Archive for the ‘Arte’ Category

Il Castagneto Acustico


03 Mag

Il Castagneto Acustico è un esperimento che nasce dalla necessità di recuperare ogni forma di spontanea semplicità.

Più in là della burocratizzazione e della prevedibile ritualità che sta alla base di ogni forma di socializzazione contemporanea, il Castagneto Acustico insegue l’armonia di un ritrovo fra amici, di un’antica festa di un immaginario paese.

Il meccanismo è semplice: ognuno partecipa apportando quel che vuole, anche solo la propria presenza. I musicisti suoneranno per amore all’arte, i disegnatori disegneranno un logo per amore al disegno, chi vorrà fare il pane farà il pane per amore al pane. L’immagine finale sarà quella di un castagneto immerso nella bellezza di una Natura superiore, che per una notte verrà illuminato da fiaccole a legna e strumenti musicali suonati in acustico. L’energia elettrica è assolutamente bandita: per costruire una festa serve molto, molto meno.

Il luogo di ritrovo è un castagneto sulle Alpi Marittime. Per secoli e secoli, alla fine di giugno la comunità autoctona organizzava la Festa di San Pietro, una notte di danze, musica e vino che sorgeva spontanea dai membri della comunità. Qualcuno andava a cercare nelle altre vallate i musicisti, qualcun altro preparava la “tuma” e il salame, tutti insieme si beveva il vino. Negli ultimi cinquant’anni, il silenzio è sceso definitivo sulla borgata, e oggi i sessanta anziani superstiti ricordano con nostalgia il tempo che fu. Il Castagneto Acustico è rivolto soprattutto a loro.

Sono previsti quintetti di ottoni reali, percussionisti tribali indigeni, duetti di clarinetto di fama internazionale e voci femminili accompagnati da chitarre oniriche. Tutto il resto – l’imprevisto, sottoforma di creatività – è assolutamente benvenuto.

(Per raggiungere il Castagneto Acustico, si consiglia di limitare l’uso delle automobili, ottimizzando la capienza. Esiste un leggendario autobus che parte dalla località di Ceva. Esiste la possibilità di piantare la tenda e dormire nel bosco).

Questo articolo sarà costantemente aggiornato con le ultime indiscrezioni.

Arcipelago filmico orientale


10 Apr

Tra le varie chicce saltate fuori al V “Next International Film Festival” di Bucarest, la più morbosa è sicuramente quella sputata dal tecnico del suono di “Il favoloso mondo di Amélie“, film che nel 2001 ha associato indelebilmente l’immagine di una Parigi ipercolorata con le progressioni musicali di Yann Tiersen. Come è nata la colonna sonora più riuscita del cinema europeo degli ultimi anni? Semplice: per caso.
Racconta Jean Umansky (l’ingegnere del suono di cui sopra) che tutto il team di produzione, a montaggio ormai ultimato, si è riunito per giorni e giorni di fronte ai monitor, a provare, uno per uno, i dischi di tutti i compositori contemporanei, alla ricerca della musica – quella giusta – per accompagnare la storia.
Niente.
Fino a quando, una mattina, una sotto-assistente anonima che è arrivata prima degli altri si è messa ad ascoltare il suo disco preferito, il disco di un giovane musicista sconosciuto, e si è accorta che quella fisarmonica dal suono vagamente normanno funzionava, nella quotidianità di Amélie. Il risultato che il film è ricordato per la sua colonna sonora, e Yann Tiersen è conosciuto come “quello che ha scritto la musica di Amélie“.

Un film è un’isola. Un’isola sconosciuta. Se ci finisci dentro, in novanta-centoventi minuti puoi visitare terre fantastiche, drammatiche, silenziose, assordanti, bianconere, musicali. E il nostro compito, in Europa, è fare esattamente l’opposto di quanto si produce in Nord America. E cioè: generare film che mettano in dubbio la natura umana, che non si limitino a confermare quelle poche certezze che abbiamo”. Molti i piccoli produttori e i registi indipendenti presenti, a testimonianza di un mondo che silenziosamente vive di una dinamismo notevole, che si imparenta sul facebook.
Un occhio puntato sul cinema romeno. Dimenticato dai suoi governanti, drogato di decostruzione del tempo ceauseschiano, vittima di quel gran capolavoro a sorpresa che ha sconvolto Cannes nel 2007. 4 months 3 weeks 2 days, croce e delizia del cinema nazionale.

