Archive for the ‘People’ Category

Dialoghi possibili


19 Nov

AEROPORTO.
“…il motivo della sua visita in Colombia?”
“in che senso, scusi?”
“dico: studio, lavoro, turismo…che ci metto?”
“ah. Non so. Ci metta: non so”.

SUPERFICIALITA’
“gli europei sono superficiali”.
“ció può essere vero, signora”.
“ma non tu. Tu ti fai 50 ore di viaggio per vedere la tua ragazza”.
“bè, si, è vero”.
“vedi? Tu non lo sei”.
“beh, in veritá sono qua per fare l’attore in un cortometraggio”.
“còmo asì?? Allora sei superficiale anche tu!”
“…ma la regista del corto è la mia ragazza”.
“vedi? Lo sapevo che eri una buona persona”.

TRA PALCO E REALTA’
“Andrès, ti sei reso conto che il tipo che ci ospiterà sul set a Santa Marta è il padrone del villaggio intero?”
“veramente?”
“e che accetta il ruolo di camionista a patto che giriamo le scene dell’arresto con poliziotti finti?”
“ha detto cosi?”
“e che ha detto che il revolver dobbiamo trovarlo noi perchè il suo è sotto sequestro giudiziario?”
“sotto sequestro giudiziario?”
“e che accetta di ospitarci tutti e 15 nella sua hacienda a patto che non ci siano tra noi teste calde con ferri e piombo?”
“merda”.

MESSICO E NUVOLE
“…perdersi, riperdersi, e ritrovarsi”
“perso a guardare un cielo blu”
“non è blu. è cielo”.

Cosa racconteremo di questi cazzo di anni zero?


11 Set


Le strade sdrucciolevoli i madrigali magri i computer che si connettevano al mondo tra il frigo e la stufa le radiazioni di pòmice della televisione la criptonite che si rifiutava di funzionare se il tubo catodico era collegato le guerrigliere musulmane del kurdistan le rumene che passavano sotto casa gli iperdiscount tedeschi le domeniche mattina a latte e cianuro madonna era una cantante e non la mamma di un dio un argentino che voleva fare il macellaio per parlare con le vecchine gli elicotteri della nato la fame nel mondo la fame del mondo la fame nel mondo gli asciugamani elettrici si stava meglio quando si stava peggio gli amici arancioni che si illuminavano in basso a verde l’indie-rock inglese le donne digitali il sesso da lontano il sesso digitale le falene a forma di tupolev lezioni di salsa su un filo di poliestere mio fratello che porta a spasso un cane immaginario le due di notte le tre di mattina le quattro di plastica l’epoca x l’aereo che costa meno del treno mi compro un aereo e vendo il treno un suonatore di armonica per le vie di austin un uomo che correva con una gamba di carbone i libri virtuali dovevano ancora essere scritti le degustazioni di antrace le coppie di fatto le copie del fato le coppie di fate le coppe di feti gli aggiornamenti in tempo reale sul telefonino sul nostro fottuto futuro le otto principesse e i settecento nani le armi gli scudi i diritti umani la carta igienica che non finiva mai il cane schiacciato da una macchina mentre inseguiva il rotolo la guerra subito senza sè e senza mah il cinema tedesco le pillole per il male ai capelli gli uomini che vegetavano e i fagioli umanitari i lifting nei loft il software dell’hardware le professoresse nell’asilo nido quantitativi immensi di hard-metal che si scaricavano in un attimo alla faccia dei metalmeccanici novecenteschi i quarantamila anni della regina d’inghilterra la massaia di voghera sadomaso online gli asini e i muli come i mammuth homer simpson presidente degli stati uniti d’america anime e spiriti messi all’asta su ebay i nonni che non ci capivano più niente e mandavano a fanculo il mondo intero tutto gandhi che si sarebbe ucciso da solo i piselli enormi perchè erano geneticamente modificati infinite discussioni sul senso della vita con la voce elettronica di donna dei caselli autostradali gli occhiali cinesi da un fiorino con la griffe italiana da trecento euri i cinesi sul fiorino la rubiconda impiegata delle poste che bestemmiava con chi la obbligava a vendere il cd di venditti a pensionati senza pensione e soprattutto un cantautore, sconosciuto, depresso, incazzato, che ho appena scoperto nel fondo dell’armadio di questi disgraziati anni zero. Suo padre era il Noise, sua madre la Melodia, lo lasciarono lì sulle strade di qualche provincia: una volta, l’avrebbero chiamato bastardo.

