare. Vanificato e azzerato dalle logiche perverse che stanno dietro alla “lingua”, quando questa viene convertita in strumento politico.

Tra i miei studenti – “clienti”, secondo il linguaggio in uso in quell’ateneo privato – c’erano ragazzi con cognome italiano, studenti di storia dell’arte che sognavano di vedere Firenze e Venezia, ma soprattutto c’erano studenti del terzo millennio che, come tutti i loro colleghi qua e là per il mondo, ambivano a passare un semestre universitario in Europa, attraverso le decine di programmi di interscambio esistenti nella nostra epoca globalizzata.

Il grande inghippo, anomalia nel sistema, era rappresentato da Dante Alighieri. Non il Sommo Poeta padre della lingua, ma i suoi nefasti discendenti più lontani, l'”Istituto Dante Alighieri di Bogotà“, che avrebbe dovuto certificare le competenze linguistiche, per autorizzare la procedura di richiesta del visto (nota bene: non per autorizzare il visto, ma per autorizzare la procedura di richiesta del visto, da inoltrare presso l’italica ambasciata). Uno studente colombiano che avesse voluto richiedere il foglio per studiare in Italia, avrebbe dovuto presentarsi a Bogotà (non esistono sedi decentrate), pagare 100 US dollari, e sostenere un “test d’ingresso per il Livello C1”. A niente sarebbe servito addurre motivazioni di carattere logiche (“il motivo del mio viaggio in Italia è proprio lo studio della lingua italiana”), o allegare le lettere di accettazione standard che gli atenei italiani inoltrano agli studenti vincitori di borse di studio tipo Erasmus (“si precisa che tutti gli studenti stranieri beneficeranno di un corso di lingua gratuito”). L’ambasciata di Bogotà, in materia di visti per motivi di studio, è chiara: anche se  lo scopo del viaggio è lo studio, è necessario sostenere il “test d’ingresso”.

Il cinismo trova però la sua massima espressione nel momento in cui il malcapitato studente colombiano si trova di fronte al test in questione, e deve sottolineare in ogni frase l’opzione corretta. Per esempio:

1)    Non ho dubbi che Marco sia/è il miglior specialista in materia.
2)    Per quanto me ne intenda/intendo, è stato un bel concerto

A questo punto, di fronte alla mail dell’ex-studentessa colombiana che scrive chiedendo un’opinione sul suo esame appena sostenuto, si leva lo sconcerto. Quattro italiani, laureati in materie umanistiche, discutono per due giorni le varie soluzioni. Alla fine è un tomo polveroso, una grammatica italiana dalle pagine ingiallite, a decretare le risposte giuste – o meglio, quelle meno sbagliate.

La risposta giusta, l’unica possibile, afferma che è triste vedere come la lingua venga prostituita da becere logiche di pseudopolitica. Di fronte alla “necessità” (?) di limitare il numero di ingressi di stranieri in italia, si pretendono competenze linguistiche che l’80% degli italiani “veri” non possiede.

Canela


07 Set

[Cenni di autoreferenzialità]

Il racconto “Canela”, ispirato dalla storia che ha ispirato Autunno Viola, il nostro documentario ambientato tra le montagne della Valle Mongia.

Canela è un personaggio realmente esistito, un raggio di sole del Caribe insinuato tra pietre e legno, un’anima sfuggente che per un po’ ha scaldato la vita di un branco di vecchi dimenticati dai santi e dalla morte, esseri superiori allo scorrere del tempo. Canela è un personaggio realmente esistito? Rimane traccia del suo passaggio tra le ragnatele e la polvere della casa di quei vecchi contadini, nel colore delle rughe che improvvisamente si scaldano di chi timidamente chiede notizie di lei. Canela è quindi un passaggio che tuttora (r)esiste, è la speranza di un suo ritorno che continua a dare vita a due fratelli ottantenni, è tutto quel che dà un senso alla vita, niente più, niente meno.

Canela. Primo premio al concorso letterario Wine on the road.

Profondo Verde


05 Set

Un raro esempio di Università che funziona.
Un impulso naturale che diventa idea che diventa approfondimento che diventa incontro che diventa tesi di laurea e sfocia in un libro.
“Profondo verde” è un’opera che si propone (che ti propone) di iniziare a costruire il cosiddetto “futuro”, riconsiderando, dalla base, quelle poche certezze (sbagliate?) su cui si è appoggiato l’uomo fino a generare questo mondo in cui viviamo.

La concezione antropocentrista, per esempio. L’idea, cioè, che l’essere umano sia stato posizionato, per volere divino – un dio creato dall’uomo a sua immagine e somiglianza, dopotutto – al di sopra di tutte le altre creature naturali, con pieni poteri di distruggere e sottomettere l’esistente in nome dello “sviluppo”.
E lo “sviluppo”. Termine vuoto, limitativo, ingannevole, termine criminale. Profondo Verde si scaglia contro gli “sviluppi ecosostenibili” vomitati dalle televisioni di mezzo mondo, osservando come l’unico modo per andare avanti sia tornare un passo indietro, almeno fino a quando la “crescita” non si converta in “decrescita”, in nulla più che armonia e sopravvivenza.