E poi: il cinema del futuro. Tra i film in programma al Festival, “Lucydia“. Un progetto sperimentale, perché gli attori utilizzati per realizzarlo…non esistono. Il regista è un pazzo australiano che si è inventato un social network in stile “second life”, e come un “grande fratello” manovra i protagonisti del suo fantamondo (personaggi virtuali manovrati da esseri umani reali), li istiga ad odiarsi, a unirsi, ad amarsi, quando è il caso. A parte il fatto che il film non va più in là di un banale polpettone di baci e combattimenti, c’è un qualcosa di fondo che non convince. Il pregio di queste nuove tecnologie sarebbe quello di creare – anche visualmente – mondi in tutto e per tutto simili a quello reale, personaggi possibili nella vita reale così come nel cinema – dove tutto è possibile. Perché, quindi, non continuare ad utilizzare personaggi umani?

Est


23 Mar

Semplicemente ti sembra la cosa più giusta, la più logica, la meno sbagliata. Non sapresti nemmeno dire se lo fai nel nome di un dio effettivo, o se si tratta semplicemente di legittima difesa. E nemmeno potresti essere sicuro di volerlo veramente, questo ennesimo shock. E’ lui che ha scelto te, che ti ha trovato. Non puoi sottrarti.

Non si tratta semplicemente di un momento ben definito. E’ un pezzo di caos che fa parte del Tutto, è la bramosia dell’ignoto che diventa legge, è un manifesto simbolico di un disegno più grande, di cui sei creatore e suddito. Vivere la vita come un’opera d’arte, tra passione e sofferenza, desiderio e follia. Come un’opera d’arte, da costruire seguendo l’istinto, l’ispirazione del momento come unico percorso da seguire, le figure che cambiano forma lungo il cammino, la sovrapposizione degli elementi per creare intensità.

Ti diranno che sei pazzo, o cinico, egoista,uomo instabile, avventuriero. Ti diranno cose sagge, sputeranno contro la tua proposta d’avanguardia, una vita come un’opera d’arte non va presa troppo sul serio. Ma tu sarai immerso nel tuo vortice di poesia, solo e nudo di fronte all’esplosione di inaspettate bellezze, insensibile a tutto ciò che non si manifesti sotto forma di puro calore umano. E anche la distanza e la solitudine scaldano, finalmente hai imparato a capirlo.

E quindi eccoti lì di fronte a nuove idiosincrasie da scoprire, lingue sconosciute da decifrare. Tutto così nuovo e tutto così già visto, mentre pensi che in fondo pianure, montagne e deserti sono prima di tutto paesaggi dell’anima. Un altro pezzo del mondo degli uomini si apre oggi sotto i tuoi occhi, e basta chiudere le palpebre per rivedere il caos e spaventarsi di meraviglia. La vita come un’opera d’arte, tra passione e sofferenza, desiderio e follia.

La bocca del lupo


10 Feb

Eccola, finalmente.
La risposta ai grandi mali contemporanei. L’opera d’arte che stavate aspettando. La riscossa di un cinema nazionale tragicamente degenerato in nazionalpopolare. Un’esplosione di poesia, ma di quella semplice – quella più vera.

La bocca del lupo, sceso sulle nostre umili teste vidiotizzate senza scampo, ci riporta allo stato reale delle cose, delle cose di finzione. Cinema allo stato puro, nelle sue ambizioni più vere: raccontare la realtà, raccontare la storia, raccontare UNA storia. Tutto nello stesso momento. Ma anche, e soprattutto, scoprire, dipingere, colpire, commuovere. Il film del giovane Pietro Marcello raggiunge meravigliosamente ogni suo obiettivo, proprio perchè è nato senza obiettivi apparenti, in una panetteria tra i vicoli di Genova.

A Gianni Amelio, direttore del Torino Film Festival, l’onore di aver dato un senso alle nostre vite salvando dall’oblio a cui era destinata quest’opera – fino al punto in cui la suddetta risulterà effettivamente vincitrice, del TFF.

Purawa


21 Dic

Quien me ha robado el mes de abril?


06 Dic

Camminavamo lungo una striscia d’asfalto nera, serpente tra le montagne del Nord. Polvere e deserto tra noi e il passato e ogni sorta di futuro. I chilometri tra noi e la capitale si contavano in termini di migliaia; non si contavano più. Una casa nascosta tra pietre e cactus fu una porta aperta su vino e calore. Una casa tra pietre e cactus, e un uomo con gli occhi di ghiaccio dietro la porta, “gli amici della notte sono anche amici miei”, disse.
Poi prese la chitarra ed iniziò a cantare. Era boliviano, ma in quel momento era soprattutto una voce, e non c’era nient’altro che la sua voce, entità piena e carica di una nostalgia misteriosa.
Cantò un’ora o forse una notte, ed erano storie di montagne e asfalto e polvere e deserto e notte e noi e tutto.