Illusione a fari spenti


18 Ago

Piove. Pioggia: acqua santa che scende dal cielo travestita di maledizione: appare sempre quando meno serve. Per esempio quando è in giro sulle Ande in bici. Lo zaino è una roba che esplode. Sette mesi di vita vi sono rinchiusi dentro e sette mesi di vita – di questa vita, questi sette mesi – sono materiale esplosivo. Non è colpa dello zaino. Il Venezuela non vuole Chàvez. Lo chiamano “dittatore”, da queste parti, però lo dicono a voce bassa accertandosi bene che nessuno li stia ascoltando. Viaggione, uno s’immagina i caudillos sudamericani anni ’70 dimenticandosi che il presunto “dittatore” ha perso un referendum costituzionale l’anno passato, per giunta di un pelo. Pagliaccio è la parola, dittatore suona forte e inflazionato e comunista. Maracaibo, quella della canzonetta da discopub estivo italiano, è una città industriale e petroliera e sporca, ma soprattutto, delusione delle delusioni, si chiama Maracàibo. Con l’accento sulla “A”. Quante generazioni di persone ha rovintato la Carrà. Le radio suonano come in Colombia e vomitano reggaeton. Mèrida, invece, profuma di Svizzera e sa di SudAmerica. La benzina, postilla fondamentale, in Venezuela costa 30 centesimi di euro al litro.

In conclusione, però, tutto questo è una cazzata. Pura mercanzia mentale, sensazioni impressioni e pensieri di un ubriaco, e vedi che domani si dimentica tutto. Un Discovery Channel davanti agli occhi, un inutile contatto msn che ti dice cose invisibili, un falso secondo di gioia. Sulla pelle, tra i capelli, stretto tra le dita, conficcato in una pupilla, dentro un’orecchia, nelle tasche, nell’organo pensante e nell’organo pulsante, in ogni poro, in ogni poro, in ogni poro, c’è la mia Colombia, c’è lei, c’è me stesso.

Amarcord


25 Lug

La tua gente, i segnali di fumo di un Pellirossa, un’Aquila addormentata nella mano. Sto davvero pensando all’evidente sudditanza dello “scrivere” nei confronti del “dimenticare”, e da lì mi inoltro in ingannevoli circoli mentali troppo più veloce delle dita.

Strano davvero il viaggio erratico, a queste latitudini. Il caldo fertile rimpingua i rigagnoli dei sentimenti. Nella stanza a fianco si sentono voci indistinte, amici di amici improvvisano un poker e ne distruggono il sottostante tavolo. Risuonano accenti paisa. Al loro fianco, mi immagino una nativa, immersa nel mondo virtuale in cui si è racchiusa, camminare gomito a gomito con la sua vecchia amica “sé stessa”. Dietro lo schermo passeggia un suo possibile futuro vedovo e lei se lo lascia scappare. Leo cammina a testa alta sopra il filo sul burrone.

-“Dopodomani alle 7 del mattino dovrò prendere il taxi”.

-“Aaah non farla drammatica. Stop that. Tutti hanno preso un taxi per partire pieni di tutto dopo la loro festa d’addio. Una volta Benat è anche riuscito a fermare l’unica taxista donna del sud america, una tettona che non ha mosso un dito mentre lui moriva sotto tonnellate di valigie”.

-“Tu non capisci. Nessuno ha mai dovuto prendere un taxi per finire in un terminal per finire in un bus di venti ore per finire in un bus urbano per finire in un aereo per la Spagna per finire a TORINO. Tu non capisci”.

Urlano di qua ed urlano di là. Sento dietro la porta gente correre fuori dalle vie della ragione. Dietro di lui qualcuno piangendo ride e parla di peperoncino negli occhi. Ma Leo non se n’è accorto, ricollega le logiche delle sue verità:

“Praticamente prendo tutto sto casino di aerei e bus e navi e treni per finire su uno scivolo che conduce direttamente nella merda”

D’improvviso capisco. Rivedo, come in una serie di fotoflash, la cronologia del nostro cammino, ritrovo frammenti di etereo ricordo spersi tra le brezze di savona e le tempeste delle nostre provincie, annego nel trago amaro che questa notte ci tocca. Ombra costante, aleggiano melodie di fado portoghese. Ricordo il tempo in cui tornammo a casa – quale casa? – ebbri, sbranando anguria e mango mi confessavi la spinta definitiva che ti ha trasportato su queste terre. Ci ripenso ora scrutando le facce qua riunite, nascosto in mezzo a altre stronzate ritrovo un po’ d’orgoglio, un qualcosa di cui andar fiero d’aver condiviso con loro.

