Archive for the ‘Arte’ Category

Ernst Jandl – Sonnett


10 Dic

Ernst Jandl è stato per il cinema ciò che John Cagè fu per la musica, ciò che Godard tentò di essere per il cinema, ciò che il cinese stravaccato qua di fronte – sul tavolino di un hostal de malamuerte en Paris – è per il buoncostume.

Più in là di ogni regola, più in su di ogni accademia, più in giù del codice espressivo, più ad ovest del contenuto.

SONNETT (1969)

Sonnett
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Sonnett
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Sonnett
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Sonnett
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(La poesia rispetta la struttura tradizionale di ogni sonetto, composto di due quartine e due terzine rimate).

Neve


18 Nov

“…in verità, il poeta, il vero poeta, possiede l’arte del funambolo. Srivere è avanzare parola dopo parola su un filo di bellezza, il filo di una poesia, di un’opera, di una storia adagiata su carta di seta. Scrivere è avanzare passo dopo passo, pagina dopo pagina, sul cammino del libro. Il difficile non è elevarsi dal suolo e mantenersi in equilibrio sul filo del linguaggio, aiutato dal bilanciere della penna. Non è neppure andar dritto su una linea continua e talvolta interrotta da vertigini effimere quanto la cascata di una virgola o l’ostacolo di un punto. No, il difficile, per il poeta, è rimanere costantemente su quel filo che è la scrittura, vivere ogni ora della vita all’altezza del proprio sogno, non scendere mai, neppure per qualche istante, dalla corda dell’immaginazione. In verità, il difficle è diventare funambolo della parola”.

Maxence Fermine – Neve.

Pan


26 Ott

…acaso alguna alegrìa recòndita que proviene de tu juventud y de la primavera, y que no se resigna a estar encerrada en un cuartucho, te impele hacia el vasto bosque, hacia el mar…

 

Pan, de Knut Hamsun, es un amigo un poco deprimido que cuando lo encuentras te cuenta sus desastrosas novedades sobre su amor imposible y un poco enfermo.
Tu lo escuchas, sin hacerle demasiado caso, y cuando te encuentras y te sientas frente a èl, al final estàs siempre demasiado atropellado por tu misma vida, para escuchar lo que tu amigo ha de contarte. Le pones cara bonita, y sus palabras te entran en el oìdo para flotar en un espacio que no està apto para procesarlas.

Hasta que una noche, mientras tu amigo, como siempre, habla, todo te aparde repente claro. Su historia, tu historia, la historia. Cuentos de amor, energias poderosas que Рcomo la diosa Shiva Рtienen la facultad de crealo y destruirlo todo. Tu amigo habla de ti, habla tambi̬n de ti, y aunque ahora todo te parece tan claro, no deja de estar asombrosamente negro, y sin fin.

Biutiful


18 Set

Superati gli effettismi narrativi con cui aveva firmato Babel, il regista messicano Alejandro Gonzáles Iñárritu ci restituisce integro il suo gusto per un dramma devastante e convincente, ritrovando quell’inconfondibile stile che aveva saputo esprimere in 21 grammi. Nessun raggio di luce entra tra le fessure dei 138 minuti di narrazione di Biutiful, nessuna speranza per un insieme di figure che strisciano sullo sfondo di un paesaggio vagamente simile a un quadro impressionista, oscuro e desolante. La Barcellona che ritrova Javier Bardem non è più quella allegra e colorata raccontata in Vicky, Cristina, Barcellona, ma un collage multietnico dove gli stranieri sono immigrati clandestini e non più turisti, impegnati in una lotta per la sopravvivenza che coinvolge e assorbe tutti i protagonisti del film. E l’amore messo in scena è quello di un padre verso i suoi due figli, nel momento in cui la condanna di una malattia incurabile lo spinge a spendersi fino all’ultimo, pur di garantire la sopravvivenza dei suoi piccoli. Oltre che una conferma del talento di Inárritu, Biutiful è però un monumento a Javier Bardem. L’attore spagnolo si carica sulle sue spalle il peso dell’intera trama, mettendo in scena un personaggio completo che riesce ad esprimere, al tempo stesso, energia e sensibilità, bontà e contraddizione, speranza e disperazione. Una dualità di elementi contrastanti espressa per tutta la durata del film, in una sorta di zig-zag continuo, in bilico tra un mondo tremendamente materiale e l’assoluta pace della morte, che si sposta costantemente dalla realtà al desiderio, dai capannoni dei quartieri portuali di Barcellona alla fotografia intima che esalta la bontà del protagonista, Uxbal. Biutiful è probabilmente uno dei film meglio riusciti della stagione, quasi sicuramente, il più pessimista. La dichiarazione di intenti, dopotutto, è chiara fin dal titolo: l’errore ortografico sembra comunicare un abbaglio cosciente e sottile, come a voler sottolineare che anche in ciò che può apparire “bello” si nasconde in realtà un qualcosa di sbagliato. L’unico pensiero positivo che può ricavarne lo spettatore, insomma, risiede nella consapevolezza di tornare a casa e ritrovare un letto e un pasto caldo. Al prezzo però di scoprire, una volta di più, che presto o tardi la vita potrà presentare il conto.