Storie che ancora oggi risuonano e continuano, che si ripetono silenziose nell’oscurità del quotidiano.
E noi si continua a camminare, inseguendo altre voci e altre notti e nuovi deserti.

Sul treno


01 Dic

Lui. Occhiali e pancetta incipiente. Studente. Parlantina loquace. “Hai visto ieri, quel regista che è morto?”
Lei. Suoneria del telefono orribile e molesta. Indecisa tra giurisprudenza e disegno grafico, dice. “Quale regista?”
Lui. “Un regista veccio. Era anche famoso”.
Il giornale di fronte. Un presidente con gli occhiali nella foto. “Addio Monicelli. Gli italiani non ti dimenticheranno mai”.

Contro le coverbands


27 Ott

Hot_Space_Queen_Tribute_Band.jpg.bigSe la musica può essere considerata uno strumento efficace per scattare una realistica fotografia sulla situazione culturale di un’intera società-, allora, ancora una volta, l’Italia è definitamente fottuta. Cinquecento anni più tardi di Palestrina, cent’anni dopo Verdi, la musica del cosiddetto “popolo” è ormai quella (scimmiottata) di altri, possibilmente in inglese.

E’ il fenomeno delle “cover-bands”, di quei gruppi di musicisti che si dilettano ad eseguire alla perfezione un pezzo scritto e interpretato, originariamente DA altri e/o PER altri. Con ambigue conseguenze, del tipo: “oh! Ho sentito una cover band dei Nirvana, tiggiuro che il cantante era uguale a Kurt Cobain. E pensa che dopo il concerto si è suicidato in un garage”.
Quando tende verso il parossismo, la cover band si propone addirittura di migliorare la versione originale, la qual cosa, si commenta da sola. (“oh! Ho sentito una cover band dei Led Zeppelin, pensa che il solo di Stairway to heaven era ancora più bello che nell’originale).

Il problema, effettivamente, sta proprio qui. Nel fatto che molte volte i membri delle varie cover bands sono veramente dei bravissimi musicisti, che per qualche inspiegabile motivo scelgono di ripetere all’infinito quattro accordi già ripetuti all’infinito, o, peggio ancora, salire su un palco vestiti come Freddy Mercury.

Perché? Bella domanda. Il fatto che così facendo si guadagni di più, è vero solo in parte. E comunque, ricordo bei tempi in cui i musicisti erano artisti, prima ancora che mercanti. Ma anche ammettendo il discorso del musicista-prostituta, trovo comunque molto più dignitoso ricoprire il ruolo fino in fondo, e suonare il genere meretricio per eccellenza, e cioè il liscio, piuttosto che atteggiarsi da star nelle varie festacce della birra locali per poi cantare Cicale-Cicale, o che so, qualsiasi canzone di Bob Marley o Jimi Hendrix, scritte per ben altri contesti.

La causa ultima, ovviamente, sta nel pubblico. Fedeli alla disgraziata linea del “si dà alla gente quel che la gente vuole” – che ci ha regalato perle come La ruota della fortuna o Il grande fratello, ricordiamolo –, musicisti e gestori di locali organizzano i loro spettacoli intorno alle covers, meglio se ascoltate e strascoltate, per consentire alla pollastra seduta in prima fila di ricavare soddisfazione dal muovere la testa e dire “ah si questa la conosco”, mentre la band suona Another Brick in the Wall, o Il cielo è sempre più blu, che poi viene riconosciuta come “quella della pubblicità”.

La conseguenza è piuttosto evidente. Un popolo che continua ad ascoltare le stesse canzoni, che si afferra al già esistente anziché sperimentare, un popolo che cerca conferme (conferme de ghe?) ed ha paura del nuovo, è un popolo fottuto. Definitivamente fottuto. Artisticamente estinto, culturalmente imbalsamato, socialmente ammuffito e politicamente retrogrado.

L’italia, insomma. L’italia e gli italiani. La più grande tribute-band dei Queen (come gli originali!) è italiana, i migliori scimmiettatori de U2 (meglio degli originali!) sono modenesi. Tutto questo, mentre a Kassel, una città qualsiasi in Germania, ogni sera si presentano in scena concerti rock inediti, e mentre a Bogotà il lunedì come il martedì o il sabato sera si può assistere a spettacolari combinazioni di rock e ritmi latinoamericani, flauti indigeni e musica elettronica, psichedelie audiovisuali miste a free-jazz.