Te ne vai e per la prima volta il piccolo mondo di questa grande città addormentata sui caraibi si ferma. Non ho mai visto questa casa inondata dalle lacrime, né ho ritenuto logico piangere sopra un qualcosa macchiato di reversibile. Eppure i muri urlano silenzio, in questa prima notte vedova del tuo spirito. Da oggi non esisteranno più parole né tacite intese, il logico ritornerà a distinguersi dall’illogico, non ci saranno più donne né assurde storie di donne in quest’eterna primavera. Un mutismo androgino e solitario scenderà sulla vita a delirio e caffè.

Ciao Amico mio, compagno di Viaggi.

L’ultimo dei Visionari


08 Lug

Il capitolo primo è un balcone di Kaunas, un appartamento ai limiti dell’assurdo dove in una notte di vodka e primavera nordica qualcuno mi parlò di lui, di questo figlio d’immigranti lituani rettore dell’Università di Bogotà che mostrando le chiappe a una contestazione aveva zittito la platea e shoccato la Colombia conservadora.

Nel capitolo secondo, sui legno di un bizzarro ufficio colombiano, si apre la porta ed indiscutibilmente entra un lituano. I modi lenti, la parlata calma, gli occhi azzurri su fisionomia baltica anticipano le referenze di curriculum, che parla di un rettore celebre per aver cambiato, da sindaco, il volto di una delle metropoli più difficili del mondo. Antanas Mockus Sveikas, al tempo rettore della Nacional de Bogotà, iniziò la sua carriera politica mostrando le chiappe a una platea contestatrice: “E’ pedagogia. Inutile la violenza, inutili le punizioni, tutto si ottiene con Cultura Ciudadana”, esordisce. Sono poi seguite geniali stravaganze e un matrimonio su un elefante, fino al naturale sfocio in una corrente filosofica a tutt’oggi in crescita, conosciuta come il “Movimento dei Visionari”.

Il confronto argomentativo è interessante, per di più Mockus parla un lituano perfetto (Mockus…io no) e ancora ne sfoggia il tipico orgoglio: “Si può dire che nella storia ci siano stati solo due tentativi riusciti di Resistenza Civile Passiva, l’India di Gandhi e la Resistenza Anti-Sovietica Lituana”, sentenzia.
La sua parlata calma si arricchisce di una serie di citazioni lontane, gente come Roger Peterson e il suo “Resistence and Rebellion”, Jen Sharp e Thomas Shelling, Shlowsky e i Formalisti Russi, Dovstojewsky e Sastre e un codicillo della Costituzione Italiana. Ogni concetto innesca in lui un circuito formidabile, e di fronte a qualsiasi semplice domanda accende una catena di ragionamento inimmaginabile che attraversa qualsiasi campo della conoscenza umana per concludersi in una risposta altrettanto semplice. Semplice e geniale.

Due volte sindaco di Bogotà, spiega come abbia creato un magistrale esempio di Amministrazione Creativa ancora studiato da tanti politosociologi del mondo: “Insegnavamo senza punire. Se c’era scarsità d’acqua, non tagliavamo le razioni ma apparivamo in televisione in una doccia di 4 minuti per illustrare i possibili risparmi. Tutto si ottiene con Cultura Ciudadana”. Aspirante (per la seconda volta) alla Presidenza della Repubblica, Mockus ha in mente idee alternative per risolvere il problema dei sequestri: “Con 30 ragazzi in questo stesso ufficio stiamo organizzando esempi di un possibile dialogo con i capi guerriglieri. L’idea sarebbe raggiungere i vari Fronti delle FARC nella selva in una marcia che raccolga il pacifismo di Gandhi e la progressiva assimilazione di nuovi membri, lungo il cammino, di Mao”. Tutto senza spoliticizzato, sullo schema dell’esperienza bogotana, dove gli assessori e i consiglieri arrivavano in buona parte dalle cattedre accademiche e non dai partiti. “Abbiamo anche studiato un funerale virtuale, una sorta di “Istruzioni in Caso di Sequestro” che sarebbe interessante adottare per contrastare l’ultimo potere rimasto ai Narcotrafficanti, il sequestro appunto. E’ tempo di spiegare alle moglie e ai figli di un guerrigliero che la speranza di vita in questo paese è di 75 anni, e che accorpandosi in gruppi criminali si consegnano, in media, 30 anni della propria vita”.