[Recensione premiata al concorso Scrivere di cinema 2011]

Profondo Verde


05 Set

Un raro esempio di Università che funziona.
Un impulso naturale che diventa idea che diventa approfondimento che diventa incontro che diventa tesi di laurea e sfocia in un libro.
“Profondo verde” è un’opera che si propone (che ti propone) di iniziare a costruire il cosiddetto “futuro”, riconsiderando, dalla base, quelle poche certezze (sbagliate?) su cui si è appoggiato l’uomo fino a generare questo mondo in cui viviamo.

La concezione antropocentrista, per esempio. L’idea, cioè, che l’essere umano sia stato posizionato, per volere divino – un dio creato dall’uomo a sua immagine e somiglianza, dopotutto – al di sopra di tutte le altre creature naturali, con pieni poteri di distruggere e sottomettere l’esistente in nome dello “sviluppo”.
E lo “sviluppo”. Termine vuoto, limitativo, ingannevole, termine criminale. Profondo Verde si scaglia contro gli “sviluppi ecosostenibili” vomitati dalle televisioni di mezzo mondo, osservando come l’unico modo per andare avanti sia tornare un passo indietro, almeno fino a quando la “crescita” non si converta in “decrescita”, in nulla più che armonia e sopravvivenza.

Non è materiale rivoluzionario, non dovrebbe esserlo. Miliardi di dita indici si alzano timidamente da decenni, cercando di dire che forse non si è sulla buona strada, che vivere per consumare e consumare per sentirsi vivi non è l’ambizione più grande che si possa perseguire. Ma sono dita di mani nere, nerette e gialle, e la loro opinione è eresia. Dio è bianco, maschio e con la barba lunga, così come i grandi filosofi della Grecia antica, che poi sono i primi ad aver smarrito la bussola, ad aver proiettato l’uomo tra le stelle, dimenticandosi che spesso le stelle sono già parte integrante del pianeta su cui accidentalmente siamo capitati.

Irene Borgna propone così la deep ecology, un movimento filosofico nato nella coscienza di molti intimi e sviluppato, come un libro aperto, tra gli eretici dell’era dello Sviluppo selvaggio. Arne Naess, Alex Langer, Günther Anders smettono di essere i nuovi profeti da seguire a capo chino, e si convertono in imput, in stimoli, perchè ogni essere cosciente formuli la propria “ecosofia”, la propria guida etica per vivere in sintonia con il pianeta. Così come fu all’origine: “syn-tonia”, oscillare alla stessa frequenza.

Tradurre, di Pier Paolo Giarolo


04 Ago

Vivono nascosti in una stanza, remano in sordina. La loro arte è l’insieme di tutte le altre, è una questione di ritmo, di armonia, di composizione, di colore. Il coronamento dei loro sforzi è una nota tra le prime pagine, lì vicino al numero fax delle case editrici.
Sono i traduttori letterari, figure coperte dalla penombra, equilibristi sospesi sul mondo delle lingue. Pier Paolo Giarolo li dipinge magistralmente, in un documentario pieno di poesia e di pane, un’opera d’arte che, oltre a meritare ogni sorta di complimento stilistico, ha il non secondario pregio di essere disponibile in streaming.

Work in progress


02 Ago

“Non si abita un paese, si abita una lingua. Una patria è questo e nient’altro”.
E’ il principio fondante che ci ha spinti a rotolare giù lungo il fiume Tanaro a bordo di un’Ape Piaggio classe 1991, addobbata con tavolino e megafono, vino e coniglio (quanto mai vivo e narrante), salame e tuma. Cogliere le inflessioni della lingua che cambia. Registrare il patrimonio etnolinguistico forgiato dal corso dei secoli, goccia su goccia, come le pietre del fiume. Ascoltare il suono dei secoli, la voce di popoli piccoli e grandi come il mondo intero. Divertirsi, e, se possibile, divertire.

Non disse niente e lo capì


30 Lug

L‘ho visto a Madrid. Primavera del 2007. Lui si aggirava con una gibson SG Diavoletto, lo stampino di J. P. Harvey appiccicato sulla custodia. Stava seduto su uno di quei dispositivi che si abbassano quando arriva una macchina autorizzata ad entrare in zona pedonale. Le due ragazze che erano in piedi di fronte a lui fumavano una sigaretta. Una aveva i capelli nerissimi, irregolarmente rasati sul lato sinistro. Sembravano conoscersi da una vita.
L’ho rivisto in un locale di Bulevard Magheru, nel centro di Bucarest. Sotto la giacca marrone portava una camicia a quadri, bianca e rossa e nera, e un cappello rasta in testa. Rasta non ne aveva più, ignoravo se li avesse mai portati. Stringendo i pugni nelle tasche passeggiava tra la folla delle sei del pomeriggio, senza inseguire nessun luogo specifico.
Ho saputo che è esistito anche su internet. Ancora oggi scrive sui blog, ma solo perché gli piace l’idea di non dover legare le parole ad un nome, o una faccia. Trascorre i suoi pomeriggi a commentare amaramente video in cui tutti gli altri parlano d’altro. Tre persone hanno comunque cliccato la manina verde, a lato del suo messaggio.
Esiste anche su internet, abita le stazioni, riempie ogni panchina, sporca le conversazioni di ragazze che non lo sentono da un po’, luce verde che nessuno oserà mai interpellare.
Perché ovunque passa lui è così, lascia l’immagine originale ma ne modifica la percezione, rovescia lo stesso colore su tutto, ed è un colore che dà fastidio, che non piace, che incuriosisce, che attrae. Si mimetizza e non ci riesce, porta a spasso un odore di disastro che incendia l’aria ovunque, si autoannulla nel flagello di essere tutto e il contrario di tutto, nella consapevolezza di riconoscersi solamente nel niente.