Non è materiale rivoluzionario, non dovrebbe esserlo. Miliardi di dita indici si alzano timidamente da decenni, cercando di dire che forse non si è sulla buona strada, che vivere per consumare e consumare per sentirsi vivi non è l’ambizione più grande che si possa perseguire. Ma sono dita di mani nere, nerette e gialle, e la loro opinione è eresia. Dio è bianco, maschio e con la barba lunga, così come i grandi filosofi della Grecia antica, che poi sono i primi ad aver smarrito la bussola, ad aver proiettato l’uomo tra le stelle, dimenticandosi che spesso le stelle sono già parte integrante del pianeta su cui accidentalmente siamo capitati.

Irene Borgna propone così la deep ecology, un movimento filosofico nato nella coscienza di molti intimi e sviluppato, come un libro aperto, tra gli eretici dell’era dello Sviluppo selvaggio. Arne Naess, Alex Langer, Günther Anders smettono di essere i nuovi profeti da seguire a capo chino, e si convertono in imput, in stimoli, perchè ogni essere cosciente formuli la propria “ecosofia”, la propria guida etica per vivere in sintonia con il pianeta. Così come fu all’origine: “syn-tonia”, oscillare alla stessa frequenza.

Tanaria libera!


01 Set

La eterna rivalidad

 

Fermate tutto! Grave errore di fondo nella costruzione della nostra futura e prospera Nazione. Il Po, quel che credevamo fosse il nostro sacro fiume, è un furto di quei ladroni di Milano o di Venezia, l’ennesimo furto di quella gentaglia dell’Est. Sì, sempre il solito Est, quello che da cent’anni non paga le tasse perché evade (e noi lavoriamo), quello che ci sporca con il sangue degli extracomunitari (da quelle parti anno tutti una moglie extracomunitaria ancora più dell’est di loro, i traditori), quello che viene qua a rubarci il lavoro (alla Fiat negli anni Settanta erano tutti immigrati da Padova o Treviso o Vicenza, lo dico io!). L’Est infedele e scansafatiche, che poi se stiamo a vedere sono stati dominati dai spagnoli anche loro, sangue latino, razza grama, l’Est mafioso che già nel cinquecento commerciava con la Turchia, altro che le nostre radici cristiane.

Ci anno rubato il fiume! Se lo sono presi nell’Ottocento, quando uno dei loro dipendenti pubblici ha fatto le misurazioni. Hanno fatto che decidere che la lunghezza del Tanaro deve essere conteggiata dal punto in cui il Tanarello e il Negrone, che sono i suoi due affluenti, si uniscono, poco più su di Ponti di Nava. Non hanno conteggiato i chilometri del Tanarello e del Negrone, no, ci hanno mangiato sopra anche lì. Hanno detto che il Tanaro inizia dove si unisce, forse perchè non volevano ammettere  che il Negrone sarebbe il vero Padre della Nazione. E invece il Po lo contano eccome dall’inizio, fin da dove esce dalla roccia, e questo perché tanto comandano sempre i soliti.

Cosa succede allora? Succede che quando il Tanaro e il Po si uniscono, giù dalle parti di Alessandria, nella bassa, hanno più o meno la stessa portata d’acqua (che poi, se andassimo a controllare bene, sicuramente questi fagnan dell’Est un po’ d’acqua ce la aggiungono, se la studiano tutte, pur di mangiare alle nostre spalle). E allora per decidere quale dei due fiumi è affluente dell’altro, controllano la lunghezza. E già che il Po è più lungo, se non conti quei chilometri che ci anno sempre rubato! Se contano i chilometri dall’inizio del Tanarello o del Negrone, non importa quale perché noi ce n’abbiamo due, sarebbe più lungo il Tanaro. Ce l’abbiamo più lungo noi!

E il Po sarebbe un affluente del Tanaro. E la pianura padana si chiamerebbe Pianura Tanàra. E tutti noi saremmo dei Tanàri, giovani Tanàri, vecchi Tanàri, donne Tanàre, forti Tanàri e Tanàri forti, questi siamo noi! Tanàri! Tanàri! E non padani, e nemmeno italiani. Noi siamo Tanari, e piantatela lì di dire che i nostri avi sono celtici o visigoti, i nostri eroici antenati sono i Liguri, niente poco di meno che Liguri, quell’antico, glorioso popolo che abita le nostre verdi montagne dal 2000 a. C. almeno. Non importa quel che dicono quei comunisti scansafatiche che stanno nelle università, e cioè che il popolo dei Liguri sia stato uno dei pochi a non aver mai sviluppato una scrittura scritta. Noi Tanàri siamo gente che fa, non che scrive!

Lo diciamo non per far polemica, ma perché adesso ci siamo stufati. Prima che sia troppo tardi, prima che stampiamo le monete, le banconote, le bandiere, i passaporti, le tessere sanitarie, le tessere elettorali, le bandiere, i marciapiedi nelle piazze del paese sotto i buoi grassi, i fazzoletti, la carta igienica, le chiese, il nuovo parlamento, i ambasciatori, i ministri, i piatti che danno in regalo al sidis, basta con questa gente dell’est, Venezia ladrona! Milano ladrona! La Tanaria non perdona!!!

Ingannevole conforto


08 Ago

“L’Italia è un Paese dove regna il disordine, il cinismo, l’incompetenza, la confusione. E tuttavia, per le strade, si sente circolare l’intelligenza, come un vivido sangue. E’ un’intelligenza che, evidentemente, non serve a nulla. Essa non è spesa a beneficio di alcuna istituzione che possa migliorare di un poco la condizione umana. Tuttavia scalda il cuore e lo consola, se pure si tratta d’un ingannevole, e forse insensato, conforto”.

Natalia Ginzburg

Diary of a Baltic Man

Real Eyes. Real Lies. Realize.


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