Qua l’intervista completa (in spagnolo), qua foto nuove.

Riscatto


03 Lug

Nei miei giorni bogotani, la direttrice della semana.com davanti a un ottimo Ajiaco confessava che la sua redazione era in fermento: tutto lasciava presupporre importanti novità dal fronte FARC. Diciannove giorni dopo, per la prima volta nella storia della Costa Caribe, la buseta che mi riporta a casa inspiegabilmente bandisce l’onnipresente vallenato a 100 decibel per sintonizzarsi sul notiziario radio. L’eurocoppa è finita domenica, presagi di qualcosa di grosso.

Alla notizia della liberazione di Ingrid (e degli altri 14, tra i quali i 3 gringos del caso-Trinidad), l’entusiasmo della gente è davvero alto. In un clima di sincera commozione, la gente comune e normalmente piuttosto disinteressata a narcoparapolitiche varie ascolta attentamente le voci eccitate della televisione, schermi che riempiono le silenziose strade di Barranquilla in un cammino notturno solitamente deserto. La stessa, incessante cronaca in diretta (neanche la martellante pubblicità colombiana questa sera interrompe Uribe) racconta di un popolo che con ritrovata speranza riscopre la dignità, contro quel cancro interno che nella realtà del 2008 ha consumato definitivamente il limite di sopportazione della gente.

La realtà politica, è quantomeno interessante. Prima di tutto, un elogio a quel fantastico stile sudamericano che riempie di “gracias a Dios”, “mia madre mia moglie mia figlia”, “usted senor Presidente” e “Virgen Maria” qualsiasi apparizione televisiva. In termini effettivi, l’eccellente operazione messa a segno dall’esercito colombiano, oltre a far riesplodere il consenso e la cieca ammirazione intorno ad Uribe, spinge le FARC di fronte ad un bivio fondamentale, a una scelta da prendere dopo gli ultimi disgraziati mesi. Una strada porta all’apoteosi della rappresaglia, ipotesi che terrorizza le famiglie delle centinaia i civili ancora prigionieri nella selva. Il cammino alternativo, potenzialmente incoraggiato dal recente avvicendamento ai vertici della Guerriglia tra Tirofijo e Alfonso Cano, invita a dialogo e negoziazione, miraggio inseguito senza successo finora. Nella sua prima conferenza stampa da neo-libera, Indrid Betancurt ha concluso cosi:

“I libri di storia non ricordano chi ha fatto le guerre, ma chi è riuscito a fare la pace“.

Darius – o David – ovvero: in ogni villaggio c’é uno scemo


07 Mag

milhouse.jpgUna grande nuvola nera segnala l’incombere di queste presenze costanti. Le folle si ammutoliscono, e i piú saggi si allontanano. C’é chi sostiene che anche gli uccelli smettano di cantare.

Nei giorni piú freddi di Laisvés Aleja come nel forno a cielo aperto di un mezzogiorno caraibico, Darius – e David – vagano nell’aere con lo stesso costante obiettivo. Una volta individuato, non c’é via di fuga: essi si avvicinano con passo deciso, una luce accende il loro sguardo, piú in lá dell’inestricabilitá della loro complessa vuotaggine cronica e cranica. E’ il preludio. Quello che segue sono le stesse domande di ieri, in attesa delle medesime risposte dell’altro ieri. Dialoghi vuoti, dialoghi costanti, dialoghi pesanti cosí pieni di niente che irritano all’inverosimile. Mi immagino cosí le zecche dei cani. Con la faccia di Darius, o di David.