I bambini di Bucarest


07 Lug

Tra il marzo e il giugno 2011, l’Uomo Baltico ha pestato terra romena. Le tracce sono voci di bambini e colori pomeridiani, uno spazio di verde tra le strade secondarie della capitale. Creatività al suo stadio più autentico, quello racchiuso nella mente dei bambini, creatività sottoforma di gioco, filtro onnipresente nella lente che cattura il mondo.

Il “Progetto di Alfabetizzazione Audiovisiva” è un tentativo di giocare a fare cinema. [Di giocare a giocare]. I bambini ospiti di un Centro Diurno di Bucarest hanno fatto tutto: videocamera, audio, recitazione, trucco, regia. Un esperimento di gruppo, senza protagonismi nè pretese, senza un inizio nè una fine. Il risultato finale sono due cortometraggi di sette minuti circa, saturi di errori e imprecisioni. E proprio per questo, autentici.

Video 1 (presente qui sopra)
Video 2

L’apolide metafisico


19 Mag

C’era questo simbolo particolare, una specie di richiamo. Un logo semplice e assoluto: diceva tutto, senza dire niente. Lo ritrovavo sui marciapiedi e sui muri dei palazzi del centro, e anche nelle stazioni della metropolitana, dappertutto. Trasmetteva un messaggio così potente da annullarsi da solo, un messaggio così semplice che era impossibile non corrergli dietro. Aveva una sua energia.

Ricordava, sommessamente, quasi a voler chiedere scusa, il centenario della nascita di uno dei più grandi scrittori del secolo romeno. Emil Cioran, cane sciolto nella letteratura e nella vita, appassionato distruttore di ogni passione, fedele nemico della fede e nell’umanità

I suoi libri sono nati come terapia contro il suicidio, nelle notti insonni di una Parigi straniera. Lentamente, mattonella dopo mattonella, aforisma dopo aformisma (“la migliore maniera per contraddirsi velocemente”), Cioran ha annotato sui suoi taccuini di insonne le contraddizioni esistenziali che stanno alla base del galleggiare umano su un pianeta che non aveva bisogno di lui. L’unica conclusione possibile è la totale assenza di ogni senso e di ogni scopo, una lucidità controproducente e pericolosa: “Anni e anni per svegliarsi da quel sonno al quale gli altri si abbandonano, e poi anni e anni per sfuggire quel risveglio”…

Quindici anni dopo la morte, Cioran si è convertito in un cosiddetto “autore di nicchia”. La sua onestà filosofica sfugge a ogni tentativo di catalogarlo in un -ismo che sarebbe comunque troppo stretto per chi ha rifiutato in massa ogni ideologia, la sottile ironia che accompagna ogni pensiero lo allontanano da Nietzche e dai grandi distruttivisti del nostro tempo, per collocarlo nei tavoli di una taverna, tra filosofia contadina e pensieri in libera fuga.

Tutto è Verità e la Verità stessa, nient’altro che una grande bugia, si contraddice. Al punto che diventa buffo pensare che un gruppo di studenti di filosofia, a Bucarest, abbia voluto celebrare il centenario della nascita di uno scrittore che per tutta la vita non ha fatto altro che maledire il fatto di essere nato.

“Ogni misantropo, per quanto sincero sia, ricorda a volte quel vecchio poeta inchiodato a letto e completamente dimenticato, il quale, infuriato con i contemporanei, aveva decretato di non volerne più ricevere nessuno. Sua moglie, per spirito di carità, andava di tanto in tanto a suonare alla porta.

“Il fatto che la vita non abbia un senso è una ragione per vivere. L’unica, del resto”.

“Nel periodo in cui partivo in bicicletta per dei mesi attraverso la Francia, il mio più grande piacere era di fermarmi nei cimiteri di campagna, di distendermi tra le tombe, e di fumare così per delle ore. Vi penso come all’epoca più attiva della mia vita”.

“Se mi si chiedesse di riassumere il più possibile la mia visione delle cose, di riassumerle alla loro minima espressione, al posto delle parole scriverei un segno esclmativo, un ! definitivo”

(Per approfondire la conoscenza del personaggio in questione, si rimanda a questo video, o questa intervista, o a tutti i suoi libri).

Diary of a Baltic Man

Real Eyes. Real Lies. Realize.


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