Che fare quindi? Emigrare può essere una soluzione. Sottoscrivere una petizione a Napolitano, un’altra. Oppure presentarsi al prossimo concerto di una cover band dei Pantera, e sparare al chitarrista. Solo per dare un effetto ancora più realistico alla faccenda, ovviamente.

L’eterna lotta tra il bene e il male


16 Ago

Concerto di Ferragosto I

Montagne denudate del loro intimo silenzio, sacrilego rituale pagano non peggiore di altre barbarità valligiane [i centri commerciali traboccano. Umanità bambina].
I moderni pellegrini inseguono sulle cime più alte la chimera di una diretta televisiva, “esserci” significa “essere là dove si spingono le telecamere”, esistenzialismo applicato alla realtà contemporanea.
A lui comunque tutto questo non interessa.
E’ lì per la musica, la voce del passato invisibile nel tempo.
Lo speaker radiotelevisivo esagera gli intervalli tra suono e silenzio, frenesia del piano di sotto in contrasto con ritmi d’altura, tradizionalmente, lenti.
Donizzetti, Mendelssohn, Rossini. Dove giocavano già più? In un’epoca in cui l’arte primeggiava sullo spettacolo, e il re stringeva uno scettro e non un microfono.
Le montagne, comunque, sempre uguali. Sempre lì, millenarie.
Lo speaker esalta aforismi di patria e bandiera, eppure per lui gli unici eroi possibili indossavano parrucche bianche e vestiti a fronzoli, romantici simboli di rinascimenti perduti.
A contraddire lo speaker comunque ci sono le casette militari. Pietre su pietre, sangue su sangue, pietre su sangue. La montagna non ha pietà per i labili confini dell’uomo. Sessant’anni dopo l’ultima carneficina, la montagna tutto cancella e niente perdona.
E poi comunque ci sono le aquile, i fiori, le nuvole, il nulla. Un frammento di neve che resiste al grigiume di un mare di pietre, prolungata agonia di un’estate che in extremis vincerà.
L’uomo della televisione comunque continua a parlare, la sua dialettica stordisce e colpisce. Molesta e attira. Irrita e anestetizza. Distrugge, conquista.
La musica propone e s’impone. Insinua ma non obbliga. Illude e svanisce. Dignitosamente vince, è eterna.

Foto di Elianto Blu

Leon Bruno


10 Giu

Erano giorni sostanzialmente rock, nel senso che il significato ultimo delle cose consisteva nell’osservare con una certa fatalità intere vite – le nostre, quelle degli altri – scorrere verso la stessa galleria fatta di niente. Persino il sole era nero, annullato da una patina di inconsistenza, sulle nostre teste. Voci di personaggi morti da tempo gridavano il loro vaffanculo dietro le nostre orecchie, voci cariche di veleno verso quell’esercito di ignavi di cui abbondano le storie nascoste, voci di quegli unici eroi senza cavallo né spada che ancora oggi risplendono nel paradiso degli esseri inquieti.

Lontani dal quarantacinquesimo parallelo, lontani da una città che per motivi diversi avremmo anche potuto definire nostra. Apolidi di un territorio fatto di regole assurde definiti dai folli del piano di sopra, camminanti perpetui di una staticità a cui ci eravamo adattati con un certo livello di comfort. Avevamo entrambi i nostri patemi, miliardi di illusioni da inseguire, cumuli di errori dietro alle spalle e trecentocinquanta watt ad aggiungere vibrazioni al nostro  essere vivi. Eravamo esseri umani sostanzialmente brutti, e per questo ci piacevamo.

Ascoltavo le tue storie di quel giorno in ambasciata, a provare a spiegare ad un uomo in divisa che un figlio, per crescere, ha bisogno di un padre. Che non dovrebbero esistere frontiere né pezzi di carta né bolli e timbri, nella logica della natura umana. Pensavo che sarei diventato anch’io un cantante rock, se fossi nato dalla parte sbagliata del mondo. Per cercare in fondo alle corde vocali la legittima difesa da scagliare sul muso di chi offende con noncuranza ed ipocrisia. Per provare a dipingere una concreta linea nera sul fantasma trasparente della libertà.

Leon Bruno è voce grossa nel panorama musicale colombiano. Attiva da più di dieci anni, la band barranquillera ha suonato al fianco di importanti artisti nazionali ed internazionali. Il loro frontman, Moncho, è una delle ultime anime veramente pure che solcano i palcoscenici della nostra era puttana.

Diary of a Baltic Man

Real Eyes. Real Lies. Realize.


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