Certe volte, sorprentemente, Darius – o David – si spingono piú in lá del prevedibile:
Darius (o David): “…e senti un po’, non hai un account facebook o skype o msn?”
Baltic Man: “…no, non conosco queste diavolerie.”
Darius (o David): “come no! Ci permetterebbero di essere amici anche via internet”
Baltic Man: “io non sono tuo amico”.
Darius (o David), accusando la botta dietro l’occhiale ma rialzandosi come il miglior Tyson: “allora dammi il tuo numero di telefono”
Baltic Man: “Perché? Non voglio essere tuo amico”
Darius (o David): “no, cosi, magari possiamo vederci anche di sera, andare al cinema, o ti faccio conoscere tutti i miei amici, sono simpatici sai, e si chiamano tutti Darius, o David”
Baltic Man, sudando ghiaccio: “ah. certo. 301…”
Darius (o David): “Ma questo é il numero dell’altro italiano, ce l’ho giá”
Baltic Man: “Ti sbagli, é il mio. Chiamami pure, questa notte, verso le 3”. E fugge.
Darius (o David), affannato, ricordando l’immagine di una sposa incinta al decimo mese che saluta l’amato sul treno che lo porta alla guerra: “…a stasera, amico mio”

Blowing into the soul


23 Apr

segovia.jpgApro Skype e inizio a raccontarmela con Arno. Mi parla di Russia, si rimpiange la tabula piena di nullo Mongolo di un anno fa, mi racconta che quest’estate dopo esser tornato in Francia e prima di tornare a San Pietroburgo passerà un paio di mesi a lavorare ad Amburgo, e gli preme pianificare un incontro da qualche parte in Spagna o giú di lì, nel frattempo.

Inizio così a scambiare due parole con il brother d’america, disperso nei campi (da calcio) del Texas compie 18 anni si regala il sogno di un futuro a stelle e strisce. Mi racconta cose che già so e nel frattempo lo invidio, lo comprendo, gli auguro il meglio per la sua maggiore età che nel delirio americano non è maggiore età. Vorrei parlagli ancora ma mi scappa nel suo mondo di neogrande, the god-damned.

Passo le notti a parlare con Paolo, estasiato da quelle 12 ore di fuso perfetto che trasformano il canto dei miei grilli stanchi nel delirio del suo traffico a Honk Kong, e insieme ridiamo e insieme piangiamo su quanto è grande e bello e diverso e strano il mondo. Sono conversazioni che sanno al tempo stesso diSvyturys e d’oriente, nel sottofondo delle sue parole milioni di formichine da new-economy.

Dispersa nel nulla vaga Doriana, nella sua costante deriva su un piroscafo reale intorno a un continente irreale e sudamericano. Appare raramente e come appare scompare, ma nel frattempo ha lasciato uno schermo sullo schermo, uno squarcio devastante e aperto, e velocemente tutto si svuota e davanti agli occhi rimane la magia del Fu. Poi tutto si ricuce e appare Cesar da Madrid maledicendo tempi duri e votandosi propenso a un prossimo disordine universale.

Trovo nei pallini verdeskype tutta la Lituania, un paese e tre città che mi scrivono mi ricordano si informano e mi fanno viaggiare fin lassù, insieme a loro, come è giusto che fosse e come un giorno sarà ancora. Uomini donne ragazzi e ragazze che saranno come me per sempre, me li porterò dietro sottoforma di pallini verdeskype. Ragazzi, ragazze e certezze.

Non spezzo il filo che mai si ruppe con il mio pezzo di anima baltica disperso tra i castelli della Loira, parliamo di cose lontane che pure appaiono più vicine, e nitide, e fulgide nell’immaginario dell’un-l’altra lì a viverle. Affido all’etere il compito di trasportare passioni semplicemente accantonate. Nell’incanto dell’illusione, vivo profumi e sapori di labbra lontane.

Di tanto in quanto, ritornano così alla luce pezzi di notti vissute, angoli di Varsavia o di Riga o di Mosca che arricchiscono il tutto della loro indelebile presenza, pezzi di altri pezzi che si ricompongono in un ordine superiore da custodire gelosamente e sotto vuoto. Mancano però troppi tasselli, troppe facce vissute e adorate, frammenti di quella vita avanticristo che fu e che sembra inesorabilmente avviata verso la perdizione nell’immobile oblio del feudo natale.

El Presidente de verdad


02 Apr

uribe.jpgC’è una visione comune costante sulle strade di Colombia, che non cambia nelle ciarle con gli abitanti del nord, sud o centro del Paese. Confermata nei giorni scorsi anche dai sondaggi de El Tiempo, frutto anche di schiaffi e sgambetti internazionali con i Cattivi dei paesi vicini. A Barranquilla come a Medellin, a Manizales come a Cali il grido è unico, i taxisti e i compagni di sbronza concordano: .

Il bonario osservatore straniero, sia esso italiano tedesco o argentino, abituato ad un acceso ed eterno multidibattito su tutto ciò che riguarda il magico mondo della politica e dei suoi paraderivati, rimane effettivamente un attimo perplesso di fronte a cotanta uniformità di giudizio, soprattutto se lo stesso legge i cybergiornali del mattino. Le collisioni grigioverdi di Uribe periodicamente scoperte, le sue vicende personali passate basterebbero a frenare manifestazioni di plebiscito così massiccie, ma l’indole colombiana “così capace di dimenticare le cose negative” pare si stringa più che mai intorno al suo presidente, come televisioni e giornali, d’altra parte.

Le motivazioni di tanto appoggio, in genere, sono sempre le stesse. Il livello di sicurezza e il pugno duro che Uribe ha garantito negli ultimi anni sono stati recepiti positivamente dai colombiani, stanchi di vivere in un Paese dove un semplice viaggio in autobus era fonte di pericolo. Più di una volta, infatti, informandomi sulla sicurezza di questa o quella città la risposta è stata “Ahora que tenimos un Presidente de verdad, Colombia està supersegura”, accompagnata a volte da balle spaziali (“la strada per il Chocò è pattugliata costantemente da elicotteri”, giuro che ho sentito anche questa).

Interessante sarà quindi la situazione nel 2010, quando la Costituzione metterà fine legale ai due mandati del “Presidente de Verdad”. A meno che anche la Costituzione non si unisca all’84% dei fedeli.

Buenaventura, è Pacifico


28 Mar

sandro-351.jpgVagavo per la mattina afosa di Cali quando mi accorsi di un fatto importante: non c’era niente di mediocremente interessante da fare in quella città.

Andai così nella stazione degli autobus, e dopo un rapido check della situazione trovai in quel cartello “Buenaventura” un richiamo mistico. D’altra parte si trattava di una città sul Pacifico, e quella poteva essere l’occasione per pucciare il pollicione per la prima volta in quell’oceano così lontano. Controllai così la guida che però non contemplava quella meta, interrogai i passanti che, mantenendosi su livelli discordanti, giungevano alla medesima conclusione: quella città è pericolosa, non andarci.

Tre ore dopo ero così a Buenaventura. Per la prima volta, credo, non avevo passato il viaggio leggendo. Lo spettacolo naturale fuori dal finestino, l’incredibile sequenza di forme vegetali mai viste nè immaginate furono un incantamento continuo. Verde e nero, nero e verde. Il “nero” erano gli esseri umani, che a poco a poco apparivano sempre più a tinta unita, lungo quel cammino per Buenaventura.

D’un tratto, capii. Quella città era figlia di un'”importazione” schiavista-africana di massa, e il livello di povertà e disagio fotografava perfettamente la situazione. Ciònonostante, i colori del mare e i sorrisi delle matrone che mi scorrevano vicino con le loro ceste di maracuja o pesceboh sulla testa rendevano splendidamente sudamericano ed esotico quel posto. D’altra parte, notavo negli sguardi della gente e nei silenzi improvvisi come l’esotico ero io, bianco pseudogringo con una combinazione di vestiti assurdi in quel loro feudo portuale. In un attimo ebbi più di un amico, come accade a chi viaggia da solo e a chi viaggia in una città di neri.

Venne poi la sera, e da lì la notte. In un attimo quell’angolo di mondo cambiò faccia, e tutti i colori del pomeriggio s’incupirono pesantemente. Non c’era la luna, e non c’erano più le matrone dai loro cesti sulla testa. Le vie del porto diventavano adesso proprietà di altre genti, quell’esercito di persone che troppo ovunque popola questo martoriato Paese. A quel punto, comunque, ero lì, e l’Università del Mondo teneva quella sera un’altra lezione: giusto esserci.

Nessun pregiudizio contro quelle due puttane che con finto interesse mi avvicinarono, o contro il loro amico marinaio filippino. Nessun pregiudizio nemmeno contro lo strano sessantenne padrone di un italiano perfetto, e di un dichiarato amore per il Belpaese. Nessun pregiudizio, solo tanta pena, per il 13enne marijuanomane esperto in rapine e fratello del suo coltello. Nessun pregiudizio, solo tanta tantissima attenzione.

Per la cronaca, la notte finì con una cauta fuga in taxi, nonostante il giaciglio fosse a 500 metri dal porto. La prossima volta racconterò cos’è successo il giorno dopo, cioè oggi, il coronamento della Buona Avventura.

Diary of a Baltic Man

Real Eyes. Real Lies. Realize.


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